Quando siamo partiti per l’India avevamo un sacco di appunti ma non molti punti fissi. Avremmo deciso man mano dove andare, quanto stare, cosa vedere. Ma una delle esperienze da fare era stare qualche giorno in homestay.
Cosa significa homestay? Nel posto giusto, vuol dire stare in una sistemazione molto intima, condividendo spazi e tempo con una famiglia che ti ospita.
Noi abbiamo fatto un’esperienza così quando siamo andati al Chhotaram Prajapat Homestay. Si trova a Salawas, vicino a Jodhpur, ed è uno dei luoghi che non dimenticheremo mai anche se quasi nessuno lo conosce.
Come abbiamo scoperto e scelto il nostro homestay indiano
Perché abbiamo scelto proprio questo homestay?
Durante le nostre ricerche ho letto un lungo post su un blog di viaggio. Lo potete vedere qui su The Wandering Quinn.
Ci siamo innamorati dell’idea di passare qualche giorno in famiglia, fuori dalla città, mangiando cose buone.
Quando siamo arrivati a Jodhpur è tornato qualche dubbio. Ne vale la pena? Forse faremmo meglio a non perdere così tanti giorni? Forse costa un pochino “troppo”, e vogliamo viaggiare spendendo il meno possibile?
Ma alla fine abbiamo pensato: quando ci ricapita di fare un’esperienza simile? E così, dopo un lungo scambio di mail con Chhotteram, non vedevamo l’ora di iniziare.
Come è Salawas, e come è l’homestay
Dalla stazione di Jodhpur ci hanno caricato su una jeep aperta e siamo partiti di slancio. Solita guida spericolata, ma stavolta su un veicolo aperto, sospensioni belle rigide, e sedili che guardano a lato e non di fronte. Ad ogni rallentatore, e in India le strade ne sono piene, saltavamo in aria per atterrare sul sedere.
Dopo venti minuti la città ha iniziato a fare spazio alla campagna, o almeno a quella terra un pò desolata e deserta del Rajasthan. Le strade sono diventate sempre più strette, sempre più sterrate, le case sempre più semplici. Eravamo davvero in campagna.
Salawas, il paesino che ospita l’homestay, è un posto carino da visitare, ma non ci vivrei, come si dice in questi casi. Un pò polveroso, sia metaforicamente che letteralmente. Tranquillo, un pò fuori dalle principali rotte turistiche, case un pò malridotte e in tanti casi parecchio malridotte.
L’homestay era una cosa molto particolare, che non avevamo visto prima. Le foto che avevamo visto non rendevano giustizia, bisogna andare dentro a vederlo di persona.
Su un appezzamento di terreno rettangolare c’erano una serie di edifici. Alcuni normali, rettangolari, a uno o due piani, erano i vecchi edifici della fattoria da cui sono partiti. C’erano due cortili che, come nelle fattorie, servono un pò per tutto: magazzino, parcheggio, sala da pranzo all’aperto, area relax…
Al centro c’era una piccola casetta separata: la cucina. Era bellissima. Come un piccolo cottage, una sola stanza, con un camino con un grande fuoco aperto, piccole finestrelle per fare entrare un pò di luce.
Tutto il resto dello spazio era occupato dalle mud hut per l’homestay. Dieci capanne a pianta rotonda, marroni, alcune decorate con disegni sui muri, tutte con il loro bagno. Come sono state costruite? Fango e cacca di mucca. La cacca è molto importante: seccata non puzza in nessun modo, ma tiene lontane le zanzare.
Ci siamo innamorati del posto a prima vista!
Ci piaceva tutto: la cucina vecchio stile, le capanne rotonde, i colori marroni e terra, i portici e il fatto che le aree comuni fossero tutte aperte e all’aperto.
La storia del Chhotaram Prajapat Homestay: dalle stalle alle stelle
Mentre prendiamo il primo di una lunga serie di chai, Chhotaram ci ha raccontato un pò come era nata la loro attività. E’ proprio una di quelle storie di successo inaspettato che piacciono tanto a tutti.
La loro attività tradizionale di famiglia è fare tappeti al telaio, intrecciando i fili di lana o di cotone. La tecnica si chiama Dhurrie. Degli stranieri dalla Gran Bretagna sono venuti ancora prima del 2010 per vedere questa lavorazione artigianale, e hanno chiesto di rimanere anche a dormire.
E così, senza sapere bene che fare e senza esperienza di accoglienza, li hanno ospitati nelle uniche stanze che avevano: le loro, e hanno dormito fuori. Era il loro modo di fare le cose.
Non c’erano bagni, loro andavano in mezzo ai cespugli, e non è stato facile spiegarlo.
Ma gli inglesi sono rimasti lo stesso a dormire, a mangiare, a vivere lì. Loro hanno interagito come fossero gente normale, trattandoli come ospiti, senza pensare di offrire nessun servizio particolare. Non sapevano neppure parlare inglese, solo poche parole.
Poi hanno iniziato ad arrivare in visita altri amici di questi primi inglesi, spesso senza neanche avvisare, anche perché non c’era modo di farlo.
Così hanno iniziato a imparare l’inglese, parlando con le persone che arrivavano.
Un loro ospite e amico ha iniziato a convincere Chhotaram che doveva iniziare a far pagare per dormire.
Che cosa assurda! Non potevano far pagare gli ospiti, non si fa. Alla fine ha pensato di far pagare almeno i pasti, perché per quelli bisogna almeno comprare gli ingredienti.
Quanto far pagare? Secondo il suo amico almeno 1.000 rupie al giorno. Mille rupie? Una cifra folle. Ma poi è stato convinto a chiedere almeno 800 rupie. Era giusto farlo, anche per mantenere la famiglia.
E così iniziano a organizzarsi, a imparare un pò come fare, seguendo i consigli degli amici che venivano a stare da loro. Questo succedeva intorno al 2010. Fino al 2008 non avevano neppure l’elettricità in casa…
Per collegarsi al mondo lo stesso amico gli ha aperto un indirizzo email e gli insegna a usarla e ad andare su internet. Ci mette 1 ora al giorno per una settimana. Per guardare la mail andava in città in un internet cafè, una volta a settimana, per un’ora.
Quando ha iniziato ad andare sempre più spesso, si è deciso a comprare un computer con un finanziamento del governo, ma non c’era la linea per internet. Alla fine è arrivato anche il cavo del telefono, per una connessione 56kbps. La usava di notte, quando era più veloce, e ci metteva comunque un’ora per scaricare la posta e rispondere a qualche messaggio.
Hanno iniziato con una capanna di fango e cacca di mucca, in modo da avere una stanza da dedicare solo agli ospiti. Non c’erano bagni sulle camere, e non aveva neanche mai visto un bagno all’occidentale. Un altro amico lo ha aiutato: sono andati in città a comprare i materiali e poi hanno costruito il primo bagno.
Piano piano sono cresciuti. Quando la blogger ha scritto l’articolo che mi ha convinto c’erano 6 capanne, quando siamo andati noi erano 10, lui vuole arrivare a 11, è un numero che gli piace.
E poi hanno iniziato ad aggiungere le altre attività: i safari village, le passeggiate al tramonto,le cooking class, la nuora che fa i vestiti…
Adesso tutta la famiglia è coinvolta in vario modo, e c’è un continuo traffico di turisti che guardano il dhurrie, o che si fermano qualche giorno, o che fanno i safari, e così via. E’ anche stato in altre parti dell’India a parlare della loro esperienza come di un caso di successo.
Veramente una storia “dalle stalle alle stelle”.
Come viviamo l’homestay
Dopo il benvenuto, il chai, i racconti siamo entrati nella nostra “casa lontana da casa”.
Siamo entrati con i nostri bagagli e da subito ci siamo sentiti molto bene. Era comoda, era pulita, era silenziosa. In una parola: era perfetta.
Ci siamo messi in un tavolino appena fuori la capanna, sotto l’ombra degli alberi, su delle sedie un po’ sgangherate ma comode. In quel momento eravamo gli unici ospiti dell’homestay, la maggior parte della famiglia era altrove, c’era un silenzio e una pace quasi irreali, specialmente dopo il caos e il trambusto di settimane di India.
Ci siamo rilassati, abbiamo letto i nostri libri, abbiamo scritto sui nostri travel journal, Alessia ha fatto cose su Instagram, io ho fatto cose al computer. Nessuna fretta, nessuna tensione, solo serenità e fare quello che volevamo.
Abbiamo deciso quasi subito di rimanere più a lungo del previsto, già dopo poche ore. Volevamo rimanere due giorni e poi andare al monte Abu, ma l’albergo che abbiamo prenotato continuava a non rispondere alle nostre domande, e lì si stava così bene: perché non restare di più?
E così le giornate di viaggio più frenetiche e faticose delle prime settimane hanno rallentato, hanno preso i ritmi lenti della campagna indiana. Noi poi potevamo essere ancora più lenti, visto che non avevamo impegni o obblighi di nessun tipo. Davvero una situazione da sogno.
La famiglia che ci ha accolto in homestay
La famiglia che ci ha accolto era molto numerosa. Come tantissime famiglie indiane è fatta da diversi nuclei familiari che vivono insieme. Ci sono Chhotaram, il titolare, il fratello, che lavora con lui, e le rispettive mogli e figli. Spesso, quasi ogni giorno, passano anche a trovarli i genitori, che abitano nello stesso villaggio.
Chhotaram fa un po’ da capofamiglia e da rappresentante di tutto l’homestay. Accoglie e gestisce gli ospiti, organizza tour e lavori, e così via. E’ un omone con gran baffi, sempre attivo su qualcosa, sempre pronto a fare due chiacchiere o a chiedere se ci serviva qualcosa.
La moglie Mamta è una signora deliziosa, con un sorriso gentilissimo. Sempre impegnata in cucina, o in qualche altro lavoro intorno all’homestay.
Leela è la moglie del fratello di Chhotaram, una ragazza più giovane, che fa anche la sarta e fa vestiti come Alessia! Si sono trovate a parlare un po’ dei loro lavori, le ha mostrato i vestiti e il suo laboratorio: la sua camera da letto.
E poi ci sono i bambini. Non so dire quanti sono, forse una decina. Uno dei fratelli li caricava in jeep la mattina e li portava a scuola, poi tornavano il pomeriggio.
Due di loro erano piccolini e restavano in homestay. Erano giocherelloni, curiosi e sorridenti, e venivano spesso a vedere cosa facevamo. Ogni tanto abbiamo giocato con loro, perché erano sempre così allegri e ridevano per un nonnulla.

Vivere con una famiglia indiana è un’esperienza unica e profonda
Da una parte credevo che “homestay” fosse una cosa un po’ turistica, e che la famiglia se ne sarebbe stata un po’ per i fatti suoi. Dall’altra temevo che potesse esserci un po’ di imbarazzo a stare troppo a contatto con altra gente che non conosco.
Entrambi i miei dubbi erano infondati. Siamo stati subito considerati come parte integrante delle loro giornate, ci salutavano e chiacchieravano con noi quando c’era l’occasione, ci lasciavano ai fatti nostri quando erano impegnati. Tranne i bambini, loro erano un fattore di caos, in senso buono.
E vivendo a contatto con loro, per un po’ di giorni e in maniera prolungata, abbiamo imparato un sacco sulla vita quotidiana degli indiani, le loro piccole abitudini, il modo in cui interagiscono tra loro, i rapporti familiari…
Abbiamo visto dettagli e particolarità che non puoi vedere in nessun altro modo, che nascono proprio dal condividere lo stesso momento, dall’essere lì mentre succedono e avere l’opportunità di notarle perché non stai facendo niente altro.
Per esempio le donne non mangiano con gli uomini, o almeno non è mai successo mentre eravamo lì. Mangiano mentre cucinano, mangiano dopo, o in altri momenti. Ma durante il pasto rimangono un po’ in disparte, e tengono d’occhio che sia tutto a posto o se serve altro. Per noi è una cosa un po’ difficile da concepire.
Ci sono anche un sacco di regole nei rapporti familiari che abbiamo colto solo in parte. Ad esempio la nuora di Chhotaram non poteva parlare mentre lui era in cucina, doveva aspettare che uscisse per riprendere a parlare con Alessia. Anche Mamta, quando era presente il padre di Chhotaram, parlava sottovoce al marito che poi riferiva al padre.
Il galateo che seguono a tavola è molto diverso dal nostro, e mangiare con le mani non è neanche l’aspetto che ci sembra più strano.
Quando cucinano il chapati, che per loro è come il pane ma ancora più importante, ne fanno in proporzioni prestabilite: tre per loro, uno per la mucche, uno per i cani. E le mucche e i cani non sono neanche loro, danno semplicemente da mangiare ai randagi e alle mucche che si aggirano per le strade.
I bambini sono lasciati in completa libertà mentre i grandi fanno in loro mestieri. Già da piccoli girano per conto loro, giocano, fanno un po’ di tutto senza supervisione. Poi bene o male sono dentro la proprietà, quindi non possono andare a cacciarsi in guai troppo seri.
L’attività di Leela, fare vestiti, è un’attività “residua” da fare quando non ci sono altri lavori comuni. Magari da fare la sera. Altrimenti deve aspettare quando ha tempo ed energie.
Il cibo in homestay è un’altra cosa
Non possiamo parlare di questa esperienza e di questi giorni senza dare uno spazio speciale al cibo.
Mangiare qui è stata un’esperienza meravigliosa che consiglio a tutti. Raramente abbiamo mangiato così bene, così tanto, così vario.
Abbiamo mangiato più di una dozzina di pasti, e ogni volta era un banchetto.
Ci trovavamo davanti almeno tre o quattro cose da mangiare, e solo un paio di volte ci sono state delle ripetizioni. Sempre prelibatezze nuove, tutte buonissime, tutte tradizionali, tutte sane e genuine, e ovviamente tutte vegetariane. Anche per me, che invece la carne la apprezzo molto, l’ultimo punto non è stato un problema.
Anche i signori indiani che erano nostri compagni di homestay hanno fatto una montagna di complimenti alle cuoche, ripetendo più volte che tanti piatti non li avevano mai provati, o non erano mai stati così buoni. “Piatti così non li trovi in nessun hotel” dicevano, e ne sono convinto.
Tra le cose che hanno apprezzato di più, e che anche noi abbiamo amato, c’era il millet bread cucinato sul fuoco del caminetto. Non cercatelo su internet, vengono fuori altre cose, e anche le foto più simili non rendono affatto l’idea di quello che abbiamo mangiato. Si sentiva proprio che era genuino e fatto a mano, e ogni volta ne mangiavo una quantità esagerata.
Pagare per la pensione completa è stato uno dei migliori investimenti che ho fatto, e non rimpiango neanche per un secondo il prezzo pagato (che comunque per gli standard europei è una miseria).
Vita in homestay: cosa vuol dire timelessness
I giorni successivi in homestay sono stati un po’ una ripetizione del primo: mangiare, rilassarsi, mangiare ancora, starsene sereni, mangiare ancora, dormire bene.
Per il resto ci impegnavamo molto… a fare il meno possibile. Non è stato per niente facile. La testa cercava sempre di farci fare qualcosa: studiare, fare ricerche, scrivere, chiedere che attività offrivano. Ma abbiamo cercato di resistere.
La coppia di signori indiani che è arrivata poco dopo di noi ha detto di averci visto rilassarci al tavolino sotto gli alberi, e di essere stati ispirati dal nostro esempio. Erano arrivati dall’altra parte dell’India per visitare Jodhpur e fare questo e quello, ma hanno deciso di passare molto più tempo in homestay in relax.
La parte più bella di queste giornate, così difficile da vivere altrove, è stata il senso di timelessness che evocavano. Sembrava di essere in una sensazione “senza tempo”, dove ogni momento sembra uguale a quello prima, ogni giornata uguale a quella prima e a quella dopo.
Se me lo avessero raccontato prima del viaggio, mi sarebbe sembrato di una noia mortale.
Ma in quei giorni, in quella situazione, avremmo voluto che non finissero mai.
Momenti ed esperienze memorabili in homestay indiano
In mezzo a questo periodo sospeso nel tempo, ci sono stati dei momenti memorabili che brillano tra i nostri ricordi.
Uno di questi è la cooking class che abbiamo fatto il primo pomeriggio. E’ stato un vero tour de force: abbiamo iniziato alle due e abbiamo finito per metterci a tavola alle otto di sera!
Siamo partiti facendo il chai, e uno snack che a loro piace molto.
Poi abbiamo raccolto le verdure dall’orto e siamo andati a comprare ingredienti al mercato.
Abbiamo pelato e tagliato le verdure.
Abbiamo messo in pentola e mixato con spezie di tutti i tipi.
Abbiamo preparato il chapati e lo abbiamo messo sul fuoco (a mani nude, come fanno loro).
Alla fine abbiamo fatto la bellezza di nove piatti diversi. Mamta e Leela sono state delle maestre bravissime ed esigenti: non c’era riposo, bisognava cucinare!

La sera ci siamo mangiati tutto quello che avevamo preparato insieme, ed è stata una soddisfazione vederli mangiare quello che avevamo cucinato. Ok, il merito era di Mamta e Leela, ma abbiamo almeno dato una mano.
Altri ricordi che ci rimarranno impressi sono le chiacchierate fatte mangiando insieme.
Chhotaram è un conversatore esperto, capace di raccontare aneddoti, spiegare usanze e costumi, commentare la situazione dell’India moderna, e molto di più.
Anche parlare con gli altri ospiti indiani è stato un piacere. il signor Nikunja Kishore era una miniera di informazioni sulla mitologia indù: gli dei, le storie, le leggende. Ma parlava anche della situazione socio economica dell’India, del suo passato, del suo presente, e del suo futuro. Sua moglie ogni tanto lo correggeva, ogni tanto lo aiutava o aggiungeva dettagli.
Condividere il cibo, parlare un pò, cercare di capirci a vicenda, rendeva ogni pasto un piccolo momento speciale.
Alessia ha anche avuto l’occasione di vivere un momento molto “quotidiano” con le donne dell’homestay. Dopo qualche giorno che stavamo lì eravamo ormai di casa, e si è offerta di aiutarle con la preparazione della cena.
Così nel pomeriggio è andata con loro in cucina, e si è messa all’opera. Ha pelato e tagliato quantità enormi di verdure, ha chiacchierato un po’ con loro, ha condiviso un momento che per loro è una parte importante della giornata, in un luogo che è un po’ esclusivo per loro. Gli uomini passano per la cucina solo per brevi momenti, quello è il regno delle donne.
Ora che ci penso, tutte queste esperienze hanno una cosa in comune: il cibo. E’ davvero un modo di connettere le persone, più importante di quello che pensiamo.
Fine dell’esperienza in homestay
Dopo qualche giorno di vita beata in homestay, ci sembrava quasi che non potesse esserci nulla di meglio. Avevamo una mezza voglia di rimanere lì a tempo indefinito: ci compriamo la nostra capanna di fango e stiamo lì a goderci una vita serena e spensierata.
Ma alla fine abbiamo resistito alla tentazione, anche se a fatica.
Il ritorno alla realtà è stato duro: sveglia alle 4 del mattino, in jeep fino in stazione con il freddo delle cinque, e ore di treno per arrivare alla successiva destinazione.
Ci portiamo via i ricordi, le sensazioni, i sorrisi, le chiacchierate, la serenità, e tutto quello che abbiamo vissuto quando la vita rallenta e ti lascia vivere momento per momento.
Le situazioni e l ambiente che racconti sono sorprendenti un altro mondo..
Anche da noi le nostre nonne e bisnonne non mangiavano a tavola con gli uomini ma sulla scala vicino alla cucina.
La homestay sarebbe una bella doccia fredda per noi occidentali: ci aiuterebbe a capire il senso e il valore della nostra vita. Dopo possiamo tornare al lavoro normale, però intanto abbiamo messo a posto la nostra vita interiore.