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Informativa ai sensi dell'art. 13 del Regolamento Generale UE 679/2016 sulla protezione dei dati personali.

Carlo Scomparin, con sede in Vicolo Brolo 1/a - 31050 Povegliano /TV), (di seguito, il “titolare”) informa di essere Titolare del trattamento ai sensi degli articoli 4, n. 7) e 24 del Regolamento UE 2016/679 del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (di seguito, “Regolamento”) dei dati personali raccolti su questo sito web  (“Sito”). Di seguito, con i termini “Interessato” o “Utente”, sia al singolare che al plurale, si intenderanno complessivamente le persone fisiche maggiori di età; le persone fisiche di anni sedici in proprio; i minori di anni sedici autorizzati da chi esercita la potestà genitoriale.

Per trattamento di dati personali si intende qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l'ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, anche se non registrati in una banca di dati, come la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l'elaborazione, la selezione, il blocco, l'adattamento o la modifica, l'estrazione, la consultazione, l'uso, la comunicazione mediante trasmissione, la diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l'interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione.

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Come richiesto dalle Linee Guida in materia di trasparenza WP 260/2017, si forniscono in prima battuta gli estremi identificativi del Titolare del trattamento dei dati e tutte le informazioni per contattarlo rapidamente.

Carlo Scomparin
Vicolo Brolo 1/a - 31050 Povegliano
Mail:
carlo.scomparin@gmail.com

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Cookie di profilazione (non operativi su questo Sito). Si tratta di cookies permanenti utilizzati per identificare (in modo anonimo e non) le preferenze dell’utente e migliorare la sua esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni su questi cookie non utilizzati dal Sito Web vi invitiamo a visitare la sezione apposita sul sito www.garanteprivacy.it/cookie

Finalità del trattamento e scopi dei cookies tecnici di sessione.

I cookies utilizzati sul Sito hanno esclusivamente la finalità di eseguire autenticazioni informatiche o il monitoraggio di sessioni e la memorizzazione di informazioni tecniche specifiche riguardanti gli utenti che accedono ai server del Titolare del trattamento che gestisce il Sito. In tale ottica, alcune operazioni sul Sito non potrebbero essere compiute senza l'uso dei cookies, che in tali casi sono quindi tecnicamente necessari. A titolo esemplificativo, l'accesso ad eventuali aree riservate del Sito e le attività che possono essere ivi svolte sarebbero molto più complesse da svolgere e meno sicure senza la presenza di cookies che consentono di identificare l'utente e mantenerne l'identificazione nell'ambito della sessione.

I cookies "tecnici" possano essere utilizzati anche in assenza del consenso dell’interessato. Tra l’altro, lo stesso organismo europeo che riunisce tutte le Autorità Garanti per la privacy dei vari Stati Membri (il c.d. Gruppo "Articolo 29" ) ha chiarito nel Parere 4/2012 (WP194) intitolato “Esenzione dal consenso per l’uso dei cookies” che sono cookies per i quali non è necessario acquisire il consenso preventivo e informato dell'utente:

  1. cookies con dati compilati dall'utente (identificativo di sessione), della durata di una sessione o cookies persistenti limitatamente ad alcune ore in taluni casi;
  2. cookies per l'autenticazione, utilizzati ai fini dei servizi autenticati, della durata di una sessione;
  3. cookies di sicurezza incentrati sugli utenti, utilizzati per individuare abusi di autenticazione, per una durata persistente limitata;
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  6. cookies persistenti per la personalizzazione dell'interfaccia utente, della durata di una sessione (o poco più);
  7. cookies per la condivisione dei contenuti mediante plug-in sociali di terzi, per membri di una rete sociale che hanno effettuato il login.

Il Titolare del trattamento informa dunque che sul Sito sono operativi esclusivamente cookies tecnici (come quelli sopra elencati) necessari per navigare all’interno del Sito poichè consentono funzioni essenziali quali autenticazione, validazione, gestione di una sessione di navigazione e prevenzione delle frodi e consentono ad esempio: di identificare se l’utente ha avuto regolarmente accesso alle aree del sito che richiedono la preventiva autenticazione oppure la validazione dell’utente e la gestione delle sessioni relative ai vari servizi e applicazioni oppure la conservazione dei dati per l’accesso in modalità sicura oppure le funzioni di controllo e prevenzione delle frodi.

Per la massima trasparenza, si elencano di seguito una serie di cookies tecnici e di casi di operatività specifica sul Sito:

  • i cookies impiantati nel terminale dell'utente/contraente direttamente (che non saranno utilizzati per scopi ulteriori) come ad esempio cookies di sessione utilizzati per "riempire il carrello" nelle prenotazioni on line sul Sito, cookies di autenticazione, cookies per contenuti multimediali tipo flash player che non superano la durata della sessione, cookies di personalizzazione (ad esempio, per la scelta della lingua di navigazione, richiamo ID e password complete con la digitazione dei primi caratteri, etc);
  • i cookies utilizzati per analizzare statisticamente gli accessi/le visite al sito (cookies cosiddetti "analytics") che perseguono esclusivamente scopi statistici (e non anche di profilazione o di marketing) e raccolgono informazioni in forma aggregata senza possibilità di risalire alla identificazione del singolo utente. In questi casi, dal momento che la normativa vigente prescrive che per i cookies analytics sia fornita all’interessato l’indicazione chiara e adeguata delle modalità semplici per opporsi (opt-out) al loro impianto (compresi eventuali meccanismi di anonimizzazione dei cookies stessi), specifichiamo che è possibile procedere alla disattivazione dei cookies analytics come segue: aprire il proprio browser, selezionare il menu impostazioni , cliccare sulle opzioni internet, aprire la scheda relativa alla privacy e scegliere il desiderato livello di blocco cookies. Qualora si voglia eliminare i cookies già salvati in memoria è sufficiente aprire la scheda sicurezza ed eliminare la cronologia spuntando la casella “elimina cookies".

Cookies di terze parti

Visitando un sito web si possono ricevere cookie da siti gestiti da altre organizzazioni (“terze parti”) che possono risiedere in Italia o all’estero.

Un esempio presente nella maggior parte di siti internet è rappresentato dalla presenza di video YouTube, API Google, utilizzo di Google Maps, e l’utilizzo dei “social plugin” per Facebook, Twitter, e LinkedIn. Si tratta di parti della pagina visitata generate direttamente dai suddetti siti ed integrati nella pagina del sito ospitante. L’utilizzo più comune dei social plugin è finalizzato alla condivisione dei contenuti sui social network al fine di aumentare la user experience del visitatore.

La presenza di questi plugin comporta la trasmissione di cookie da e verso tutti i siti gestiti da terze parti. La gestione delle informazioni raccolte da “terze parti” è disciplinata dalle relative informative cui si prega di fare riferimento. Per garantire una maggiore trasparenza e comodità, si riportano qui di seguito gli indirizzi web delle diverse informative e delle modalità per la gestione dei cookie, specificando che il Titolare del trattamento non ha responsabilità per la operatività su questo Sito di cookies di terze parti.

Cookie di analisi (Analytics)

Il Sito utilizza il servizio Google Analytics ma è previsto l’intervento per rendere anonimi gli IP con gli strumenti offerti da Google. Si veda l’Informativa cookie di Google per Google Analytics al seguente link http://developers.google.com/analytics/devguides/collection/analyticsjs/cookie-usage e si approfondisca il metodo con cui Google – terza parte – utilizza i dati dei propri utenti al link https://support.google.com/analytics/answer/6004245.

Come chiarito dal Provvedimento Generale del Garante privacy sui cookies dell’8 Maggio 2014 i cookie analytics sono assimilati ai cookie tecnici laddove utilizzati direttamente dal gestore del sito per raccogliere informazioni, in forma aggregata, sul numero degli utenti e su come questi visitano il sito stesso: sono esattamente tali le funzionalità e finalità del trattamento su questo Sito.

Si può comunque effettuare l’opt-out visitando il sito web http://tools.google.com/dlpage/gaoptout?hl=en eseguendo l’opt-out, inoltre è possibile negare il consenso e bloccare i cookies di terze parti tramite plugins per i browsers, cercando su Google “bloccare ed eliminare cookies di terze parti” sono presenti moltissime guide che differiscono a seconda del sistema operativo e del browser utilizzati.

Responsabilità per operatività di Cookies di Terze Parti.

Si richiama in materia quanto previsto dal Provvedimento Generale del Garante privacy sui cookies dell’8 Maggio 2014: “Vi sono molteplici motivazioni per le quali non risulta possibile porre in capo all’editore l’obbligo di fornire l’informativa e acquisire il consenso all’installazione dei cookie nell’ambito del proprio sito anche per quelli installati dalle “terze parti”. In primo luogo, l’editore dovrebbe avere sempre gli strumenti e la capacità economico-giuridica di farsi carico degli adempimenti delle terze parti e dovrebbe quindi anche poter verificare di volta in volta la corrispondenza tra quanto dichiarato dalle terze parti e le finalità da esse realmente perseguite con l’uso dei cookie. Ciò è reso assai arduo dal fatto che l’editore spesso non conosce direttamente tutte le terze parti che installano cookie tramite il proprio sito e, quindi, neppure la logica sottesa ai relativi trattamenti. Inoltre, non di rado tra l’editore e le terze parti si frappongono soggetti che svolgono il ruolo di concessionari, risultando di fatto molto complesso per l’editore il controllo sull’attività di tutti i soggetti coinvolti. I cookie terze parti potrebbero, poi, essere nel tempo modificati dai terzi fornitori e risulterebbe poco funzionale chiedere agli editori di tenere traccia anche di queste modifiche successive.”

Come indicato dal Garante della Privacy il presente Sito non ha la possibilità di controllare i cookies di terze parti qualora utilizzasse servizi di terze parti (YouTube, Google Maps, “social buttons”) di cui hanno responsabilità esclusivamente le terze parti. Inoltre, si richiama la possibilità per l’utente di cancellare e bloccare l’operatività dei cookies in qualsiasi momento utilizzando anche plugins per il browser e modificandone le impostazioni come indicato nei vari manuali contenuti nei browser.

Obbligatorietà o facoltatività del consenso per l’operatività di cookies che non perseguono scopi di marketing.

Non è obbligatorio acquisire il consenso alla operatività dei soli cookies tecnici o di terze parti o analitici assimilati ai cookies tecnici. La loro disattivazione e/o il diniego alla loro operatività comporterà l’impossibilità di una corretta navigazione sul Sito e/o la impossibilità di fruire dei servizi, delle pagine, delle funzionalità o dei contenuti ivi disponibili.

Esercizio dei diritti da parte dell’interessato.

Ai sensi degli articoli 13, comma 2, lettere (b) e (d), da 15 a 22 del Regolamento, si informa l’interessato che:

  1. ha il diritto di chiedere al titolare l'accesso ai dati personali, la rettifica o la cancellazione degli stessi o la limitazione del trattamento che lo riguardano o di opporsi al loro trattamento, nei casi previsti;
  2. ha il diritto di proporre – in Italia - un reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, se Autorità competente, seguendo le procedure e le indicazioni pubblicate sul sito web ufficiale dell’Autorità su www.garanteprivacy.it;
  3. in alternativa, ha diritto di proporre un reclamo ad altra competente Autorità privacy europea ubicata nel luogo di abituale residenza o domicilio in Europa di chi contesta una violazione dei propri diritti, seguendo le procedure e le indicazioni del caso;
  4. le eventuali rettifiche o cancellazioni o limitazioni del trattamento effettuate su richiesta dell’interessato - salvo che ciò si riveli impossibile o implichi uno sforzo sproporzionato – saranno comunicate dal titolare a ciascuno dei destinatari cui sono stati trasmessi i dati personali. Il titolare potrà comunicare all'interessato tali destinatari qualora l'interessato lo richieda.

L’esercizio dei diritti non è soggetto ad alcun vincolo di forma ed è gratuito. Solo in caso di richiesta di ulteriori copie dei dati richieste dall'interessato, il titolare potrà addebitare un contributo spese ragionevole basato sui costi amministrativi. Se l'interessato presenta la richiesta mediante mezzi elettronici, e salvo indicazione diversa dell'interessato, le informazioni sono fornite in un formato elettronico di uso comune. Lo specifico indirizzo del titolare per trasmettere istanze di esercizio dei diritti come riconosciuti dal Regolamento è il seguente: carlo.scomparin@gmail.com. Non sono richieste altre formalità. Il riscontro verrà dato nei termini previsti dall’articolo 12, comma 3 del Regolamento (“Il titolare del trattamento fornisce all'interessato le informazioni relative all'azione intrapresa riguardo a una richiesta ai sensi degli articoli da 15 a 22 senza ingiustificato ritardo e, comunque, al più tardi entro un mese dal ricevimento della richiesta stessa. Tale termine può essere prorogato di due mesi, se necessario, tenuto conto della complessità e del numero delle richieste. Il titolare del trattamento informa l'interessato di tale proroga, e dei motivi del ritardo, entro un mese dal ricevimento della richiesta. Se l'interessato presenta la richiesta mediante mezzi elettronici, le informazioni sono fornite, ove possibile, con mezzi elettronici, salvo diversa indicazione dell'interessato”)

In base a quanto previsto dalle Linee Guida in materia di trasparenza WP 260/2017 emanate dal Gruppo dei Garanti UE, nella indicazione dei diritti dell’interessato il titolare del trattamento deve specificare un sommario/sintesi di ciascun diritto in questione e deve fornire separate indicazioni sul diritto alla portabilità.

Informazioni specifiche sul diritto alla portabilità dei dati personali.

Il titolare informa l’interessato circa lo specifico diritto alla portabilità. L’articolo 20 del Regolamento generale sulla protezione dei dati introduce il nuovo diritto alla portabilità dei dati. Tale diritto consente all’interessato di ricevere i dati personali forniti al titolare in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico, e  - a certe condizioni - di trasmetterli a un altro titolare del trattamento senza impedimenti.

Sono portabili i soli  dati personali che (a) riguardano l’interessato, e (b) sono stati forniti dall’interessato al titolare sulla base del consenso; (c) sono trattati elettronicamente nell’ambito della stipula di un contratto.

Non essendo il trattamento basato nè su consenso nè su un Contratto, il diritto alla portabilità non trova applicazione.


Informazioni di sintesi sugli altri diritti dell’interessato.

Il Regolamento conferisce all’interessato una serie di diritti che ai sensi delle Linee Guida sulla Trasparenza WP 260 è obbligatorio riassumere nel loro contenuto principale all’interno dell’informativa. Di seguito tali diritti  si riassumono e sintetizzano:

Diritto di accesso (ai soli propri dati personali): diritto di ottenere dal titolare del trattamento la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati personali che riguardano l’interessato e in tal caso, di ottenere l'accesso ai dati personal e di essere informato sulle finalità del trattamento; sulle categorie di dati personali in questione; sui  destinatari o le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o saranno comunicati, in particolare se destinatari di paesi terzi o organizzazioni internazionali; quando possibile, sul periodo di conservazione dei dati personali previsto oppure, se non è possibile, sui criteri utilizzati per determinare tale periodo; qualora i dati non siano stati raccolti presso l'interessato, diritto a ricevere tutte le informazioni disponibili sulla loro origine; diritto a ricevere l’informazione sulla esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione e le informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l'interessato.

Diritto di rettifica e integrazione: L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano senza ingiustificato ritardo. Tenuto conto delle finalità del trattamento, l'interessato ha il diritto di ottenere l'integrazione dei dati personali incompleti, anche fornendo una dichiarazione integrativa. ll titolare del trattamento comunica a ciascuno dei destinatari cui sono stati trasmessi i dati personali le eventuali rettifiche, salvo che ciò si riveli impossibile o implichi uno sforzo sproporzionato. Il titolare del trattamento comunica all'interessato tali destinatari qualora l'interessato lo richieda.

Diritto alla cancellazione:  l'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo (e ove non sussistano le specifiche ragioni dell’art. 17 comma 3 del Regolamento che al contrario sollevano il titolare dall’obbligo di cancellazione) se i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati; oppure se l'interessato revoca il consenso e non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento; oppure se l'interessato si oppone al trattamento a scopi marketing o profilazione, anche revocando il consenso ; se i dati personali sono stati trattati illecitamente o riguardano informazioni raccolte presso minori, in violazione dell’art. 8 del Regolamento. ll titolare del trattamento comunica a ciascuno dei destinatari cui sono stati trasmessi i dati personali le eventuali  cancellazioni salvo che ciò si riveli impossibile o implichi uno sforzo sproporzionato. Il titolare del trattamento comunica all'interessato tali destinatari qualora l'interessato lo richieda.

Diritto alla limitazione del trattamento: l'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la limitazione del trattamento (cioè, ai sensi della definizione di “limitazione del trattamento” fornita dall’articolo 4 del Regolamento: “il il contrassegno dei dati personali conservati con l'obiettivo di limitarne il trattamento in futuro”)  quando ricorre una delle seguenti ipotesi: l'interessato contesta l'esattezza dei dati personali, per il periodo necessario al titolare del trattamento per verificare l'esattezza di tali dati personali; il trattamento è illecito e l'interessato si oppone alla cancellazione dei dati personali e chiede invece che ne sia limitato l'utilizzo; benché il titolare del trattamento non ne abbia più bisogno ai fini del trattamento, i dati personali sono necessari all'interessato per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria; l'interessato si è opposto al trattamento  marketing, in attesa della verifica in merito all'eventuale prevalenza dei motivi legittimi del titolare del trattamento rispetto a quelli dell'interessato. Se il trattamento è limitato tali dati personali sono trattati, salvo che per la conservazione, soltanto con il consenso dell'interessato o per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria oppure per tutelare i diritti di un'altra persona fisica o giuridica o per motivi di interesse pubblico rilevante L'interessato che ha ottenuto la limitazione del trattamento è informato dal titolare del trattamento prima che detta limitazione sia revocata. ll titolare del trattamento comunica a ciascuno dei destinatari cui sono stati trasmessi i dati personali le eventuali limitazioni, salvo che ciò si riveli impossibile o implichi uno sforzo sproporzionato. Il titolare del trattamento comunica all'interessato tali destinatari qualora l'interessato lo richieda.

Diritto di opposizione: l'interessato ha il diritto di opporsi in qualsiasi momento, per motivi connessi alla sua situazione particolare, al trattamento dei dati personali che lo riguardano svolto dal titolare o per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento o svolto per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi (ivi inclusa la profilazione). Inoltre l'interessato, qualora i dati personali siano trattati per finalità di marketing diretto o di profilazione commercial, ha il diritto di opporsi in qualsiasi momento al trattamento dei dati personali che lo riguardano effettuato per tali finalità.

Diritto di non essere sottoposto a decisioni automatizzate, compresa la profilazione: l'interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona, salvo nei casi in cui la decisione automatizzata sia necessaria per la conclusione o l'esecuzione di un contratto tra l'interessato e un titolare del trattamento; sia prevista dalla legge, nel rispetto di misure e cautele; si basi sul consenso esplicito dell'interessato.

Per utilità è comunque di seguito riportato il link agli articoli da 15 a 23 del Regolamento sui diritti dell’interessato.

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Vagabondi

over 40!

Di cosa parliamo

Siamo due viaggiatori di una certa età che non hanno rinunciato a partire per l'ignoto. Siamo partiti per esplorare l'India, e qui proveremo a raccontare questa nuova avventura.
Più in basso trovi i post con gli ultimi aggiornamenti.

Viaggio sabbatico

Per questo viaggio abbiamo preso alcune decisioni abbastanza drastiche: liberare 6 mesi della nostra vita, non prendere il biglietto di ritorno... Questo cambia tutto nella tua testa: sarà un "cambio vita" completo.

COSA SIGNIFICA VIAGGIO SABBATICO

Dove andremo

Dove siamo? Dove stiamo andando? Non lo sappiamo di preciso. Ma prima di partire ci siamo fatti un'idea della direzione che vogliamo prendere. Ecco dove vorremmo andare.

PERCORSO

Chi siamo

Lei è(ra) una sarta, lui è(ra) un S.E.O. specialist: adesso sono solo dei vagabondi!

Siamo due viaggiatori di una certa età, ma questo non basta a fermarci (diciamo che ci rallenta un pò).
Siamo partiti per esplorare l'India, e chissà come andrà questa volta!

Se vuoi conoscerci meglio puoi cliccare sul link qui sotto

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Esperienze indimenticabili in India

Stiamo viaggiando per l'India in un vagabondaggio senza programmi precisi e senza tempi stabiliti. Così riusciamo a vivere momenti speciali quando meno ce lo aspettiamo. E anche a fare qualche esperienza "classica" che non può mancare da un viaggio in India.

Così in questo post parliamo delle nostre migliori esperienze, quelle che per noi saranno più memorabili, che ci hanno colpito, che desideravamo fortemente fare.

La lista viene aggiornata lungo il viaggio, quindi torna ogni tanto a vedere cosa c'è di nuovo!

  1. vedere il Taj Mahal: sarà anche cliché e banale, ma a volte i cliché esistono per un motivo. E il Taj Mahal si meriti il suo nome e la sua fama
  2. provare il cibo di strada indiano: in ogni città
  3. bere il lassi: in tante città. A volte è buono, a volte meno...
  4. girare in un tuc tuc sgangherato: quasi in ogni città
  5. chiacchierare con un indiano sconosciuto: un pò dappertutto, soprattutto in treno, a Jodhpur
  6. giocare con i bambini indiani: un pò dappertutto: Delhi, Agra, Jodhpur
  7. assistere a un rito in un tempio indù (in una città sacra dell'India): a Mathura, città di nascita di Krishna
  8. fare selfie con gli indiani come fossimo star di Hollywood: praticamente dappertutto
  9. fare un piccolo corso di artigianato indiano: stampa a blocchi a Jaipur e Ajrakhpur, e poi tanti altri
  10. Vedere un film indiano al cinema: film comico-horror in cinema stile anni '20 a Jaipur
  11. andare nel tempio dei ratti: in paesino poco distante da Bikaner
  12. fare S.E.O. in India: in un homestay fuori Jodhpur
  13. stare fermi davvero: in homestay nella campagna di Jodhpur abbiamo fatto dei giorni timeless, sembrava potessero andare avanti per sempre
  14. farsi fregare da un tuk tuk: non è che proprio volevamo farlo, ma sono cose che succedono. Ad Ahmedabad ci ha portato a un parco omonimo di quello che avevamo chiesto, che guarda caso era più vicino. A Bhuj ha proprio sbagliato a capire, ho dovuto dargli indicazioni io e alla fine anche pagarlo tutto quello che avevamo concordato...
  15. imparare a cucinare un piatto indiano: abbiamo fatto una cooking class in homestay a Jodhpur, e un'altra nel Kutch. Un sacco di piatti, e forse qualcuno ce lo ricorderemo anche (incrociamo le dita)
  16. imparare dagli artigiani dell'India: Alessia ha fatto il pieno di embroidery nel Kutch
  17. stare in un villaggio "estremo": nel Kutch, un'esperienza fuori dal mondo
  18. farsi dare un passaggio: a Bhuj, il più facile di tutti. Una coppia molto distinta si offre di riportarci in città, dopo che siamo usciti tutti dallo stesso museo.
  19. prendere un treno notturno di notte: da Bhuj ad Ahmedabad, dalle otto alle due (e poi si cambia stazione per prendere un altro treno!)
  20. fare un corso di miniature: a Udaipur, che è famosa per quello
  21. conoscere bene un indiano: il nostro amico Raj di Bundi ormai è un appuntamento fisso. Nel suo negozio parliamo di lavoro, di meditazione, di investimenti, di vita di coppia...
  22. mangiare cosa piccante da morire: Carlo ha mangiato quello che probabilmente era un peperoncino verde e per poco non ci restava secco
  23. andare da un barbiere indiano: il mercato di Bundi, sotto un albero, è il posto giusto per dare una spuntatina ai capelli. E a Varanasi ho fatto il trattamento completo (capelli, barba, massaggio al viso e al corpo)
  24. dormire in una vera casa di campagna indiana: è una gara tra Orchha (vitello, gechi in bagno, tetto di coppi sopra la testa) e Khajuraho (casa in mezzo ai campi, ranocchia in bagno, famiglia tutta strana)
  25. vedere i templi di Khajuraho
  26. accettare inviti da sconosciuti: a Khajuraho per due giorni consecutivi siamo andati a bere un chai a casa di gente appena conosciuta. Tranquilla mamma, siamo ancora vivi.
  27. stare in treno una vita: da Orchha a Bodhgaya via Varanasi. Da mezzogiorno alle dieci del mattino successivo, con una pausa rinvigorente in stazione a Varanasi, dalle tre alle sei del mattino con dieci gradi di massima
  28. meditare sotto l'albero di Buddha: nel tempio di Mahabodhi c'è il bodhi tree, l'albero sotto il quale Buddha ha raggiunto l'illuminazione 2.500 anni fa. Noi abbiamo solo meditato, per ora senza illuminazione.
  29. passeggiare per i ghat di Varanasi
  30. giocare a frisbee agonistico con ragazzi indiani: ad Adari, in parti sconosciute dell'Uttar Pradesh
  31. insegnare informatica a bambine indiane: in una scuola per ragazze nel mezzo della campagna intorno a Lucknow
  32. contrattare fino alla morte per comprare qualcosa in un bazar (in attesa)
  33. fare qualche giorno di meditazione in qualche ashram (in attesa)
  34. prendere un treno in classe infima (in attesa)

Chi siamo!

Ciao! Siamo Alessia e Carlo! Grazie per essere qui!

Siamo due viaggiatori, due compagni di avventure e due compagni di vita! A quarantatré anni (compiuti per Alessia, da compiere per Carlo) abbiamo deciso di non aspettare più e di prenderci un periodo sabbatico in viaggio.

Sono Alessia!

Viaggiare mi fa sentire libera e tutte le mie insicurezze scompaiono!

Sono una sognatrice e una creativa, spesso ho la testa per aria piena di idee e di progetti. Amo l'artigianato in ogni sua forma! Cucio per passione e per lavoro e non mi lascio scappare nessun mercato e bazar di tessuti!

Sono molto testarda e quando voglio determinata! Amo le sfide, la natura, le avventure, la musica rock, perdermi nei luoghi, vivere il posto in cui sono! Fino a qualche tempo fa cercavo di avere il controllo su ogni aspetto della mia vita, ora la mia anima "hippy" sta prendendo il sopravvento. Da brava Bilancia sono alla costante ricerca di un equilibrio personale.

In viaggio non possono mai mancare i miei acquerelli e il mio blocco di fogli dove cerco di imprimere le mie emozioni!

Sono Carlo!

Amo viaggiare perché sono sempre alla ricerca di nuove cose da vedere e da imparare.

La mia attività preferita è... imparare. Sono riuscito a trasformarla anche nel mio lavoro: faccio marketing digitale e S.E.O. da più di 10 anni, imparando il più possibile per diventare sempre più bravo.

Normalmente passo tanto tempo davanti al computer e nella mia testa. La mia routine comprende tanta lettura, tanti progetti, tante cose da imparare, meditazione, esperimenti...

Poi ogni tanto facciamo lo zaino e partiamo per una nuova avventura (dopo le dovute ricerche, ovviamente)

In viaggio non possono mai mancare taccuino ed e-book reader.

Riusciamo a compensarci ed equilibrarci. E siamo pronti per affrontare insieme questo nuovo obiettivo: un periodo sabbatico in viaggio!

Se vi va potete seguire le avventure di questi due "over 40" che viaggeranno per l'India con zaino in spalla, on the road, con mezzi pubblici e con un budget limitato. Ce la faremo nonostante l'età? Noi ci contiamo! 😉

Percorso

Magari non lo sapete, ma in India ci sono un sacco di cose da vedere...
Abbiamo dovuto fare tante ricerche per orientarci, e poi molta fatica per eliminare un sacco delle cose che avevamo scoperto. Non c'è abbastanza tempo...

Alla fine ecco l'itinerario che ci siamo fatti nella nostra testa. Vedremo se riusciremo a seguirlo, o se finiremo chissà dove...

  • New Delhi (fatto)
  • Mathura (fatto)
  • Vrindavan (no)
  • Agra (fatto)
  • Jaipur (fatto)
  • Bikaner (fatto)
  • Jaisalmer (no)
  • Jodhpur (fatto)
  • Dilwara (fatto)
  • Ahmedabad (fatto)
  • Buhj (fatto)
  • Udaipur (fatto)
  • Chittorgar (no)
  • Bundi (fatto)
  • Orchha (fatto)
  • Khajuraho (fatto)
  • Bodhgaya (fatto)
  • Varanasi (fatto)

E questo è solo per i primi mesi!

Poi andremo a fare un giro in Nepal, tanto è lì vicino ;-)

E poi... si vedrà.

post

Viaggiare in India non è solo divertimento

Alessia si è accorta che i post e le storie sul nostro Instagram potrebbero dipingere un’immagine fin troppo rosea del nostro viaggio e dell’India.

E’ un posto meraviglioso, ci divertiamo, è il viaggio di una vita. Ma non è tutto rose e fiori, ed è difficile a volte rendere la situazione completa. Ad esempio, di tante belle foto non possiamo trasmettere gli odori che si sentivano al momento dello scatto…

Così qui proviamo a parlare dei momenti difficili e delle difficoltà. Non tutto è bello e patinato come su Instagram, ma è anche quello che aggiunge ricordi e profondità al viaggio.

India: forse il paese più stancante al mondo

L’India è il Paese più affascinante che abbiamo esplorato. Spesso per gli stessi motivi, è anche il Paese più stancante, dove anche le attività più semplici sembrano richiedere molte più energie.

Tutto è diverso dall’Europa, e le strade sono piene di gente. Questo vuol dire che ovunque guardi sta succedendo qualcosa. Ti giri e vedi gente strana che va in giro, gente che prega, gente che compra, gente che mangia, gente che ti parla, gente che prova a venderti qualcosa, gente che va al lavoro, gente che litiga… E’ bellissimo, è divertente, ma è anche molto stancante. 

Le città indiane non sono per i deboli di cuore, ma colpiranno tutti i vostri sensi. Non solo le luci, i colori, i milioni di cose da vedere. Le strade ti immergono in rumori, clacson, musiche, voci, urla, canti. Ad ogni passo le tue narici sentono nuovi odori, con una intensità quasi fisica. A volte buoni odori, ma spesso… meglio non farsi troppe domande.
Fare una passeggiata vuol dire toccare un po’ di tutto, ed essere toccati continuamente. Dalle altre persone che ti si affollano intorno, dagli animali, dai rifiuti che trovi dappertutto, se siete sfortunati anche da una bici o da un tuc tuc. Dimenticate il concetto di distanza sociale, avrete gente che vi pressa in ogni occasione. E qualunque cosa mangiate vi riempirà la bocca di sensazioni nuove, con una quantità di spezie a cui non siete abituati.
A un certo punto ti sentirai in overload sensoriale: troppi stimoli, troppe informazioni, troppe sensazioni nuove da capire.

E nessuna preparazione teorica può farvi capire lo sporco che troverete. Le strade coperte di immondizia di tutti i tipi, il cibo servito su piatti e stoviglie discutibili, l’impossibilità di sedervi in un posto che considerate pulito… Gli indiani si tolgono le scarpe prima di entrare in casa, nei templi, nei negozi, o in camera. Vi consiglio vivamente di fare lo stesso!
E questo sporco richiede un periodo di adattamento, come minimo. Fino a quando non vi abituate, sarà difficile avere dei momenti di vero relax.

Anche il meteo indiano contribuisce a mettervi alla prova. D’inverno farà più freddo di quanto vi aspettiate (noi abbiamo dovuto comprare un giubbotto invernale in un mercatino). E quando passa l’inverno l’estate arriva a grandi passi, e l’aria raggiunge i 50 gradi. L’umidità sembra rendere tutto più difficile, anche fare una camminata, o respirare. Il sole brucia appena uscite dall’ombra. E non oso immaginare quanto possa essere difficile muoversi nella stagione delle piogge.

E non è finita qui. Quasi tutto, in India, sembra fatto per esaurire le vostre energie di fragili occidentali finiti in un mondo a cui non siete preparati.

L’India è bella ma.. è piena di indiani

Gli indiani sono un popolo gentilissimo. Veramente non ci è mai capitato di trovare tante persone gentili, che se ti vedono un po' incerto si precipitano a chiedere dove vai, che ti offrono il chai, che ti salutano senza motivo tutte sorridenti.

Ma sono così tanti che non sempre può andare tutto bene. Vediamo le difficoltà di girare un Paese con un miliardo e mezzo di abitanti.

Difficoltà numero 1: capire e farsi capire dagli indiani.

Tanti indiani capiscono l’inglese, e tanti lo parlano. Il problema è che tanti sono convinti di parlare un buon inglese, anche quando non è vero. Quindi preparatevi a indiani che vi sparano addosso 1.000 parole al minuto, di cui solo alcune comprensibili. Sembra che facciano a gara a mangiarsi le parole e a parlare più velocemente possibile, non ho ancora capito perché.

Difficoltà numero 2: le tante richieste degli indiani.

Vi chiederanno di fare foto insieme, di guardare il loro negozio, di dare loro soldi, di mangiare al loro ristorante, di dare loro soldi, di andare a casa loro, di raccontare chi siete e da dove venite… Gli indiani non si fanno problemi a chiedere. Siate preparati a dire tanti no, possibilmente con gentilezza.

Difficoltà numero 3: le risposte degli indiani

Come ho scritto altrove, chiedere informazioni agli indiani è un esercizio di pazienza. Ti dicono altro, rispondono a metà delle cose che chiedi… Mettete sempre in conto un paio di scambi di messaggi in più, per chiarimenti o per ripetere più volte la vostra richiesta, fino a che arriva una risposta pertinente.

India e salute: quanto è difficile stare sani, quanto è difficile curarsi

Stare male in India, in qualche momento del viaggio, è quasi certo.

La vittima più probabile è lo stomaco, che vive un’avventura ad altissimo rischio. Ogni volta che mangiate qualcosa gli ingredienti potrebbero essere avariati, o sono stati lavati male, o l’acqua non era pulita, o il cuoco non aveva le mani pulite, o il cameriere non aveva le mani pulite… Ogni giorno ci sono decine di momenti in cui il cibo che mangiate può diventare un pericolo. E cercate di bere sempre e solo acqua di bottiglia che tenete d’occhio: agli indiani piace aggiungere ghiaccio e acqua di rubinetto dappertutto.

Se andate nella stagione delle piogge o in estate, dovrete combattere un caldo torrido e umido a cui non siamo abituati. Noi siamo andati in inverno, e abbiamo combattuto contro un freddo inaspettato. In India non è sempre caldo, guardate bene le temperature e portate vestiti adatti.

E nei mesi invernali sarete circondati di centinaia, migliaia di persone malate che tossiscono, starnutiscono, tirano su con il naso. In India i fazzoletti non sono di moda, e preferisco non approfondire di più. Dico solo che i contagi sono praticamente inevitabili.

E quando state male? Le farmacie, o meglio i negozi di medicine, sono numerosissimi. Le medicine che compriamo in Italia sono quasi sempre prodotte in India, solo che le paghiamo 10 volte rispetto agli indiani. I problemi sono altri.

I nomi delle medicine sono diversi, quindi provate a chiedere il principio attivo. Non tutti i negozianti di medicine sanno l’inglese, o lo sanno bene, quindi usate la mimica per spiegare i sintomi. I negozi in India tendono ad essere concentrati nella stessa zona, quindi dovrete girare la città fino a quando trovate la zona delle farmacie. A quel punto scegliete quella che vi sembra meglio, e quella che sembra avere qualcuno che vi può capire.

Dormire in India: esercizio di pazienza

Una delle difficoltà maggiori che avrete in India sarà riuscire a dormire. 

Difficoltà numero 1: la pulizia e i letti

Il concetto di “pulito” in India è molto diverso da quello che avete a casa. E le stanze in cui dormirete in India non saranno mai pulite quanto vorreste. Spesso saranno molto meno pulite di quanto vorreste. Drammaticamente meno pulite. Portatevi un sacco letto, se potete.

I letti in India hanno qualità e caratteristiche molto variabili. I materassi vanno dal morbidissimo al “duro come una tavola”, con una tendenza verso la seconda opzione. Le lenzuola possono avere buchi e macchie sparse. I cuscini tendono a essere molto sottili.

Questa difficoltà si può risolvere alzando il budget, almeno fino a un certo punto. Avrete meno fortuna con le altre.

Difficoltà numero 2: i vicini di camera e il personale

Avete accettato il letto e la stanza, e siete pronti a dormire? Sperate che lo siano anche i vicini di camera. Gli indiani sembrano incapaci di non fare rumore. Videochiamate ad alta voce, chiacchierate ad alta voce in corridoio, televisione ad alto volume…

Ci sono quelli che vanno a letto tardi, e ci sono quelli che si svegliano presto. Cosa hanno in comune? Non gli interessa se tu vuoi dormire.

Lo stesso discorso vale per il personale dell’albergo: spostare mobili, pulire, chiamare il collega dall’altra parte del corridoio… ci sono mille modi di fare baccano, che siano le sei del mattino o le dieci di sera.

Siete capitati in un posto tranquillo e pieno di gente educata? Non siete ancora al sicuro.

Difficoltà numero 3: il resto della città

Le città indiane sono le più rumorose che io abbia mai sentito. Cantieri che lavorano fino a notte, venditori che urlano a gran voce, clacson continui, musica e canti per le feste religiose, fuochi d’artificio per ogni occasione di festa… Sembra che ci sia sempre qualcuno di sveglio, e quel qualcuno è deciso a fare un sacco di baccano.

Se volete dormire un po’ vi conviene andare a letto presto. Se avete fortuna non ci saranno festival, feste religiose o matrimoni nelle vicinanze. La mattina le città sono sveglie e operative (e rumorose) già ben prima dell’alba.

Scegliere un quartiere tranquillo aiuta, ma fino a un certo punto. Andare fuori città aiuta, ma anche i villaggi hanno tante notti di feste e mattine rumorose. Gli infissi indiani non sono fatti pensando all’isolamento acustico.

Avete il sonno leggero? Vi conviene investire in tappi per le orecchie di alta qualità, e/o sonniferi molto potenti. Altrimenti, prima o poi, sarete così esausti che in qualche modo dormirete lo stesso.

Trasporti in india: una fatica dalla prenotazione all’arrivo

Partendo dalla premessa che l’India è grande, ne consegue che per esplorarla dovrete spostarvi spesso. Ogni spostamento può richiedere ore o anche giorni. Più spendete, più comodi state, ma così vi perderete tanto di questo Paese.

Ci sono turisti che girano l’India saltando da un aereo all’altro e poi girando con la macchina con autista privato. Stanno comodi, non perdono tempo, sono più veloci, sono più al sicuro.
Ma secondo me tornano a casa con un’idea patinata di India, come fosse una foto di una rivista invece di un posto vero, reale, con i suoi aspetti belli e brutti.

Certo, se volete l’avventura dovete essere pronti ad affrontare situazioni a cui non siete abituati.

Prendere un bus in India: forse il top dell’avventura. Orari variabili, comodità inesistenti, prezzi misteriosi, imprevisti ad ogni angolo. Noi li abbiamo presi molto raramente, e per spostamenti brevi. Se avete qualcuno che vi da una mano, volete spendere il meno possibile, e volete vivere l’India fino in fondo, sono la scelta migliore.

Prendere un tuc tuc in India: indispensabile per spostarsi dentro la città, o anche per raggiungere alcuni posti fuori città. Comodi per non farsi bloccare troppo nel traffico, veloci abbastanza da farvi risparmiare tempo, lenti abbastanza per vedere un sacco di “cose indiane” che non notate in una macchina chiusa, o in un aereo.

Prendere un treno in India: il modo migliore per spostarsi tra diverse città. Comodi, economici (rispetto ad auto ed aereo), numerosi. I viaggi possono durare decine di ore. Sporco e insetti sono la norma, fatevene una ragione. 

Prenotate con anticipo! Non è come in Italia: i biglietti possono finire settimane prima della partenza. Prenotare non è semplice: la app richiede pazienza, perseveranza e un po’ di skill tecnologiche, altrimenti trovate un’agenzia di viaggio fidata, chiedono piccole commissioni.

Altrimenti dovete viaggiare in sleeper class, quella con le sbarre alle finestre, niente aria condizionata, niente posti assegnati. Gli indiani viaggiano così, ma non ve lo consiglio.

Posso continuare per ore a raccontare tutte le scomodità dell’India. Nonostante questo, se mi chiedono se vale la pena andare, la risposta è una sola, inequivocabile, immediata: assolutamente sì.

Le pire funebri e i funerali a Varanasi (e in India)

DISCLAIMER: in questo post ho cercato di riportare solo cose che ho visto di persona, e che mi è stato spiegato da un ragazzo indiano conosciuto mentre osservavamo le cremazioni, e che ho letto sulla Lonely Planet. Potrebbe contenere inesattezze.

Se andate a Varanasi, come parte di un tour organizzato o anche da soli, quasi sicuramente andrete a vedere le cremazioni rituali che fanno sulle rive del Gange. Gli induisti cremano i loro morti, e farlo a Varanasi è molto ambito, perché è una città sacra e si trova lungo un fiume sacro.

Tutti i giorni, a tutte le ore del giorno e della notte, in alcuni punti della città potrete vedere le pire che bruciano, senza sosta. Quando una pira ha finito viene subito sgomberato il posto per preparare quella successiva.

E’ una tappa fissa, e anche se è un po’ troppo “turistica” è comunque un momento molto impressionante ed emozionante

Il Manikarnika Ghat di Varanasi

Ci sono due posti a Varanasi che sono dedicati alle cremazioni. Si trovano entrambi sulle rive del Gange, lungo i ghat, uno più a nord e uno più a sud.

Il posto più famoso per le cremazioni è il Manikarnika Ghat, che si trova verso nord e vicino al grande tempio di Shri Kashi Vishwanath. E’ il punto più famoso e antico per le cremazioni. Intorno ci sono i depositi di legna che viene utilizzata per le pire, e alcuni piccoli templi che sembrano molto antichi.

Poi l’area delle cremazioni è molto ristretta, e chiusa da un recinto di lamiera. Davanti ai roghi c’è sempre parecchia gente che assiste, spesso semplici passanti e curiosi. Un po’ più indietro c’è uno spazio di terra rialzato che offre una migliore visuale. Potete anche provare ad andare nelle terrazze intorno, ma dicono che chiedano mance e pagamenti.

Qui potete vedere le cerimonie funebri in tutte le loro fasi, che spesso possono essere molto complesse.

L’altro ghat delle cremazioni si trova verso sud, e si chiama Maharaja Harishchandra Ghat. Qui le cremazioni avvengono in un’area più “aperta”, molto più vicino all’acqua. A fianco c’è anche una piattaforma rialzata e dietro una grande scalinata, quindi è più semplice assistere.

Qui le cerimonie sembrano un po’ più sbrigative, spesso i defunti arrivano trasportati a spalla e collocati direttamente sulla pira, che poi viene accesa subito.

E’ un peccato, perché le cerimonie possono essere affascinanti e impressionanti… Ecco quello che abbiamo visto, e quello che ci ha insegnato un ragazzo indiano che si trovava a fianco a noi durante una di queste cerimonie.

I preparativi della pira funebre e della cerimonia di cremazione

I funerali non sono uguali per tutti. La legna usata per la pira funebre può essere più o meno pregiata, ne serve molta quindi è una grossa spesa. I più ricchi usano legno di sandalo. La legna viene pesata accuratamente, e intorno al Manikarnika Ghat vedrete diversi “negozi” pieni di legna con davanti vecchie bilance proprio a questo scopo.

La pira viene costruita con attenzione, incastrando la legna con perizia.

Da quello che abbiamo capito non c’è neppure un vero e proprio funerale, o una cerimonia funebre. “Only crying”, solo lacrime, secondo il ragazzo che era a fianco a noi.

I corpi arrivano al luogo della cremazione attraversando la città su una lettiga i bambù e coperti da un semplice lenzuolo bianco. Sotto non avrà vestiti, perché arriviamo a questo mondo senza niente, e ce ne andiamo senza niente.

Se il corpo va al Maharaja Harishchandra Ghat può arrivare poco distante caricato sul tetto di un fuoristrada, o almeno ne abbiamo visto arrivare uno così. Per l’ultimo tratto viene portato a spalla da un gruppo di partecipanti al funerale, che reciteranno mantra a gran voce. Se va al Manikarnika Ghat il corpo verrà portato in spalla per le stradine strette della città vecchia, e potreste dovervi scansare per lasciar passare il corteo funebre.

In una cerimonia completa il corpo viene immerso nelle acque del Gange, che purificano dai peccati. Per questo gli indù vi si immergono, ci fanno il bagno, ne bevono l’acqua e così via.

Poi il corpo viene appoggiato sulla pira, e viene scoperto il viso.  

La cerimonia della cremazione a Varanasi

La cerimonia può essere più o meno complessa a seconda delle scelte della famiglia del defunto.

Può essere presente un sacerdote per svolgere alcuni rituali, ma non è detto. 

Alla cerimonia di cremazione partecipano solo gli uomini, parenti o amici del defunto e della famiglia. Perché non le donne? 

Secondo il nostro amico indiano il motivo era che durante la cerimonia non ci possono essere lacrime o altre manifestazioni di dolore, e le donne sono troppo impressionabili ed emotive e non hanno una sufficiente stoicità.

Gli uomini che abbiamo visto erano effettivamente impassibili, e assistevano a ogni momento senza battere ciglio. 

Tra i partecipanti alla cerimonia, uno di loro spicca tra gli altri. E’ coperto con un drappo bianco, a piedi nudi, e con barba e capelli completamente rasati. E' il figlio o il fratello del/della defunta. Sarà lui a fare gli ultimi rituali, come ad esempio girare per tre volte intorno alla pira in senso orario. E sarà lui a dare fuoco alla pira con un fascio di rametti acceso.
Una volta abbiamo visto che era un ragazzino di 12-13 anni, e che ha dovuto dare fuoco a due pire…

Mentre aspetta che tutto sia pronto deve rimanere impassibile, come vuole la tradizione. Siccome non è mai facile per nessuno, ogni tanto lo vedevamo camminare su e giù, accompagnato da qualche parente che cercava di distrarlo. 

Quando il fuoco inizia è stato appiccato entrano in azione gli operatori che preparano e gestiscono le pire.
Tutte le parti “pratiche” della cremazioni vengono fatte da persone appartenenti alla casta degli intoccabili, i dom. Questa è stata una delle poche occasioni in cui sapevamo chiaramente la casta della persona che avevamo davanti.
E sono loro che poi fanno divampare davvero il fuoco e lo alimentano. Mi è sembrato di capire che lo facessero anche buttando sulla pira della segatura di legno di sandalo.

Le fiamme iniziano ad alzarsi, e tutto inizia a bruciare. E’ uno “spettacolo” impressionante nel senso letterale del termine, qualcosa che ti rimane impresso.
Colpisce anche gli stessi indiani. Le guide sottolineano che bisogna essere rispettosi e limitarsi a osservare. Abbiamo visto diversi indiani passare per di là, alzare il cellulare in alto per fare foto, per fare video, e più volte anche per farsi selfie e per fare dirette e videochiamate…

Una volta accesa la pira continuerà a bruciare per molto tempo, sviluppando un calore che si sente anche a diversi metri di distanza. Il corpo verrà completamente consumato da questo calore. Poi, quando gli operatori riterranno che sia il momento, la pira verrà smontata togliendo la legna che deve ancora consumarsi.
A volte viene anche “spenta” ritualmente dal parente vestito di bianco. Porterà una brocca di terracotta riempita di acqua del fiume sacro, che getterà sul fuoco girando le spalle. Poi butterà la brocca a terra perché si rompa.

Fine della cerimonia funebre indiana

Le ceneri verranno raccolte, per poi essere disperse in luoghi sacri indiani. Una parte, di solito un quarto, verrà dispersa nelle acque del vicino Gange.

A quel punto la cerimonia è finita. I partecipanti spesso rimangono a parlare tra loro, o ripartono impassibili come quando erano arrivati. Non abbiamo mai visto particolari espressioni di dolore, come siamo abituati a vedere nei nostri funerali. Questo non significa nulla, è solo il loro modo di affrontare la morte, molto diverso dal nostro. Allo stesso modo, intorno alle pire ci sono spesso bambini che giocano, e anche tanti che fanno volare gli aquiloni.

La famiglia osserverà un periodo di lutto di 1 mese. Nella casa del defunto non ci saranno visite, non verrà fatta la puja né altre cerimonie religiose. Abbiamo visto che gli indiani sono molto ligi a queste cerimonie, quindi è un aspetto importante del lutto.

Andare da Nuova Delhi all’aeroporto e viceversa

Quasi tutti arrivano in India passando per l’aeroporto di Nuova Delhi. Alcuni si spostano subito verso altre città, altri decidono di restare un po’ nella capitale.

A noi hanno consigliato di saltare Nuova Delhi, di non andarci come prima tappa del nostro viaggio. Troppo grande, troppo caotica, troppo sporca, troppo tutto: rischiava di essere traumatizzante. 

Non abbiamo ascoltato i consigli e ci siamo fermati 5 giorni. Avevano ragione: Nuova Delhi è traumatizzante. Ma è anche un concentrato di tanti aspetti dell’India. Come tutte le capitali, non è davvero rappresentativo del resto del Paese (non sento che Roma rappresenti tutta Italia), ma in un certo senso lo è (Roma ha tanti aspetti di “italianità” che poi uno straniero vede anche altrove).

Decidete voi se volete visitare Nuova Delhi o meno. Se volete farlo, la prima cosa da fare è capire come arrivare in città. Se, come molti, finite il vostro viaggio a Nuova Delhi, allora dovete capire come andare dalla città all’aeroporto.

Ci sono rischi concreti di pagare più di quanto necessario, o prendersi anche fregature peggiori. Vediamo quali sono le opzioni migliori.

Aeroporto di Nuova Delhi con metropolitana 

La metropolitana è il modo migliore per spostarsi tra l’aeroporto e Nuova Delhi. 

  • più facile: trovare la stazione è facilissimo, comprare il biglietto anche
  • più sicuro: la metro è ben controllata, e non rischiate neppure fregature (ne parlo dopo)
  • più economico: basta un normale biglietto della metropolitana, che dovrebbe costare intorno a 1 euro, per andare dall’aeroporto al centro città
  • più veloce: la metro impiega circa 30-40 minuti per fare il percorso tra il centro e l’aeroporto, evitando il famoso traffico di Nuova Delhi

Per prendere la metropolitana uscite dal Terminal 3, e di fronte a voi dovreste vedere le indicazioni per la stazione della metro. Per comprare i biglietti dovrete farvi strada tra gli indiani, che non hanno idea di cosa vuol dire mettersi in coda. 

Vi controllano le borse e vi scannerizzano con il metal detector, ma per noi turisti è una formalità.
Se siete in difficoltà chiedete a qualcuno dei tanti operatori.

Noi non abbiamo usato la metro quando siamo arrivati (abbiamo usato un taxi prepagato offerto da Booking.com), e a pensarci adesso un po’ me ne pento.

Aeroporto di Nuova Delhi con taxi 

Di solito per andare dall’aeroporto alla città si prende un taxi. A Nuova Delhi il consiglio di tutti è sempre lo stesso: NON prendete un taxi. Anche il nostro ostello era stato categorico nelle sue istruzioni: qualunque cosa decidiate, non prendete un taxi per venire da noi.

Perché? Perché cercherà di fregarvi. Le possibili truffe sono tante: giri panoramici, tentativi di vendervi di tutto, bugie sulla situazione del traffico e del vostro albergo…

Ho anche pensato che fosse un po’ una esagerazione della situazione reale, fino a quando non ho incontrato una “vittima” di questi imbrogli.

Abbiamo parlato con una ragazza italiana a Jodhpur. Un’avvocata (si dice così?) di Roma, quindi non proprio una sprovveduta.. Era arrivata a Nuova Delhi qualche giorno fa, verso sera, e aveva preso un taxi per andare in città.

Lungo la strada l’autista le ha detto che c’era un grande festival e che gli alberghi erano tutti pieni. Non si è fidata, e ha fatto chiamare l’albergo. Ha detto che ha anche controllato che il tassista stesse facendo il numero giusto, eppure chi le ha risposto ha confermato la storia. Stanca, scombussolata dal viaggio, senza riferimenti, non sapeva che fare. Il tassista ovviamente le ha proposto un hotel alternativo. Lei ha avuto la prontezza di spirito sufficiente per farsi lasciare da una agenzia di viaggio, dove ha prenotato un’auto diretta per la destinazione successiva.

Questo è il classico imbroglio ai nuovi arrivati: c’è un festival, la strada è chiusa, c’è un’epidemia… per qualche motivo il tuo albergo non è raggiungibile, fatti portare da un’altra struttura con una stanza libera. E ogni giorno ci cascheranno in tanti. Non fatevi fregare, e scegliete un altro mezzo.

Aeroporto di Nuova Delhi con taxi prepagato

Una soluzione possibile è scegliere un taxi prepagato: andate al chiosco, scegliete in anticipo dove farvi portare, vi faranno un prezzo abbastanza onesto. Trovate i taxi prepagati uscendo dal Terminal 3 e andate a sinistra, fino in fondo. Vedrete un parcheggio pieno di taxi, e dentro un piccolo prefabbricato per le prenotazioni.

Alcuni dicono che anche questi autisti proveranno a fregarvi. Voi rimanete inflessibili e fatevi portare a destinazione. Controllate sulle Google Maps che vi l’autista vi stia portando nella direzione giusta. Se non vi sentite sicuri fatevi scaricare in un’area bene illuminata e poi chiamate un Uber: a Nuova Delhi funziona benissimo, ma gli autisti non possono arrivare in aeroporto.

Aeroporto di Nuova Delhi con l’albergo

Se volete stare tranquilli e comodi chiedete all’albergo che vi ospita di mandarvi una macchina o un taxi. Vi aspetterà fuori dagli Arrivi con un cartello con un vostro nome, caricate tutto in macchina e vi mettete comodi. 

L’ostello che ci ha ospitati ci ha proposto una soluzione simile per circa 10 euro. Non è economicissimo, ma sicuramente molto meno degli standard italiani, e vi offre la massima sicurezza.

L’India è un paese bellissimo e affascinante, ma dovete stare sempre attenti, e forse il momento dell’arrivo è il più rischioso. Siete appena arrivati, non conoscete bene la situazione, e dovete orientarvi in un nuovo mondo. Purtroppo alcuni cercheranno di approfittarsi di voi. Non lasciate che queste persone rovinino il vostro viaggio.

Fare parapendio in Nepal: alti e bassi 

Mentre eravamo a Pokhara abbiamo spuntato una delle voci della nostra “lista di cose da fare prima di morire”: volare con il parapendio.

E’ qualcosa che volevamo fare da anni, ma per un motivo o per l’altro avevamo sempre rinunciato. A Pokhara c’era una occasione unica, con diversi vantaggi:

  • un sacco di scelta: decine di agenzie offrono pacchetti per tutti i gusti, anche se spesso sono molto simili tra loro. Alcune di loro sono super affidabili, con molti anni di volo e di clienti soddisfatti
  • panorami difficili da battere: bello partire dal Monte Grappa o dalle Alpi. Ma è difficile superare il fascino delle montagne dell’Himalaya
  • ottimi prezzi: è ovvio dirlo, ma faccio presente che fare parapendio in Nepal costa molto meno che farlo in Europa

Certo, non è stata una passeggiata

Preparativi con poche speranze

Abbiamo scelto con chi volare in pochi minuti. Alcuni guardano gli anni di attività e le qualifiche degli istruttori di volo. Altri si affidano ai nomi che trovate sulla Lonely Planet. Nel nostro caso ho scelto un’agenzia che avesse un sacco di recensioni positive su Google Maps. Se sto scrivendo, significa che è andata bene :) 

I preparativi sono stati pieni di dubbi. Pokhara, nei giorni in cui siamo stati, era sempre coperta di nuvole e di foschia. Non abbiamo mai visto le famose montagne che la circondano, se non nelle foto e nelle immagini che vendono nei negozi di souvenir.

Eravamo convinti che anche il nostro volo sarebbe stato funestato dalla scarsa visibilità, ma abbiamo deciso di provarci lo stesso.

La mattina ci siamo presentati agli uffici dell’agenzia, fatto le ultime carte, pagato tutto (i soldi li vogliono tutti e subito, nel caso qualcosa andasse storto), e poi ci hanno caricato in un taxi “non ufficiale” con i nostri piloti.

Volare con le aquile sopra le montagne

Siamo arrivati a un grande prato molto in alto, quasi in cima ai monti che circondano la città. Tutto lo spazio disponibile era occupato dalle tele dei paracadute, dalle corde, e da tutti gli altri turisti pronti a lanciarsi. Sotto di noi si vedevano villaggi, terrazzamenti, campi, e ancora più in fondo il lago.

Ci siamo arrampicati un po’ fino al crinale per vedere dall’altra parte. Ed ecco, finalmente, le montagne. Immense, altissime, con le punte ricoperte di bianco dei ghiacciai perenni. Siamo riusciti a scegliere l’unico giorno di cielo limpido.

Volare in parapendio richiede molta pazienza e preparativi. Soprattutto quando c’è una lunga coda di persone che partono tutte dallo stesso punto, e ognuno deve aspettare il vento e le condizioni giuste.
Alla fine è stato anche il nostro turno. Il paracadute si riempie di aria e si solleva, una piccola corsetta fino al ciglio e poi (“non saltare, continua a camminare” ti dicono) all'improvviso stai volando.

Ti siedi sull’imbragatura e ti godi l’avventura. Abbiamo iniziato  a sorvolare la vallata sotto di noi, piena di piccoli villaggi e di coltivazioni. Poi abbiamo iniziato a salire e salire, fino a superare il crinale, e poi ancora più su. Finalmente potevamo vedere in tutte le direzioni, e così abbiamo visto le montagne in tutto il loro splendore. La visibilità era perfetta, e vedevamo tutte le catene circostanti, comprese una manciata di cime sopra gli 8.000 metri, che i piloti ci indicavano.

Avevamo anche dei compagni di volo. Alcuni erano gli altri turisti, ma c’erano anche tante aquile che volteggiavano intorno a noi. All’inizio sopra di noi, ma poi anche al nostro fianco, e sotto. Ogni tanto sembravano essere incuriosite e avvicinarsi un po’ per capire che cosa erano quegli intrusi nel loro spazio.
Era una esperienza stranissima essere lassù con loro e vederle da così vicino, sentire le stesse correnti d’aria che anche loro prendono sotto le loro ali.

Abbiamo continuato a lungo a volteggiare come loro, con lenti giri per poter ammirare tutta la bellezza del Nepal, salendo e scendendo con il vento. 

Ritornare a terra e alla dura realtà

Pokhara si trova circa a 900 metri di altitudine. Noi siamo saliti tantissimo, credo siamo andati tranquillamente sopra i 2.000 metri. La città e il lago sembravano lontanissimi sotto di noi. 

Siamo planati verso il punto di atterraggio molto velocemente. Probabilmente anche troppo velocemente. Ho iniziato a sentire che lo stomaco non era affatto contento di tutti quegli strapazzi. Dopo una discesa vertiginosa siamo arrivati a poche centinaia di metri da un grande prato dove continuavano ad arrivare gli altri paracadute colorati. La nostra destinazione era vicina, e anche il mio stomaco sembrava finalmente tranquillo.

“We are almost there. Do you want to do some tricks before we land?” mi dice il mio pilota. “Siamo quasi arrivati. Vuoi fare qualche acrobazia prima di atterrare?.

La risposta prudente sarebbe stata “meglio di no”, ma quando stai volando e conti che del nylon e delle corde non ti facciano precipitare a terra, non ti senti molto prudente.

“Ok!”

E così via con gli avvitamenti, e poi anche un giro della morte, un altro avvitamento, e finalmente ecco la terra sempre più vicina, più vicina… tocchiamo con i piedi e ci fermiamo. Atterraggio perfetto, neanche uno scossone. 
Alessia è atterrata un paio di minuti prima di me, e la vedo venirmi incontro mentre fa un video con l’iPhone.

“Come è andata?” mi domanda tutta contenta, registrando la mia reazione. E così il video mi riprende mentre le faccio cenno di spostarsi, riesco a fare qualche passo per allontanarmi sull’erba, prima di vomitare con poca grazia. Il mio stomaco mi fa pagare le mie decisioni avventate.

Ma è comunque stata una esperienza memorabile, sicuramente qualcosa di speciale. E va bene anche ricordarsi la nausea e tutti i problemi fisici, se sono il prezzo da pagare per le aquile, le montagne, vedere il mondo dall’alto e volare liberi.

Cercare di vedere le montagne dell’Himalaya in Nepal (e fallire)

Il Nepal è famoso per molte cose: le montagne, migliaia di anni di storia, le montagne, una ricca cultura, le montagne, i templi buddisti, le montagne… Insomma, le montagne sono una parte molto importante di un Paese piccolo e che è piazzato nel bel mezzo della catena dell'Himalaya. 

Quindi, quando lo abbiamo esplorato per un paio di settimane, abbiamo sentito una montante frustrazione. A parte un solo giorno (sfruttato al massimo), per noi le montagne nepalesi erano sempre rimaste nascoste dietro le nuvole e la foschia. Dopo 3-4 giorni a Kathmandu non c’erano segni di miglioramento, e ormai il tempo era agli sgoccioli.

Alessia, disperata, ha insistito per avventurarsi fino a un villaggio della valle di Kathmandu, famoso per le sue spettacolari vedute della catena himalayana.

Ecco com'è andata la nostra caccia alle montagne. 

SPOILER: è andata male.

Da Kathmandu a Sarangkot con mezzi di fortuna

Il villaggio dove volevamo andare è Sarangkot, e il modo più semplice di raggiungerlo da Kathmandu è noleggiando un’auto con autista. Ma è anche costoso, quindi abbiamo deciso di utilizzare i trasporti pubblici nepalesi.

Cosa vuol dire?

  • Fase 1: andare a un incrocio specifico di Kathmandu, da dove partono gli autobus per Bhaktapur.
  • Fase 2: rendersi conto che gli autobus sono mezzi un po’ improvvisati, sceglierne uno a naso, contrattare il costo del viaggio, salire, e aspettare che si riempia abbastanza da far contenti autista e “controllore”
  • Fase 3: viaggio da Kathmandu a Bhaktapur, fermandosi ogni volta che il controllore vede qualcuno che potrebbe aver voglia di salire, o per altri motivi misteriosi
  • Fase 4: scendere a Bhaktapur e poi andare fino ad un altro incrocio dove partono i bus per Sarangkot, dall’altra parte della città
  • Fase 5: ripetere il la fase 2, senza alcuna idea del tempo che ci vuole per partire
  • Fase 6: il bus si arrampica su per le montagne fino a che non arriva a un gruppetto di case senza alcuna attrattiva particolare. Benvenuti a Sarangkot, ci avete messo solo 6-8 ore.

A quel punto non resta che cercare il vostro albergo. Il villaggio si estende a caso in tutte le direzioni, e gli alberghi sono un po’ dappertutto, per sfruttare i migliori punti panoramici. Potrebbe servire una bella camminata.

Le montagne nepalesi viste da un albergo con vista sull’Himalaya

Finalmente eccoci al nostro albergo, l’Hotel Green Valley. Bello e moderno, per gli standard nepalesi. Freddissimo, perché i nepalesi non credono nell’isolamento termico, e neanche nel tenere le porte chiuse quando fa freddo.

La nostra stanza è una delle migliori: grandissima, con una finestra su un lato e un’enorme porta finestra verso la valle sotto. Da lì, normalmente, si può avere una vista spettacolare di una grande parte della catena dell’Himalaya. Nelle giornate migliori si può vedere anche il monte Everest, che si trova a decine di km di distanza.

Quando ci siamo affacciati alla terrazza, ecco quello che abbiamo visto:

Anche il nostro ultimo, disperato tentativo è fallito. Le montagne ci sono sfuggite ancora.

Sarangkot e le sue (poche) attrattive

Ormai siamo a Sarangkot, e abbiamo del tempo da passare lì. Che fare?
Ci siamo ingegnati, ma non c’è molto da inventarsi. Ci sono un paio di belle passeggiate da fare.

C’è la passeggiata panoramica che gira intorno al paese sul lato della valle, che ha la vista delle montagne. Ovviamente le montagne non si vedevano, ma la passeggiata è bella lo stesso, e ci sono comunque dei bei panorami sulla valle sotto.

E sull’altro lato del paese c’è un’altra passeggiata, che si inoltra nel bosco. Non incontri nessuno, ti immergi nella natura, ed esplori un sentierino che si perde nel verde.

La sera in paese non c’è assolutamente nulla da fare. Siamo rimasti in albergo, che ci era sembrato completamente deserto. Ed era così, se non per una sola altra prenotazione: un gruppo di motociclisti che avrebbero fatto un barbecue e fatto bisboccia quella sera…

E così la notte è stata costellata di musica, canti e schiamazzi vari. Per fortuna, dopo 3 mesi di India, neanche una situazione del genere basta a toglierci il sonno.

Il giorno successivo, dopo una abbondante colazione, siamo tornati a Kathmandu con il percorso inverso: altre 6-8 ore di bus per le stradine e i tornanti nepalesi. Ma le montagne non potranno sfuggirci per sempre: torneremo!

I bambini abbandonati di Vijayawada

Quando siamo arrivati a Vijayawada per fare qualche giorno i volontari in una scuola indiana, sapevamo un po’ cosa aspettarci. Avevamo già visto altre scuole e altre realtà che aiutavano i ragazzi. Ai nostri occhi di occidentali sembrano condizioni di vita che non sono facili da immaginare, figuriamoci da vivere. 

In questi giorni abbiamo vissuto a fianco di questi ragazzi, che sono stati abbandonati dai genitori, o peggio. Non fanno una vita facile, ma non è certo la peggiore possibile. Ed è comunque molto, molto meglio della vita che vivevano prima.

La vita difficile dei bambini a Vijayawada

Come tutto il resto dell’India, anche il complesso dove vivono i ragazzi è costellato di spazzatura: a volte solo una confezione di plastica, a volte un cumulo di immondizia buttata in un angolo.
Ogni tanto puliscono un po’, più spesso spostano il problema un po’ più lontano e via così. D’altra parte continuano a buttare a terra senza pensarci le carte delle caramelle o delle confezioni di cibo, qualcosa a cui non mi abituerò mai…

I ragazzi mangiano in una mensa potenzialmente molto valida, se la vedi da lontano. Poi noti che metà dei ragazzi mangia per terra, e forse sono abituati così, perché i tavoli ci sono, ma vengono usati solo da alcuni. La cucina è grande e sembra attrezzata, ma poi non la usano. I pasti vengono cucinati fuori, su un fuoco alimentato con un po’ di tutto. Grandi pentoloni di riso, e altri grandi pentoloni di verdure, spezie, e altro. L’acqua dei pentoloni viene portata a mano con dei secchi, decine e decine di viaggi. Le verdure e il cibo vengono tagliati su superfici di fortuna, anche sul pavimento di cemento, tenendo fermo il tagliere con il piede. Uno dei volontari lavorava come cuoco, e dopo una breve visita non ha più avuto cuore di farsi vedere da quelle parti.

I ragazzi hanno delle divise scolastiche, magari un po’ lise ma pulite. Ci sono enormi lavatrici industriali in un capanno in un angolo del campus.
Il resto dei vestiti è più approssimativo. Ci sono camicie e pantaloni senza bottoni, magliette sformate e strappate, vestiti sbiaditi, e una generale scarsità di mutande utilizzabili. Una volontaria è arrivata con decine di mutande direttamente dall’Italia, saranno molto apprezzate.

Il complesso ha enormi spazi aperti, con un grande cortile dove hanno installato tanti giochi come altalene e altre strutture. Peccato che, a distanza di poco più di un anno, stanno già cedendo in alcuni punti: un paio di altalene sono già crollate, e altre hanno vari punti divorati dalla ruggine. In Italia avrebbero già chiuso tutto.

Ma ai ragazzi va bene così, loro si divertono e giocano con tutto quello che gli capita a tiro. Li abbiamo visti giocare con cose recuperate dalla spazzatura accumulata. Li abbiamo visti esaltatissimi quando abbiamo organizzato un tiro alla fune con una corda lunga venti metri: squadre di una ventina di ragazzini che urlavano, tiravano, ridevano. E ad ogni punto le grida di vittoria e le lamentele degli sconfitti arrivavano fino al paese vicino.

E posso continuare così per pagine e pagine.
Eppure, nonostante tutto, questi bambini sono tra quelli fortunati.

La “bella vita” dei bambini a Vijayawada

Appena fuori dalle mura del complesso ci sono delle tende costruite con dei paletti e dei pezzi di tessuto. Dentro ci abitano delle intere famiglie. Ci sono dei bambini che vivono in quelle tende, che non si possono neanche definire catapecchie. Vestiti di stracci, lavati con un secchio d’acqua ogni tanto, che mangiano avanzi cucinati su un fuoco fatto tanto di legna quanto di rifiuti di plastica…

In confronto a questo, gli aspetti negativi di cui ho parlato prima perdono di significato.
E non possiamo non parlare di tutti gli aspetti positivi della loro vita.

I dormitori in cui vivono ci possono sembrare dei posti decadenti e tristi, roba da orfanotrofio in un film per la TV. Ma sono comunque delle sistemazioni di gran lusso rispetto a come vivono centinaia di milioni di indiani. Una struttura di mattoni che protegge davvero dal sole e dalla pioggia, dei bagni funzionanti, spazio in abbondanza per tutti, una televisione in ogni dormitorio…

La mensa e la cucina non potrebbero mai funzionare in Italia, ma per gli standard indiani sono di livello medio-alto. Abbiamo mangiato in posti con situazioni igieniche più deprimenti. La dieta dei ragazzi più essere fatta per la maggior parte di riso, ma mangiano 3 volte al giorno, quindi solo per questo sono dei privilegiati.

E soprattutto i ragazzi ogni giorno attraversano la strada e vanno a scuola. Ogni giorno hanno la possibilità di passare ore ad imparare matematica, inglese e altre materie che danno loro delle possibilità che tanti ragazzi indiani possono solo immaginare.

Quasi tutti i ragazzi di Mau, di cui abbiamo parlato qui, non andavano a scuola. Imparavano solo quando andavano al centro di Satyam. 
E quando escono da scuola possono tornare e giocare, o fare i compiti. Non devono andare a lavorare sui campi come le ragazze di Lucknow, di cui abbiamo parlato qui

Insomma, sono più fortunati di tanti altri. Soprattutto, sono molto fortunati ad essere finiti lì, viste le situazioni che vivevano prima.

Le storie dei bambini sfortunati di Vijayawada

Mentre eravamo alla scuola ci hanno raccontato le storie di alcuni dei bambini che vedevano giocare sorridenti e felici. Questa è la parte di India che di solito noi non vediamo.

Perché questa grande struttura è stata costruita a Vijayawada? Uno dei motivi è che è una stazione ferroviaria dove passano molti treni. E perché è importante? Perché molti “genitori” caricano i loro bambini piccoli in treno, da soli, e il treno li porta fino a Vijayawada. E da lì quei bambini devono farcela da soli. Ci hanno indicato alcuni di loro, abbandonati come pacchi: avevano 5-6 anni…

E queste non sono neppure le storie peggiori.
Una bambina è stata portata al centro con le braccia completamente ingessate: il padre gliele aveva spezzate.
Un’altra bambina aveva dei segni di bruciature di sigarette sulla fronte e in altre parti del corpo, sempre opera del padre. E’ stata affidata al centro, ma a distanza di anni il padre ha chiesto che gli fosse restituita, e le autorità lo hanno fatto.
Un’altra bambina viene da una famiglia dove il padre è disoccupato e alcolizzato, e picchiava regolarmente i figli.
Lakshmi, la bambina che abbiamo adottato a distanza mentre eravamo lì, è arrivata con due dei suoi fratelli. Il padre ha venduto altri due fratelli prima che gli altri figli venissero affidati altrove.

Ma la cosa che mi ha più colpito è stata una storia che ho visto, non che mi è stata raccontata. E la storia è tutta in questa foto.

La bambina non avrà avuto più di 6-7 anni. Del gruppo dei “piccoli” è stata una tra le prime a venire ad abbracciarci e a giocare con noi, e ogni volta me la trovavo in braccio o vicina. Ogni volta che le vedevo le braccia sentivo un mix di sentimenti (verso di lei, verso chi le ha fatto questo) che non dimenticherò.

E così anche questa avventura ci ha insegnato tantissimo, abbiamo scoperto tante altre sfaccettature di quel mondo incredibile e profondissimo che è l’India. Degli aspetti magari non belli, magari non facili da digerire, ma che ci fanno sentire ancora una volta più fortunati di quello che abbiamo e di come siamo cresciuti.

Nel gioco della vita, noi abbiamo davvero giocato in modalità super facile.

Ho fatto un ritiro di meditazione Vipassana in India, ma non mi sento molto illuminato

Prima di lasciare l’India volevamo fare una esperienza diversa dalle altre.
Dopo aver mangiato di tutto, visto di tutto, parlato con chiunque, comprato tante cose, insegnato, giocato, dipinto, scritto volevamo fare qualcosa di più “spirituale”.

Ed è per questo che abbiamo deciso di fare un ritiro Vipassana. Diverse persone ne avevano parlato in termini entusiastici: “Vi cambierà la vita”.
Dopo 10 giorni di isolamento e meditazione, posso dire che avevano ragione, anche se non nel modo che intendevano loro…

Cosa NON ho imparato dalla meditazione Vipassana (e loro hanno cercato di insegnarmi)

Se state pensando di fare anche voi un corso Vipassana, il mio consiglio è: capite bene a che cosa andate incontro. Il primo corso dura 10 giorni, e dovrete seguire delle regole draconiane: isolamento completo, divieto di parlare, sveglia alle 4…

Ma soprattutto non ha niente di spirituale e mistico. Non vuol dire stare a rilassarsi, godersi la vita momento per momento, eliminare lo stress… con la Vipassana ti impegni e ti porti fino al limite per cercare di raggiungere l’illuminazione. E raggiungere l’illuminazione non è un percorso facile, è il lavoro di una vita (o di varie vite).

Come si raggiunge l’Illuminazione?
Bisogna imparare i principi buddisti dell’impermanenza (tutto cambia, niente rimane costante) e del non attaccamento (non desiderare cose positive, non evitare cose negative). Per farlo non basta leggere o ascoltare i saggi, l’unico modo di imparare davvero è attraverso la propria esperienza, senza filtri. E quindi devi concentrarti sul tuo corpo e le sue sensazioni.

Ecco perché la pratica della Vipassana è semplice, anche se non facile. Anzi: è semplicissima, ma difficilissima. Ti siedi con gli occhi chiusi, senza muoverti, e ti concentri sul tuo respiro. “Ascolti” il tuo corpo e le sue sensazioni: più passa il tempo e più sentirai con maggiore precisione, e più si acutizzano le sensazioni negative.
Devi imparare a essere equanime, a non cercare di evitarle, e imparare che a un certo punto passano, o si trasformano. Nel mentre, soffri!

Durante questi 10 giorni di ritiro ho sofferto parecchio, ma non sono sicuro di avere imparato abbastanza sul non attaccamento, e neppure sull’impermanenza. Non parliamo poi dei passaggi successivi, che sono numerosi. 
Servirebbe una pratica quotidiana, e altri ritiri per affinare e migliorare la pratica...

Quello che ho imparato nel ritiro Vipassana (non è quello che volevano insegnarmi)

Forse la Vipassana non è la pratica meditativa che fa per me: non sento di avere fatto molti passi avanti nel percorso verso l’illuminazione, e non mi ha riempito di voglia di continuare la pratica che hanno cercato di insegnarmi.

Eppure durante questi 10 giorni ho imparato moltissimo su me stesso. Non sono arrivate da ragionamenti complessi o da lunghe riflessioni: sono lezioni che sono arrivate mentre ero esausto, dolorante, spinto verso i miei limiti. Proprio come insegna la Vipassana.

Ho imparato che posso stare in silenzio per giorni e giorni senza problemi.
Ho imparato che si può andare a letto senza cena e non muore nessuno.
Ho imparato che ci si può svegliare la mattina alle quattro e non muore nessuno.
Ho imparato che possiamo rinunciare a un sacco di comodità e di cose che diamo per scontato, e possiamo vivere in maniera davvero essenziale. Magari non sarà divertente, ma neppure una disperazione.
Ho imparato che posso stare giorni e giorni senza cellulare, senza internet, senza libri, senza TV. Mi basta avere qualcosa di abbastanza impegnativo a cui dedicarmi.
Ho imparato a meditare molto meglio e molto più a lungo del solito. Basta essere costretti a farlo tutto il giorno, e un po’ alla volta migliori. Chi lo avrebbe mai detto?

Un ritiro Vipassana ti insegna a meditare in modalità hardcore

Il ritiro Vipassana non mi ha convinto ad abbracciare la loro filosofia e quindi le loro indicazioni sull’etica e sulle routine quotidiane.
Ma sicuramente un ritiro simile è consigliato a tutti quelli che vogliono migliorare rapidamente nella pratica della meditazione.

Ci sono un sacco di tecniche e di modalità diverse per meditare. Con i suoi, con i mantra, con la visualizzazione, da seduti, in piedi, camminando…
Durante la Vipassana siete spinti a meditare in modalità hardcore: massima difficoltà.

Seduti per terra, o su un cuscino sottile.
Schiena dritta, gambe incrociate, e mantenere la posizione nonostante il dolore.
Concentrarsi sul proprio respiro e niente altro: niente canti, niente immagini, nessuna facilitazione.
Solo una pratica continua di consapevolezza, a combattere la tendenza del cervello ad andare per conto suo.
Affinare la concentrazione tramite uno sforzo continuo, costante, spesso molto frustrante.

Se riuscite a mantenere l’impegno per i 10 giorni che dura il ritiro, senza accorgervene fare passi da gigante. Saprete meditare più a lungo, con più consapevolezza, con minori distrazioni, con più efficacia. Saranno cambiamenti piccolissimi, graduali, invisibili sul momento. Se prima non avete mai meditato in modo continuativo, ne uscirete che avete fatto enormi passi avanti. Se, come me, venite da anni di pratica, vedrete un grande miglioramento.

Non ci sono segreti, è molto ovvio. Invece di dedicare alla meditazione un piccolo segmento della giornata, in mezzo a mille altri pensieri, vi siete dedicati totalmente alla pratica. 

Un ritiro Vipassana vi offre un metodo affinato da 2.500 anni, quindi applicate delle tecniche di provata efficacia. Praticate con il massimo impegno, e per un lungo periodo, ed ecco che di conseguenza migliorate molto, fate dei passi avanti che altrimenti avrebbero richiesto un tempo molto più lungo. 

Come sopravvivere a un ritiro di meditazione Vipassana

Se state pensando di fare un ritiro di meditazione Vipassana, ci tengo a dirvi una cosa molto importante: sarà una delle cose più difficili che farete

Pensavamo di essere pronti un po’ a tutto, ma un’impresa del genere ha difficoltà per tutti. Può essere la sveglia alle 4 del mattino, o la noia, o i dolori persistenti, o la frustrazione, o l’isolamento. 

Per questo ho cercato di raccogliere le idee per i migliori consigli che mi sarebbe piaciuto sapere prima di chiudermi 10 giorni in un centro meditazione nelle campagne indiane.

I ritiri Vipassana non sono per i deboli

Fare un ritiro Vipassana è un’impresa per pochi. E la meditazione potrebbe non essere neanche la parte più difficile (anche se non è una passeggiata).
Ecco alcune delle fatiche che dovrete sopportare:

  • Sveglia a ore impossibili: la mattina la sveglia suona alle 4. Trenta minuti dopo inizia la prima meditazione, e non ci si ferma più. Preparatevi a levatacce ben prima dell’alba. E se il ritiro è durante l’inverno… preparatevi a un gran freddo
  • Obbligo del silenzio: per 10 giorni non potete parlare se non in circostanze molto specifiche, per chiedere spiegazioni o poco altro, e sicuramente non potete parlare con gli altri compagni di corso. Silenzio completo.
  • Isolamento dal mondo: consegnate i telefoni e altri mezzi di comunicazione, non potete parlare con nessuno fuori, né possono contattarvi (ci sono eccezioni per le emergenze).. Per 10 giorni non saprete nulla di quello che avviene fuori dalle mura del centro.
  • Noia: niente cellulare, niente TV, niente libri. Per 10 giorni dovete pensare solo alla meditazione, e quindi vi toglieranno ogni distrazione possibile.
  • Cibo opinabile (e niente cena): mangiate quello che preparano, quanto ne volete, ma solo quello che c’è. Alle 17.30 si fa una merenda, e poi non si mangia fino alla mattina successiva.
  • Effetti mentali imprevedibili: alcuni hanno descritto allucinazioni e altri stati mentali alterati. Non ho provato niente di così interessante (purtroppo), ma qualche giorno potete mettere in conto che vi troverete in stati mentali che non avete provato prima

Come mi sono trovato? 
Svegliarmi presto non è stato un problema, anche se dormivo poco.
Stare in silenzio non è stato un problema, anzi una piacevole novità dopo mesi di conversazioni e scambi con gli indiani.
Rimanere isolato non è stato un problema, eravamo troppo impegnati nella meditazione per pensarci molto.
Non ci siamo annoiati, troppo da fare con la meditazione, volevamo mettercela tutta e fare del nostro meglio.
Il cibo era buono, e in questo siamo stati fortunati. Posso parlare solo del cibo cucinato nella sede di Jaipur, spero sarete altrettanto fortunati.

Penso che questi ritiri Vipassana siano molto faticosi, e queste regole possono sembrare draconiane, ma alla fine ogni divieto e limite ha un motivo preciso, e se arrivate convinti di voler fare bene il corso non avrete problemi a seguire per 10 giorni una routine un po’ “estrema”.

Come prepararti fisicamente a un ritiro Vipassana

Quando vi sentite pronti a seguire la routine monastica di un ritiro Vipassana, è ora di mettersi in forma. Stare seduti per 10 giorni a meditare è più faticoso di quanto pensiate e, se non lo prendete seriamente, rischiate di farvi molto male. Parlo per esperienza.

Schiena

Avete provato a stare seduti a gambe incrociate per una o due ore?
La schiena è la vittima più probabile di queste meditazioni. Se non avete una postura perfetta ogni sessione diventa un vero tormento. 

Più tendete a stare ingobbiti mentre state seduti o un piedi, e più difficile sarà mantenere una posizione per lungo tempo. I muscoli inizieranno a indolenzirsi, e ogni minuto sarà più difficile del precedente.

Che fare? 

Vi consiglio esercizi per rinforzare tutta la muscolatura del core, la zona sotto il petto e sopra il bacino. In quella zona ci sono un sacco di muscoli, che richiedono esercizi molto particolari e che non si fanno in palestra. Ma sono esercizi molto utili, non solo per meditare a lungo, ma anche per limitare tanti problemi alla schiena come le infiammazioni al nervo sciatico.

E vi consiglio anche di fare esercizi specifici per “raddrizzare” la colonna vertebrale, specialmente se fate un lavoro sedentario da scrivania. Quelli come noi tendono a fare la gobba e poi la paghiamo in tanti modi diversi con l’età.

Gambe e glutei

Dopo molta fatica ho trovato il modo di meditare a lungo senza rovinarmi la schiena. Gli esercizi li facevo da prima, per fortuna, eppure è stato un lungo processo di sperimentazione.

A quel punto sorgono altri problemi. Nel mio caso dolori forti da qualche parte del gluteo destro. Non so bene la causa, ma probabilmente è colpa della mia scarsa elasticità dei muscoli delle gambe.
Stare a gambe incrociate va bene per qualche minuto, ma non è una posizione che siamo abituati a mantenere.

Posa da meditazione

Se meditate 5-10-20 minuti al giorno la posizione in cui state non è molto importante. Con un po’ di pratica si può stare un pò come si vuole.

Se volete praticare per 1 o 2 ore, e dovete mantenere la stessa posizione senza muovervi (come vi chiede la Vipassana) allora anche degli errori molto piccoli della postura possono fare molto male.

Che fare? Non c’è una soluzione per unica per tutti, perché ognuno sbaglia a modo suo. Preparatevi ad “ascoltare” il vostro corpo e a fare piccoli cambiamenti. A volte può bastare davvero poco: inclinarsi a destra di 1 centimetro, spostare il peso leggermente, cambiare di pochissimo la posizione di una gamba…

Con il tempo inizierete a percepire quale è la posizione giusta, e il vostro corpo si muoverà automaticamente fino a prendere la posizione ideale.

Come prepararti mentalmente alla meditazione Vipassana

Quando siete pronti a seguire le regole, e il vostro corpo è pronto ai rigori della meditazione, è ora di prepararvi mentalmente.
Un ritiro Vipassana è soprattutto un lavoro intensissimo sulla vostra mente, ed è importante arrivare con l’atteggiamento giusto.

Pronti a 12 ore di pratica?

Ogni giorno passerete quasi tutto il giorno a meditare e praticare tecniche ed esercizi mentali. Ci saranno piccole pause, pause più lunghe per mangiare, fare due passi, e per il resto non avrete tempo per fare altro.

Siate pronti a dedicare ogni momento e ogni pensiero alla meditazione. Come abbiamo visto prima, vi toglieranno ogni distrazione.

Non è tempo sprecato: serve molto tempo e molto allenamento per raggiungere certi risultati, o almeno per fare dei passi avanti. Noi occidentali siamo particolarmente svantaggiati, per come siamo abituati a pensare e a comportarci: non abbiamo la pazienza e ci annoiamo presto.

Non badare ai risultati

Quando si medita è una cosa che vi diranno spesso: concentratevi sulla pratica, non sui risultati. Facile a dirsi, ma molto difficile a farsi. Siamo abituati a fare le cose per ottenere qualcosa, ed è un modo di pensare che dovete abbandonare.

Ogni volta sedetevi sul cuscino e pensate solo a seguire le istruzioni e a fare del vostro meglio momento per momento. Non pensate al futuro, non pensate ai passi da compiere, non controllate per vedere se state migliorando.

Come vi diranno anche al corso, se anticipate il futuro, o se desiderate qualcosa, allora non siete nello stato d’animo giusto e la meditazione non avrà effetto.

Non pensare, provare con la pratica

Un altro concetto importante che vi diranno è: con la Vipassana non conta sapere le cose a livello intellettuale, valgono solo le conoscenze nate dalla pratica, da quello che sentite nella vostra esperienza diretta.

Quindi la cosa migliore che potete fare è non pensare, ascoltare le istruzioni e poi applicare senza stare a farsi tante domante e tante teorie. L’importante è quello che state provando momento per momento: le sensazioni, le emozioni, le risposte del vostro corpo.

Accetta il dolore 

A proposito di sensazioni: preparatevi a sopportare il dolore.
Se non avete una postura perfetta e dei muscoli ben allenati, meditare così a lungo vi porterà tutta una serie di dolori e doloretti più o meno forti.

Quello è proprio il punto: vi insegneranno che le sensazioni negative (e positive) sono la base di partenza della pratica. Quindi è normale che faccia male (fino a un certo punto).

Spero di non avervi convinto che fare un ritiro Vipassana sia una pessima idea. Nonostante tutte le difficoltà di cui vi ho parlato, non rimpiango la nostra decisione di fare un corso di 10 giorni. Abbiamo passato un sacco di momenti difficili, ma sono comunque convinto che ne abbiamo guadagnato molto.

Fare amicizia con un sarto indiano a Jaipur

Abbiamo passato i nostri ultimi giorni in India a Jaipur e dintorni. Era una delle prime città che abbiamo visitato, ma siamo tornati per fare un ritiro di meditazione Vipassana.

Mentre giravamo senza meta per la città, abbiamo avuto un altro dei nostri incontri fortuiti, che ci hanno fatto conoscere un’altra briciola di India.

Incontro casuale con un sarto indiano

Stiamo passeggiando per una delle strade principali del centro di Jaipur. Dritta, ampia, trafficatissima, e ormai anche molto calda.

Ogni tanto diamo un’occhiata alle mille stradine che si aprono ai lati. Una di queste è un vicoletto, che sembra assolutamente banale. Ma Alessia vede qualcosa: una botteguccia minuscola, una porta così piccola che dobbiamo abbassarci per guardare cosa c’è dentro.
E’ la bottega di un sarto! Alessia è subito conquistata da quello che vede: una vecchissima macchina da cucire, enormi forbici, e un signore che sta lavorando dietro a un banco, misurando la stoffa che ha davanti.

Stiamo per andare via, quando il signore alza gli occhi e vede Alessia. Subito saluta, e invita con la mano a entrare. Siamo in dubbio: che andiamo a fare? Ma è irremovibile nella sua gentilezza, e così entriamo.
Ci troviamo in uno stanzino grande circa 2x2 metri, con il soffitto così basso che non posso stare in piedi senza sfiorarlo. Lo spazio è quasi tutto occupato dagli strumenti di lavoro, ma ci fa sedere in due sgabelli di fortuna.

Ci fa qualche domanda per conoscerci, e quando Alessia gli dice che anche lei è sarta gli occhi gli si illuminano. Una sarta come lui? Allora di certo dobbiamo restare lì, così può insegnare ad Alessia un po’ della sua esperienza.

Lezioni private di sartoria indiana e di business

E così si è lanciato in una lezione a tutto campo sulla sartoria, sulle tecniche, su come trovare clienti. L’inglese molto approssimativo non era un problema, in qualche modo ci si capisce.

I dubbi di Alessia: la paura di sbagliare qualcosa, e di tagliare male la stoffa.
Nessun problema: “training”. Lui si è “completamente addestrato” prima di iniziare a lavorare. Ha guardato altri esperti, più e più volte, e piano piano ha imparato anche a fare. Formazione on the job, tutta pratica.

Se Alessia rimane lì con lui, può imparare anche lei, e se sta sbagliando qualcosa lui può correggerla. 
Con l’esperienza, ecco che imparerà a tagliare con sicurezza e con velocità, senza paura e senza errori. E mentre parla ecco misura la stoffa, segna con il gesso, e poi taglia con grosse forbici.

Le forbici sono di alta qualità, fatte su misura per lui (è mancino). Le ha pagate molto ai tempi, ma le usa da più di 15 anni, e adesso costerebbero più di tre volte tanto. “Good quality”

E come trovare clienti? Non serve la pubblicità. Basta lavorare a testa bassa, lavorare e lavorare. Piano piano ti fai conoscere come “quello che fa le camice”, o “quello che fa quella certa cosa”. E la gente viene da te, e ti chiede. Il passaparola è il miglior strumento di marketing
Se lavori veloce e bene, il cliente è soddisfatto e poi torna ancora. E così cresci piano piano.

Certo, non è un lavoro senza sacrifici.
Lui lavora tutti i giorni, compreso il sabato e la domenica mattina. Inizio alle 8 o alle 9, e avanti fino alle 8 di sera. Perché “se cliente arriva tardi, non puoi mandarlo via”. Devi “fare business”. 

L’importante lavorare in modalità “no stress”, fare le cose con calma e con precisione, nonostante il “pressing” per consegnare e la concorrenza. E infatti si prende le sue pause.
Beve il chai con noi, chiacchiera con i clienti e gli amici che mandano un saluto da fuori della porticina, ogni tanto va al mercato con la moglie a prendere questo o quello.

La storia del signor Mohan

Mentre misurava, tagliava, e insegnava ad Alessia, il nostro nuovo amico sarto ci ha raccontato anche un po’ della sua vita.
Si chiama Mohan, e fa quel lavoro da una vita. Ha iniziato a 20 anni, e sono più di 30 anni che fa quel lavoro. Adesso non fa neppure tutto il lavoro: lui “misura e taglia”, poi manda le strisce di stoffa ad altri artigiani, che fanno il lavoro di cucitura. Esternalizza la produzione a uno specialista in camice e kurta, uno specialista in pantaloni.

Ha un figlio e una figlia, entrambi che studiano all’università. La figlia studia informatica, o programmazione, o qualcosa del genere. Nessuno dei due aveva interesse per la sartoria e lui li lascia fare, al contrario di molti altri padri indiani.
Per ora è lui che deve provvedere a mantenere tutta la famiglia. La moglie, come la maggior parte delle donne indiane, è casalinga e non lavora. Ma non gli pesa, anzi così è felice perché sa che il suo lavoro serve alle persone che ama.
Ma tra qualche anno i figli saranno avviati nella loro carriera e lui potrà diminuire il lavoro. Non smettere, perché si lavora per tutta la vita o quasi (in India chi lavora come privato non ha la pensione), ma potrà vivere un po’ con i risparmi accumulati.

Intanto ci ha avvisato: tra qualche mese si trasferisce, quindi se torniamo non lo troveremo più lì! Ci ha scritto il nuovo indirizzo così potremo andare a trovarlo. Adesso il laboratorio è in uno stanzino, e vive in poche stanze nello stesso edificio, in un vicoletto nel centro di Jaipur. Ma la nuova casa è più grande, con un negozio più grande, in una bella zona della periferia.
Era molto orgoglioso di questa evoluzione. Sembrava la ricompensa di una vita di lavoro, in cui ha fatto molti sacrifici. 

Ce ne andiamo solo dopo diverse ore, dopo aver fatto una promessa: quando torniamo in città, dobbiamo tornare a trovarlo.

Ritorno alla bottega del sarto

Dopo la nostra esperienza Vipassana siamo tornati a Jaipur e abbiamo cercato di mantenere la promessa. Siamo tornati alla bottega del nostro sarto preferito ma… non c’era.

Dentro la stanzetta c’era una ragazza giovane con gli occhiali. Ho pensato che poteva essere la figlia di cui ci abbiamo parlato. Si è girata a guardarci, e abbiamo provato a spiegare perché due europei erano finiti nella botteguccia di un sarto per indiani.
Ha guardato Alessia e ha detto: “Sì, mio padre mi ha parlato di te”. Alessia ovviamente è stata felicissima di aver fatto colpo sul sarto, tanto che ne ha anche parlato con la sua famiglia.

Siamo rimasti dentro il laboratorio ad aspettare il suo ritorno, e intanto abbiamo parlato con la figlia. Sta studiando “computer science”, e intanto cerca lavoro. Ma è difficile, perché le aziende cercano persone con esperienza, ma non può fare esperienza fino a che qualcuno non le da un’occasione, e in più per ogni lavoro c’è molta concorrenza. Sentirla parlare era come ascoltare noi una ventina di anni fa, quando avevamo le stesse difficoltà mentre facevamo i primi passi nel mondo del lavoro.

Poi è arrivato il nostro amico Mohan. Gli abbiamo anche portato dei dolcetti, per ringraziarlo delle lezioni gratuite per Alessia.
Era domenica mattina, quindi lavorava, ma meno del resto della settimana. Ha fatto un po’ di lavoro e di preparativi, sotto l’occhio attento di Alessia che guardava ogni mossa e ogni trucco.

E poi siamo rimasti a chiacchierare e a rilassarci insieme. Siccome ormai eravamo ospiti, e loro erano indiani, hanno iniziato ad offrirci da mangiare a non finire. 
La figlia ha fatto un salto fuori e ha comprato dei kulfi per tutti. Sono dei gelati fatti con il latte e di vari gusti. Non li avevamo mai assaggiati in tutto il nostro tempo in India.
E poi lei e la madre hanno anche preparato delle parata, focacce piatte di patate, condite con altre verdure e spezie a piacere. Le abbiamo mangiate diverse volte, ma ognuno usa la ricetta che vuole, ed erano molto buone.
E poi abbiamo conosciuto anche la cognata di Mohan, che vive vicino a loro. E anche questa signora sorridente ci teneva a farci assaggiare uno dei suoi piatti, stranissimo e mai sentito nominare.

Noi arrivavamo da una colazione abbondante, che non sapevamo se avremmo fatto pranzo. Ci siamo dovuti ingozzare di cibo fino a scoppiare. Ma lasciando un po’ di cibo sul piatto, altrimenti l’ospite indiano lo prende come un invito a riempire ancora e ancora.

Addio al nuovo mentore di Alessia

Verso l’una ci siamo costrette ad alzarci e a ripartire con i nostri giri. Anche Mohan e la sua famiglia avevano diritto a passare un po’ di tempo in pace.

Grandi abbracci e grandi saluti con tutti loro. Ripartiamo con il loro nuovo indirizzo, e il numero di cellulare di tutta la famiglia (Mohan, la moglie, la figlia, il figlio), e un invito a visitarli nella loro nuova casa.

Chissà, magari tra qualche anno...

La guida Kuldip (e la famiglia Gadhvi)

Tra i personaggi indiani che abbiamo incontrato non possiamo non parlare di Kuldip.
Non è un incontro casuale come gli altri, perché è stato la nostra guida nei giorni che abbiamo passato in Kutch. Ma abbiamo trascorso con lui diversi giorni, vissuto a casa sua, passato del tempo con la sua famiglia, parlato di tante cose.
E’ un esempio della parte migliore dell’India.

La guida turistica più famosa del Kutch

Alessia ha iniziato a seguire Kuldip sui social molti mesi prima di partire, su questo profilo Instagram. Condivide foto, informazioni e contenuti sulla sua terra, la sua cultura, le persone, la natura, e tanto altro. 

Attraverso i suoi post si è innamorata del Kutch, e arrivare fino a lì è diventato uno dei pochi punti fissi del nostro viaggio sabbatico.

Kuldip è una guida turistica, ma questo è un termine molto riduttivo per descrivere cosa fa. Non si limita a portarti in giro in un percorso predefinito e a spiegarti le cose. Lui conosce davvero bene la sua terra e tutto quello che offre, e ti può dare un’esperienza davvero su misura. 

Vuoi la natura? Vuoi artigianato? Vuoi il deserto? Vuoi la musica? Vuoi le tradizioni? Lui ti aiuta ad organizzare delle giornate perfette per te, perché può metterti in contatto con le persone giuste, portarti nei posti giusti, preparare le esperienze giuste.

United Artisans of Kutch

Kuldip non è solo una guida turistica. Ha anche fondato una associazione di artigiani, la United Artisans of Kutch.

L’associazione unisce alcuni artigiani attivi nella zona del Kutch, che fanno un po' di tutto: block printing, telaio, embroidery, campane, Rogan art e altro ancora.
Alcuni artigiani sono diventati famosi e ricchi con queste tecniche, e così hanno un sacco di visitatori e di lavoro. Ma ci sono tanti altri artigiani altrettanto abili, persone positive e creative, che meritano un’occasione. Kuldip cerca di dare loro questa occasione, promuovendo il loro lavoro e la loro arte.

Noi abbiamo conosciuto diversi di questi artigiani. Sono stati dei bellissimi momenti, e fanno delle cose davvero belle. C’è un grosso pacco che sta andando verso l’Italia, pieno di quello 

Non solo guida, ma riferimento per persone e problemi del territorio

Con il suo lavoro di guida turistica Kuldip viaggia molto sul territorio. Visita i villaggi, parla con la gente, chiacchiera con tutti. Ad ogni fermata c’è qualcuno da salutare, qualcuno che vuole parlargli, qualche storia da raccontare.

Alcune di queste persone vivono molto isolate, e si trovano ad affrontare problemi e situazioni da “mondo moderno” in cui non sanno che fare. Faccio due esempi che abbiamo visto di persona.

Ci siamo fermati a dormire in un villaggio sperduto vicino al deserto. Erano circa venti capanne di fango, nessun edificio in muratura. Il villaggio è lungo la strada per il deserto, ma poi esci dalla strada asfaltata e inizia lo sterrato. E’ qualcosa di meno di un sentiero, è un passaggio tra gli arbusti dove la macchina deve andare avanti a passo d’uomo per evitare le buche peggiori.

Gli abitanti del villaggio hanno bisogno che quel tratto venga sistemato e asfaltato. Per fare i 2 km che li separano dalla strada ci vogliono 20-30 minuti, e poi c’è la lunga strada fino ai primi centri abitati. Se ci sono necessità, urgenze mediche o di altro tipo sono quasi tagliati fuori, e potrebbe essere fatale. 

Ma loro vivono nel deserto e sono praticamente invisibili. Kuldip è il loro principale collegamento con il resto del mondo, e gli hanno chiesto di fare qualcosa. Proverà a fare una richiesta al governo, a quanto pare c’è un sito apposta per queste cose. Magari non è molto, ma sicuramente è una speranza che altrimenti non avrebbero.

Mentre eravamo in un altro villaggio abbiamo camminato un po' fino a uscire nella “campagna”. In mezzo alla terra arsa c’era una piccola capanna di fango e un altro paio di baracche circondate da un muretto, dove viveva una coppia di anziani signori.

Anche questi simpatici vecchietti vivono quasi in completo isolamento, non hanno neanche documenti di identità. Per farli bisogna fare un bel po' di procedure burocratiche e di scartoffie (agli indiani piacciono le scartoffie!). Ma senza quei documenti se vanno in ospedale devono pagare tutte le cure, e non hanno quei soldi. Come possono fare?

Anche loro hanno parlato con Kuldip, e lui proverà a sentire degli amici, e a metterli in contatto con qualcuno che forse li potrà aiutare. Non è il suo lavoro, non può fare molto per loro, ma lui è qualcuno che li collega con il grande mondo esterno, che non conoscono e non possono navigare senza aiuto.

E così Kuldip, girando di villaggio in villaggio, e parlando con tutti, è diventato un punto di contatto di una rete sparsa in un territorio vastissimo, dove difficilmente i diversi villaggi e le diverse persone riescono a conoscersi e a comunicare. E così offre consigli, mette in contatto persone con chi le può aiutare, crea contatti per collaborazioni, e aiuta a creare dei legami che trasformano un territorio in una comunità.

Lo fa per passione, perché vuole aiutare la gente, e perché nessun altro lo può fare quanto lui.

Homestay in India vuol dire famiglia

Esplorare il Kutch è stato bellissimo e super interessante, ma quello che ha fatto la differenza è stare in un vero homestay. Abbiamo condiviso il nostro tempo con la famiglia di Kuldip, ci hanno fatto entrare non solo nella loro casa ma anche nella loro quotidianità.

Ankita, la sorridente e allegra moglie di Kuldip, ci ha accolto dal primo minuto e ci ha sempre fatti sentire a casa. A volte mangiavamo insieme, ci dava lo stesso cibo che mangiava il resto della famiglia. Ci ha sempre dato un sorriso e una parola gentile. Ogni tanto chiacchieravamo di questo e di quello e da lei abbiamo imparato molte cose sull’India e le sue tradizioni. Parla anche un ottimo inglese con un ottimo accento, che aiuta molto a capirsi.

La mamma di Kuldip è una signora piena di energie e di allegria. Il suo inglese è molto semplice, ma alla fine riesce a farsi capire e ci siamo fatti tante risate insieme. Le piace cantare e sa un sacco di canzoni, e ci ha anche aiutato a impastare quando abbiamo cucinato la pizza.

Il padre di Kuldip è un signore più riservato, ma sempre molto cortese quando ci vedeva. E una sera, dopo la cena, ci ha offerto dei datteri secchi importati dall’Arabia. Così, senza preavviso, è stato un gesto inaspettato e molto gentile.

Alla fine del soggiorno ci sembrava davvero di stare come a casa, il che è strano se penso che eravamo in tutto sette sotto un tetto, mentre in Italia siamo solo in due! 

I progetti futuri di Kuldip: la fattoria in mezzo al nulla

Kuldip è un ragazzo impegnatissimo, con un sacco di progetti in corso e un sacco di impegni. Ma da qualche mese ha iniziato un altro grande progetto, più personale.

Ha comprato un pezzo di terra vicino al villaggio dei suoi parenti. Siamo andati a vederlo insieme: per ora è una distesa arida di piante e arbusti di tutti i tipi, e che non ho mai visto in Italia. Non c’è acqua, e c’è solo una piccola capanna di bambù ed erba secca. Ma basta guardarlo e sentirlo parlare per capire che lui guarda quella terra e vede i suoi sogni futuri.

Lui e Ankita sono decisi a fare qui la loro nuova casa. Vogliono vivere in mezzo e alla natura, prendere dei ritmi diversi e più sereni, e questo è il primo passo.

Magari torneremo a trovarli tra qualche anno. Dovremo trovare qualcuno che ci porti per stradine di campagna, e a un certo punto vedremo spuntare una nuova casetta circondata dal verde. E lì saluteremo i nostri amici, che stanno vivendo nel loro angolo di paradiso.

Ahmedabad: una città da vivere

Siamo arrivati ad Ahmedabad con programmi ambiziosi. La città offre parecchie cose interessanti da visitare, quindi ci voleva almeno qualche giorno se volevamo fare tutto. Siamo partiti con l'idea di fare le cose di cui parlano qui.

Alla fine abbiamo fatto molto meno di quello che avevamo in programma, ma non sono stati giorni sprecati. Anzi, ripartiamo pieni di bei ricordi. Ma andiamo con ordine.

Cosa vedere ad Ahmedabad, ma solo se sei pronto a impegnarti (non come noi…) 

Iniziamo con raccontare che cosa NON abbiamo visto, ma è molto bello e dovreste vedere se andate ad Ahmedabad.

Una delle attrattive principali della città, come vedrete anche sulla Lonely Planet, è il Calico Museum of Textiles. Dovrebbe essere una tappa imperdibile per gli appassionati di tessuti e stoffe, con pezzi unici raccolti in tutto il Gujarat.
Perché dico “dovrebbe”? Perché visitarlo richiede un sacco di lavoro. Si visita solo su prenotazione, ci sono solo due tour al giorno, uno al mattino e uno al pomeriggio, a numero chiuso. Per fare domanda bisogna compilare un modulo online, e ti faranno sapere se c’è posto. Se non ricevi risposta vuol dire che non c’era posto… Noi lo abbiamo scoperto tardi, abbiamo fatto domanda, hanno accettato la mia ma non quella di Alessia. Peccato!

Le nostre ricerche ci dicono che ci sono due pozzi a gradoni in città. Uno molto bello e risale al XV secolo, il pozzo di Adalaj, si trova qualche km fuori città. L’altro è più vicino, meno conosciuto, e quindi magari più particolare, il Bai Harir Vav.

Prendendo una macchina per una gita giornaliera potete andare a vedere il tempio del sole di Madhera e il Rani Ki Vav di Patan, pozzo a gradoni patrimonio Unesco.

Cosa vedere assolutamente ad Ahmedabad (con poca fatica)

Cosa potete vedere ad Ahmedabad senza spostarvi troppo e senza grande fatica? Ci sono alcune cose interessanti.

Nella zona centrale ci sono quattro moschee che potete vedere in una mattinata, o un po' di più se ve la prendete comoda. La più grande è la Jama Masid, costruita nel 1.400. La più bella è probabilmente la moschea Sidi Saiyyed, piccola ma con dei jali bellissimi. I jali sono le lastre di pietra traforate con motivi geometrici o di altro tipo. Alessia ne va matta. 

Le altre due moschee sono la Shahi Jam-e-Masjid Bhadra e la Rani Sipri Ki Masjid. Carine ma niente di più, visto che siete in zona potete vedere anche loro. Le donne non possono entrare nel corpo centrale delle moschee, ma non è un grande problema: sono state costruite con un lato completamente aperto, quindi anche dall’esterno potete vedere quasi tutto.

Un altra tappa molto interessante è l’Ashram Sabarmati. Questo ashram è dove Gandhi ha costruito una comunità che seguiva i principi della sua filosofia, e ha affinato questi principi. Ha vissuto lì diversi anni, e la comunità poi è cresciuta e si è sviluppata.
C’è anche la stanza con lo scrittoio e il telaio che sono diventati un po' gli “oggetti di scena” delle fotografie più famose che lo ritraggono. E’ abbastanza facile da raggiungere, e ci sono un sacco di informazioni scritte sulla storia e la filosofia di Gandhi.
Ci sono anche un negozio di libri con un sacco di cose pubblicate da e su Gandhi, e un negozio di vestiti fatti con cotone Khadi, molto carine.

E alla fine Ahmedabad è attraversata dal fiume Sabarmati, uno dei fiumi sacri per gli indiani. Lungo le sue rive hanno costruito un bellissimo riverside, un ampio percorso pedonale con alberi e panchine. E’ uno dei pochissimi posti dove non dovete schivare mezzi a motore (o quasi: alcuni si infilano lo stesso…). Ottimo per trovare un po' di ombra, stare un po' tranquilli, fare una passeggiata sia di giorno che di sera.

Cosa mangiare ad Ahmedabad

Ahmedabad è un paradiso culinario dove trovare tante cose buone da mangiare, alcune tipiche della zona e che dovete assolutamente provare.

Primo piatto: il Gujarati Thali. Thali significa “piatto”, e in questo caso un gran vassoio con sopra diverse ciotole con diverse pietanze, tutto accompagnato con il roti, una specie di piadina che è la base della dieta indiana. Non sto a raccontarvi cosa contiene altrimenti non finiamo più. Vi rimando alla definizione di Wikipedia (in inglese).

Secondo piatto: il gotala dosa. Verdure, spezie, paneer (una specie di finto formaggio) ed enormi quantità di formaggio e di burro. Non è per palati fini, né per chi è a dieta. Per gli altri: non fatevelo scappare!

Lo “special sandwich”. Così lo ha chiamato il nostro amico Sadik, che ce lo ha consigliato. Si tratta di pane da toast grigliato sulla fiamma, e poi riempito con un qualche mix di verdure super speziato.

La patata street food. Non sappiamo bene il nome, ma è molto semplice. Si tratta di patata dolce lessata, condita con un mix di spezie misterioso e con una spruzzata di lime sopra. L’abbiamo vista e l’abbiamo presa seguendo il consiglio di un local che la stava comprando e ce l’ha anche fatta assaggiare. Era molto buona e ovviamente molto economica.

Dove trovate tutto ciò? 

Per il Gujarati Tali potete andare al Gopi Dining Hall. Fanno 2-3 menu a prezzo fisso, e arrivate pronti a mangiare tanto. Ogni cameriere ha una sua pietanza, e quando siete seduti saranno pronti a tornare ancora e ancora a proporvi di prenderne ancora. Molto gentili e simpatici, tutto buonissimo, siamo usciti che eravamo pieni da scoppiare.

La patata la vendono dei venditori ambulanti che si spostano con un carrettino tirato a mano, li potete trovare un po' dappertutto in giro per la città, più probabilmente nelle zone dei mercati.

Per le altre specialità c’è un solo posto dove andare: Manek Chowk

Ne parlo meglio più giù, ma il consiglio è andare fiduciosi, trovare un posto in cui sedersi e ordinare. In qualche modo vi capiranno, e potrete assaggiare cose molto particolari.

Infine, una nostra scoperta. In una stradina un pò nascosta del mercato, Bhatiyar Galli, si concentrano negozi e locali che vendono e cucinano carne. Non è per gli animalisti e le persone che si impressionano facilmente, perché lì i macellai lavorano in bella vista.
Ma c'è un posto che fa dei buoni piatti di carne, e soprattutto fa del pane piatto cotto sul forno tandoori che è la fine del mondo. Siamo tornati per comprare un pò di pane da mangiare da solo, take away.
Il nome del posto è facile da ricordare, ed è un altro nome che da noi non si vedrete mai, per ovvi motivi...

Cosa abbiamo fatto di diverso ad Ahmedabad

Mentre cercavamo un parco dove stare un po' tranquilli abbiamo visto che ad Ahmedabad c’era una fiera del libro. Ci siamo detti: perché non dare un’occhiata?

C’erano diversi grandi tendoni pieni degli stand degli editori, e anche diversi palchi dove gli autori presentavano le loro opere. Gli indiani sono dei grandi lettori e la fiera era piena di gente e di venditori. Abbiamo anche seguito un paio di presentazioni di autori e libri che non abbiamo mai sentito nominare, ed è stato più interessante di quanto prevedevamo. C’era una bella atmosfera, di gente che si diverte, che vuole imparare, conoscere, crescere.

Ci siamo divertiti un sacco ad andare a Manek Chowk, il mercato che di sera diventa il centro dello street food. Di giorno è uno dei principali bazar della città, e ci trovate un po' di tutto. La sera si trasforma. Quelli che prima erano un paio di parcheggi diventano una sagra: decine di baracchini ai lati, e tutto il resto dello spazio riempito di tavolini tutti attaccati, sempre pienissimi.


Abbiamo trovato dei posticini perché qualcuno si è “impietosito” a vedere degli stranieri un po' sperduti. Poi i vicini di tavolo si sono fatti avanti in un secondo e hanno ordinato per noi: tutte ottime scelte. Siamo tornati due volte per poter provare cose diverse, quello che non è cambiato è la gentilezza delle persone.

Ci siamo anche riposati un po', che venivamo da giornate di viaggio un po' impegnative, e il caldo di Ahmedabad ci ha tolto energie. Poi non è la città giusta per dormire: fuochi d’artificio e musica sparata a palla durante la notte, e indiani che iniziano a far casino già dalle prime ore del mattino. Abbiamo rallentato, ci siamo presi del tempo, ed è stata una buona idea.

Ma soprattutto ci siamo buttati in mezzo alla folla, a volte per andare da qualche parte, a volte solo per fare un giro e vedere cosa c’era poco più avanti.
In Italia non mi piace tanto stare in mezzo alla confusione. Qui, per qualche motivo, è diverso. C’era gente dappertutto, tutti che dovevano passare subito, tuc tuc e motorini che si buttavano in ogni centimetro libero, eppure… alla fine era divertente.

Un giorno ci siamo anche fatti un giretto separati. Io mi sono incamminato e ho seguito la folla. Dopo un po' è un’esperienza quasi meditativa: passeggi, segui la corrente, ti muovi quasi in automatico cercando i percorsi liberi. Ti trovi a evitare gli ostacoli senza pensarci, a scivolare tra la gente, a guardarti intorno senza andare a sbattere contro i mille ostacoli. Sono stato molto meglio di quanto avrei pensato.

Ahmedabad: città da vivere

Alla fine ci sono diversi motivi per andare ad Ahmedabad. 
Potete andare a vedere tutte le cose belle e interessanti che offre.
Potete andare a fare scorpacciate di Thali, come fanno in questo post e come abbiamo fatto anche noi.

Potete passarci per andare nel Kutch (mooolto consigliato).
Noi lo abbiamo fatto per ognuna di queste ragioni, ma alla fine ci è piaciuta per un motivo completamente diverso. Per noi Ahmedabad è una città da vivere, più che da visitare. Fatevi un giro, mescolatevi alla gente, girate per il mercato, mangiate cose nuove, parlate con la gente. Avrete ricordi più belli dell’ennesimo tempio o pozzo a gradoni.

Il Runn of Kutch

Uno dei motivi principali per avventurarsi fino al Kutch è il suo grande deserto. E’ uno dei punti più famosi e conosciuti, anche se poi noi abbiamo scoperto un sacco di altre cose, come diremo in un altro post.

Ma il deserto è una tappa irrinunciabile e merita le fatiche e gli ostacoli che si pareranno sulla vostra strada. Quali? Ma prima, parliamo un po' di questo deserto.

Il deserto del Kutch: come si è formato, caratteristiche, presente e futuro

Una volta il Kutch era una baia poco profonda nel mare arabico. Poi la terra si sollevò e divenne un lago salato. Con il tempo anche il lago si è prosciugato, ed è rimasto il sale. Ad ogni monsone il livello delle acque si alza, e da ovest il mare si riversa di nuovo sul deserto. E’ una distesa infinita e piatta, quindi bastano 50 cm di acqua in più per riempire tutto di acqua salata. Poi il mare si ritira, l’acqua salata resta di nuovo intrappolata, evapora lasciando il sale, e il ciclo si ripete. 

Oggi il deserto viene sfruttato per estrarre alcune sostanze chimiche lasciate dall’acqua di mare che si asciuga. L’acqua salata viene convogliata in enormi vasche, per poi farla evaporare e lasciare il sale e gli altri minerali sul fondo. A quel punto viene raccolto tutto e mandato verso le industrie che lavoreranno la materia prima. E poi finisce tutto sui camion colorati e decoratissimi che intasano le strade del Kutch.
Dal punto in cui inizia la visita sono visibili all’orizzonte le lunghissime barriere che raccolgono le acque, e le immense vasche sono visibili anche dai satelliti e dalle Google Maps.

Forse in futuro questi impianti potrebbero espandersi ancora di più e spingere più lontano il deserto incontaminato. L’India ha fame di materie prime, le industrie devono lavorare, e il deserto è una distesa “improduttiva” se non si conta il turismo. 

Le difficoltà di arrivare a deserto del Kutch

La prima difficoltà per arrivare al deserto del Kutch è dove si trova. Sfortunatamente non è un deserto che trovi vicino ai soliti percorsi turistici, devi andare un po' a cercarlo. Quindi prima devi arrivare ad Ahmedabad, da lì prendere un treno per Bhuj (ti risparmio uno sguardo alla mappa, si trova molto a ovest, vicino al Pakistan). Da lì puoi farti portare in macchina o, se ti senti avventuroso, trovare un autobus o qualche soluzione collettiva.

Secondo ostacolo per arrivare al deserto del Kutch: la strada. Recentemente è stata fatta una bella e comoda strada (per gli standard indiani), ma la dobbiamo condividere con una quantità enorme di camion. Ci vuole qualche ora per arrivare, ma neanche molte.

Terzo ostacolo: i permessi. Il deserto si trova vicino al confine tra India e Pakistan, che non è propriamente tranquillo. A un certo punto lungo la strada ci sarà un baracchino, e lì potrete prendere dei permessi appositi per andare nel deserto. Ovviamente a un piccolo prezzo.

Quarto ostacolo: dal parcheggio al deserto.
Quando arrivi troverai una enorme area commerciale, e un altrettanto enorme parcheggio. Lasci la macchina, e vai alla fermata del bus! Sì, arriverai sul deserto in un autobus. Si riempie presto e parte, fa un paio di chilometri, si ferma, scendi e… devi prendere un altro autobus

La nostra guida, Kuldip, ha provato a spiegare perché, poi si è fermato e ha ammesso: non so perché sia così, in effetti non ha senso. 

Quindi ostacolo: controllo passaporti!
Quando credi che ormai sia tutto a posto il tuo autobus si ferma e ti fanno scendere. Che succede? Vogliono controllarti il passaporto… E così avanti fino a un altro baracchino, dove un soldato trascrive diligentemente i tuoi dati in un grosso registro. E intanto il resto dell’autobus aspetta. 

Finalmente ti lasciano andare, sali, e stavolta continuerai fino al deserto.

Visitare il deserto del Kutch: gli aspetti negativi

Il primissimo impatto con il deserto non è stato come ce lo aspettavamo, e non proprio in senso positivo. Per noi il deserto è silenzio, è pace, è muoversi in una natura incontaminata. Scendere dall’autobus che ci ha portato fin là non è stato niente di tutto ciò.

Prima di tutto gli indiani non possono stare in silenzio neanche mentre dormono, quindi c’era un vociare continuo. Poi c’era della musica sparata da un grosso impianto audio, da un’area dove sembra facciano spettacoli con proiezioni video. E poco più in là, per non farsi mancare nulla, un piccolo gruppo di musicisti stava suonando allegramente…

Ma non disperate! Basta camminare pochi minuti per allontanarsi dalla ressa e trovare il deserto che cercate. Prendete una direzione qualunque (siete nel bel mezzo del nulla), e vedrete che quasi tutti si fermano molto presto, e voi avrete il deserto tutto per voi.

La bellezza del deserto del Kutch

Non è facile descrivere a parole il Rann of Kutch. Immagino sia una di quelle occasioni in cui “una immagine vale più di 1000 parole”. Così ecco una piccola gallery di immagini. 

Secondo me neanche le immagini bastano a capire questo deserto. Sicuramente non le immagini che abbiamo fatto noi, ma sono il meglio che potevamo fare, con le attrezzature che avevamo.

Posso dirvi che il deserto del Kutch è qualcosa di diverso da tutto quello che abbiamo visto finora nei nostri viaggi. Dimenticatevi il Sahara o i deserti di sabbia.

E’ piatto, completamente piatto fino all’orizzonte, e fino all’orizzonte e oltre non si vede proprio nulla, solo una distesa bianca che non finisce mai. La linea dell’orizzonte è più un suggerimento che un confine definito. I colori sembrano sfumare tra la terra e il cielo. Ma non significa che sia tutto dello stesso colore, anzi è il contrario. Guardi davanti a te e inizi a vedere un sacco di sfumature.

Verso il tramonto vengono fuori i rossi, gli arancioni, i gialli, e la distesa di sale prende colori caldi. Ma ancora più bello è l’altro lato. Lì vedi un arcobaleno di colori tenui e morbidi: violetti, azzurri, blu, grigi. Scende il sole, e i colori continuano a cambiare, in modo quasi impercettibile. 

Non ci sono punti di riferimento, montagne, edifici, neanche una roccia che faccia da punto fermo per lo sguardo. Ti sembra di essere in un altro mondo, un mondo completamente vuoto, silenzioso, immobile. Perfetto.

Mount Abu e Dilwara: primo buco nell’acqua in India?

Dopo aver lasciato Jodhpur e le delizie dell’homestay di Chhottaram ci siamo diretti alla nostra prossima tappa: Mount Abu. E’ una famosa località di villeggiatura per gli indiani, e ci hanno detto che era un bellissimo posto dove andare. C’è la foresta, ci sono le “montagne”... 

Noi non eravamo convinti che ci sarebbe piaciuto, perché preferiamo stare lontani dal troppo turismo. Alla fine abbiamo scoperto che avevamo ragione noi. Ma prima spendiamo due righe su Mount Abu.

Mount Abu: famosa località di villeggiatura per gli indiani

Mount Abu è una piccola cittadina dove un sacco di indiani vanno a trascorrere qualche giorno di vacanza. Si trova in una zona costellata di alte colline o di basse montagne, a seconda dei gusti. E’ una zona coperta di foreste, una macchia verde circondata dal giallo desertico del resto del Rajasthan.

Ci sono diversi sentieri e passeggiate intorno alla cittadina e in mezzo al bosco. Ci sono alcuni templi e alcuni edifici storici (dopo parlerò dei più importanti). Ci sono un sacco di scimmie e di altri animali. Insomma, un ambiente bucolico e piacevole.

Mount Abu è particolarmente frequentata da coppie in viaggio di nozze, e probabilmente anche da coppiette in generale. Diversi alberghi hanno specifiche regole che vietano la prenotazione a coppie non sposate!

E’ anche una zona dove abbondano gli alcolici, e questo attira tantissimi visitatori dal vicino Gujarat, dove invece l’alcol è vietato quasi ovunque. Gli stessi alberghi di prima spesso vietano la prenotazione a persone che arrivano lì per addii al celibato e al nubilato. 

Arrivare a Mount Abu: iniziano i problemi

Il primo indizio che questa avventura poteva andare peggio delle altre è arrivato già scesi dal treno. La stazione di Abu Road si trova in pianura, mentre Mount Abu si trova in cima a una collina, dopo una lunga strada piena di curve.

Come arrivarci? Il modo più semplice è prendere un taxi, ma secondo Alessia costava troppo. Il modo più economico è prendere un autobus, ma non avevamo idea dei tempi che ci avrebbe messo. La via di mezzo è prendere un taxi collettivo, ed è quello che abbiamo fatto.

Non è stato un processo semplice, abbiamo imparato al momento. E il taxi collettivo non parte finché i posti non sono pieni, quindi ci siamo armati di pazienza e abbiamo aspettato che l’autista raccattasse altri clienti. Alla fine eravamo circa una decina di passeggeri

Il viaggio è stato un po' avventuroso, e la strada tortuosa. I nostri zaini erano caricati sul tetto, e potevamo solo sperare che non volassero via ad ogni curva stretta. Ma alla fine, dopo qualche ora dal nostro arrivo ad Abu Road, siamo arrivati a destinazione.

Impressioni di Mount Abu: la Cortina dei poveri

Abbiamo sentito descrivere Mount Abu come “la Cortina dei poveri” e mi sento di dire che la definizione è molto azzeccata.

Come Cortina si trova in montagna, ma le montagne di Cortina… vabbè non c’è confronto. Si vede da subito che è un villaggio che è stato stravolto dal turismo, e ripensato per accogliere le persone che arrivano per stare qualche giorno.

Gli edifici sono letteralmente costellati di cartelli che indicano hotel, ostelli, pensioni, resort… Sono tantissimi, uno attaccato all’altro, alcuni abbastanza inquietanti, come il “Svastik hotel”, un nome che da noi non possiamo usare per ovvi motivi.

Il resto dello spazio è occupato da negozi, ristoranti, locali di ogni tipo, tutti dedicati al turista di passaggio. E tanti, tanti negozi di alcolici, sempre molto frequentati.

Insomma, la prima impressione di Mount Abu non è stata molto esaltante. E quelle successive hanno solo confermato quello che pensavamo.

La Cortina dei poveri è una cittadina bruttina, che per noi aveva ben pochi motivi di interesse. E con il passare del tempo le cose non sarebbero migliorate… 

Dormire a Mount Abu: una esperienza non per tutti

Abbiamo prenotato la camera a Mount Abu seguendo il consiglio di una coppia di ragazzi italiani conosciuti a Jodhpur. Ci avevano avvisati che era una sistemazione basica e “decentemente pulita”.  Forse siamo ancora troppo delicati per la vera India, perché è stata una delle sistemazioni peggiori che abbiamo trovato.

L’albergo sembrava un brutto motel già da fuori, ma gli abbiamo dato il beneficio del dubbio perché avevano un labrador adorabile e un gattone bianco che dormiva in reception.

La stanza era… non molto buona, per usare un eufemismo. Mobili molto vecchi, letto abbastanza scomodo, lenzuola da non guardare troppo da vicino. Abbiamo dormito nei nostri fidati sacchi letto, che erano rimasti inutilizzati per quasi un mese.

Interessante la soluzione architettonica dal lavello fuori dal bagno, e dal bagno rialzato rispetto al resto della camera di 40 centimetri buoni, per motivi che mi sfuggono. 

Montagna = freddo

Il titolo dice tutto: Mount Abu si trova a 1.200 metri di quota, quindi definirla una località di montagna dipende dalla vostra definizione di “montagna”. Ma è abbastanza per sentire la differenza di temperatura con la pianura. 

L’India a dicembre è più fredda di quanto pensavamo, e arrivare a Mount Abu ha fatto abbassare ancora di più le temperature.

Già alle cinque del pomeriggio l’aria ha iniziato a diventare frizzantina, e più il tempo passava e più sentivamo il freddo. Alessia in particolare lo soffre molto, e ha iniziato ad accumulare strati di vestiti.

Quando siamo arrivati a sera siamo andati a mangiare appena possibile, e poi siamo tornati dritti in camera. Purtroppo gli alberghi e le case indiane spesso mancano di qualcosa che noi diamo per scontato: un impianto di riscaldamento. Hanno così poco freddo durante l’anno che lo considerano un lusso inutile. E così l’unica soluzione è stata infilarsi sotto le coperte in una stanza gelida.

L’unico motivo di andare a Mount Abu: templi di Dilwara

Dopo tante righe a parlare male di Mount Abu la domanda è: cosa ci siamo andati a fare?E la risposta è una sola: vedere i templi di Dilwara.

Dilwara ospita un piccolo complesso di templi jainisti molto famoso. I templi sono riccamente e finemente decorati di sculture. Sono uno spettacolo che ci ha lasciato stupefatti, nonostante le aspettative.

Centinaia di colonne piene di bassorilievi, e decine e decine di motivi decorativi diversi utilizzati sul soffitto. La zona centrale dei templi, la cupola più alta, era una distesa di sculture, statue, simboli che potevi ammirare per lunghi minuti senza stancarti.

Solo due templi erano davvero grandi e decorati, ma da soli valevano tutto il viaggio e tutto il bruttume che abbiamo visto prima di arrivarci.

Non provo neppure a descrivere quello che abbiamo visto. Questo è uno dei casi in cui si dice “un’immagine vale 1.000 parole”. Peccato che… a Dilwara non si possono fare fotografie. Devi lasciare cellulari e macchine fotografiche all’ingresso. Per fortuna lo sapevamo, altrimenti sarebbe stata una delusione fortissima. 

Da un lato ci dispiace perché avremmo voluto avere un ricordo da portarci via, e delle foto da usare per questo post.
D’altro lato stare senza cellulare ci ha “costretto” a concentrarci sul momento. Abbiamo pensato solo a guardare le decorazioni, ad esplorare i templi in cerca delle sculture più belle, a perdersi ammirando le figure e le composizioni create secoli fa da artisti che lavoravano con strumenti rudimentali per fare dei capolavori.

Vedi Mount Abu e poi… te ne vai

Ci sono bastate poche ore per decidere che Mount Abu non faceva per noi. Avremmo potuto facilmente prenotare per un’altra notte e continuare con il nostro viaggio in modalità slow ma… in questo caso abbiamo accelerato.

Stare un giorno è stato più che sufficiente per vedere quello che ci interessava, e per fare tante alcune interessanti ma che è meglio non ripetere.

Diciamo che nei nostri ricordi Mount Abu rimane come una esperienza da raccontare, ma non da consigliare. A meno che non vogliate fare una immersione profonda nell’estetica e negli standard di pulizia indiani.

Mandie, la maestra del Kerala

Stavolta parliamo di un incontro casuale di pochi minuti, e di una persona un pò diversa da quelle che abbiamo descritto finora. Una persona per molti versi più “normale” della gente strana che abbiamo incontrato nel nostro viaggio.

Sul treno che ci stava portando da Udaipur a Bundi abbiamo conosciuto Mandie. Il suo nome significa “meritevole di amore”, lo so solo perché lo ho cercato su internet per capire come scriverlo. E’ una maestra del Kerala, ed è salita fino a Udaipur per un corso di aggiornamento.

Ci ha raccontato di avere due figli. Il maschio sta facendo la specializzazione di laurea, anche se non abbiamo capito in cosa. Anche la figlia va all’università, in una facoltà di medicina olistica. E’ anche una atleta di tiro con l’arco, e deve essere anche di un certo livello.

La figlia studia nello stato dell’Orissa, e Mandie stava andando lì, dove avrebbe trovato anche il marito. Poi sarebbe rimasta, perché la figlia aveva una gara importante, che durava dal 24 al 28 dicembre.

Quando le abbiamo detto che stiamo viaggiando senza piani precisi, ci ha detto che anche la sua famiglia fa un pò lo stesso: “wandering”, vagabondare. Scelgono una zona e per 10-15 giorni la esplorano usando treni, auto, bus…

Dopo qualche minuto ci ha salutato, ci ha augurato buon viaggio ed è tornata al suo posto.
I piccoli dettagli che sono venuti fuori da quello che ci ha detto ci hanno mostrato una famiglia indiana molto diversa da quelle conosciute finora. Persone che viaggiano molto, con figli che studiano, anche la ragazza, cultura medio-alta… Un altro incontro casuale molto interessante.

Kutch: una regione da visitare prima che sia troppo tardi

Abbiamo passato qualche giorno in una regione un po' sperduta dell’India: il Kutch. Si trova all’estremo ovest del Paese, nello stato del Gujarat, al confine con il Pakistan a ovest e a nord, e il mare a sud. Per arrivarci devi prima arrivare ad Ahmedabad, capitale del Gujarat e bella città anche per conto suo. Da lì prendi un treno di qualche ora fino a Bhuj, e poi inizia l’avventura.

Se vuoi vedere un’India diversa, ma vera, il Kutch potrebbe essere il posto che stai cercando. Ma le cose stanno cambiando in fretta.

Il Kutch oggi: la natura, la gente, la storia

La regione del Kutch è una zona unica all’interno dell’India. E’ una zona desertica, molto isolata dal resto del paese, una zona di confine che per secoli si è evoluta in isolamento, sia nei confronti degli Stati circostanti, che al suo interno.

Il deserto non facilita le comunicazioni, e così il Kutch è costellato di piccoli villaggi che spesso sono un mondo autonomo e autosufficiente. Gruppi di villaggi sono legati da una storia e degli antenati comuni, ma non ci sono fortissimi legami politici o amministrativi.

E’ una terra selvaggia e dura, dove è difficile trovare di che vivere. L’acqua scarseggia, le fonti si prosciugano, e le piccole comunità devono essere pronte a spostarsi continuamente in caso di siccità.

Sono popolazioni nomadi da sempre. Le loro tradizioni e le storie dei loro antenati sono piene di racconti di re che li hanno cacciati, o che li hanno accolti mentre scappavano da qualche disastro, o da migrazioni per raggiungere un posto dove stabilirsi.

Siccome le piccole comunità dovevano essere autosufficienti, hanno sviluppato delle forme di artigianato uniche, e pensate per una vita nomade. L’esempio classico sono i ricami fatti su bluse, gonne, borse e sui vestiti tradizionali. Si tratta di lavorazioni difficilissime, che richiedono un sacco di tempo e di pazienza. Spesso erano (e sono) gli unici oggetti di valore che possiedono.

I villaggi vivono soprattutto di allevamento di capre e bufale. Se sono fortunati possono avere qualche coltivazione che non richiede tanta acqua. Poi i giovani e gli uomini possono guadagnare lavorando a giornata o come salariati nei campi e nelle attività produttive della zona.

Come e perché il Kutch sta cambiando

Negli ultimi anni il Kutch ha iniziato a cambiare in maniera profonda e rapidissima.
Tutto è partito dal grande terremoto del 2001. Non preoccuparti se non lo hai mai sentito nominare, neanche io. Ma loro se lo ricordano bene, ha fatto decine di migliaia di morti e ha distrutto mezza regione.

Dopo il terremoto il governo centrale indiano si è interessato molto al rilancio economico della regione. Lo ha fatto con forti agevolazioni alle grandi industrie, per spingerle a investire nella zona. E così sono nati impianti per la produzione di energia elettrica, e poi grandi industrie per la lavorazione di minerali e materie prime.
Le industrie hanno creato indotto, e i nuovi posti di lavoro hanno attirato disoccupati che venivano anche da lontano. L’aumento della popolazione ha portato alla costruzione di nuove case e interi nuovi quartieri.

E così il Kutch ha iniziato a crescere economicamente, ma in modo disordinato e caotico, che sta avendo delle conseguenze su una società e sistemi di vita che si erano mantenuti per secoli. 

Questa crescita recente si è anche aggiunta a un altro fenomeno inevitabile: l’arrivo della modernità e di un nuovo stile di vita. Difficile scegliere di rimanere a vivere in un villaggio sperduto in mezzo al nulla, con poca acqua, poca elettricità, zero elettrodomestici se hai un’alternativa. E le nuove generazioni preferiscono spostarsi verso la città e provare uno stile di vita che i loro genitori e nonni non potevano neanche immaginare.

Conseguenze dei cambiamenti sulle culture del Kutch

Lo sviluppo economico e l’arrivo di prodotti e stili di vita “moderni” fanno dimenticare la cultura e le tradizioni secolari del deserto e dele zone del Kutch.
E anche se alcune persone e alcuni villaggi si impegnano a conservare i propri ricordi e le proprie tradizioni, i cambiamenti arrivano in modo subdolo e sottile.

Una volta i villaggi erano molto isolati tra loro, le diverse comunità si incontravano raramente, e la maggior parte degli abitanti non avevano contatti con l’esterno. Così ogni villaggio, e ogni comunità, aveva delle caratteristiche uniche e ben definite. Avevano i loro ricami, i loro dialetti, le loro ricette, le loro musiche e le loro canzoni. 

Ma i villaggi e le persone sono sempre più connessi tra loro. Questo è uno sviluppo positivo per mille motivi, ma ha anche portato alla perdita di questa unicità. Le diverse manifestazioni artistiche tendono a uniformarsi, a prendere elementi le une dalle altre. E così le musiche tendono a somigliarsi di più, e diventa più difficile distinguere i ricami di un villaggio da quelli dei vicini.

Iniziative e progetti per salvare la cultura del Kutch

La crescita economica e lo sviluppo hanno portato a trascurare tradizioni, modi di vita e cultura che vengono visti come superati e inutili. I maggiori contatti hanno portato a una perdita di unicità e differenziazione delle produzioni artigianali.

Ma ci sono anche delle iniziative che cercano di salvare queste conoscenze e questa ricchezza culturale, prima che sia troppo tardi e che non siano più recuperabili.

Uno di questi progetti è portato avanti dal Shrujan Trust, che per decenni ha lavorato per preservare le conoscenze e le abilità artigianali delle comunità che vivono nelle zone desertiche del Kutch. Queste lavorazioni stavano pian piano scomparendo, ma il lavoro dell’associazione ha aiutato a scoprirle, conservarle ma anche a dare nuova vita, facendole conoscere e creando una fonte di reddito per donne che altrimenti non avrebbero avuto altre entrate.

Il risultato più visibile di tutti questi sforzi è il LLDC, il Living and Learning Design Center. E’ un grande museo che si trova in un paesino fuori Bhuj, e che raccoglie esempi di altissimo livello dell’artigianato del Kutch.
In particolare hanno un sacco di esempi di embroidery, di ricami fatti a mano dalle donne delle comunità che vivono nel deserto. Ci sono delle creazioni veramente incredibili, che lasciano a bocca aperta. E’ spiegato molto bene, moderno, comodo, peccato solo che si trovi un pò fuori mano.

Kutch: andateci il prima possibile!

Se andate in India, e avete il tempo di andare oltre i soliti percorsi, nel Kutch potrete scoprire ed esplorare tante sfaccettature della cultura e della natura indiana che altrimenti non vedrete mai

Ma non rimane molto tempo: ogni anno il nuovo e il moderno cancellano un pezzo di storia, di cultura, di tradizioni secolari.

Emozioni pre partenza

Ormai ci siamo! Mancano 4 giorni alla partenza!
Ricordo ancora l'emozione nel momento in cui abbiamo comprato il biglietto di sola andata. Era luglio e ci sembrava di avere ancora così tanto tempo davanti a noi per organizzare tutto... ma in un lampo eccoci qui.

Come mi sento? Un sali e scendi di emozioni...

Nei miei passati viaggi è sempre prevalsa solo la gioia e l'euforia. Erano viaggi più brevi con biglietti di andata e ritorno e con la "vita normale" che mi attendeva al rientro.
Ora che mi trovo a dover partire per un viaggio sabbatico di circa 6 mesi le emozioni sono un po' diverse.

In alcuni momenti mi sale l'agitazione. Inizio ad immaginarmi qualche scenario di quello che può capitarci, mi domando se saremo in grado di capirci, di affrontare il paese in cui andremo, se riusciremo a trovare quello di cui abbiamo bisogno. Poi inizio a chiedermi "ma chi me lo ha fatto fare?", " andrà tutto bene?", "ma siamo veramente pronti?"

In altri momenti invece mi ritrovo a pensare agli affetti che non vedrò per un po' di tempo. Chi con dei gesti, chi con delle parole, chi con un pensierino, un sorriso o con un abbraccio, mi stanno regalando un affetto che quasi non credo di meritare. E una lacrimuccia mi scende.

E poi ci sono i momenti in cui mi ritrovo a parlare con qualcuno di questa avventura o mi metto a leggere, a curiosare, a progettare qualcosa sul viaggio e inizia a battermi forte il cuore. Un senso di calore, di euforia, di entusiasmo mi avvolge. Mi perdo nei miei pensieri, non volendo inizio ad immaginarmi le persone che potrei incontrare, i bambini, il caos delle città, il cibo piccante che mangerò... sorrido e mi sento serena

Siamo pronti a partire?
Forse si, forse no... ma forse non è nemmeno importante.

Che fatica partire per un viaggio senza senza programmi

Negli ultimi giorni prima della partenza i lavori da fare sembravano non finire mai.
Sopratutto non finivano mai le ricerche, le cose da decidere, i dubbi da chiarire, le possibilità da esplorare...

Abbiamo deciso di partire senza un itinerario preciso.
Vogliamo che sia un viaggio di esplorazione e di scoperta, e non si può scoprire molto se hai già deciso prima che cosa vedere.
E' un bel concetto, nella teoria. Ma è anche una gran fatica.

Partire senza programma: più difficile di quanto pensi

Come mai?
Perché quando decidi di partire senza un piano, in realtà le cose da pianificare aumentano.
O almeno è così che è diventato per me.

Facciamo un esempio. Lo scorso anno siamo andati fino in Turchia, e siamo stati via circa un mese.
Quella volta avevamo un bel programma abbastanza preciso. Il percorso era deciso, ogni notte era prenotata, si trattava solo di spostarsi da una città all'altra. C'era voluta una bella fatica, ma lentamente l'itinerario aveva preso forma, e poi le tessere del mosaico avevano iniziato ad andare al loro posto. Se dormivamo lì, il giorno dopo potevamo arrivare fino a quell'altra città. E poi da lì a quella dopo, e così via. Si cerca un posto buono per ognuna, si decide quanta strada fare, si cercano le cose belle da vedere per ogni fermata. Ad ogni decisione l'incertezza diminuisce, e anche le cose da fare.

Con questo viaggio sarà tutto diverso.
Abbiamo delle idee di cosa vogliamo vedere, e di cosa vogliamo fare. Un sacco di idee, a dirla tutta.
Ma non abbiamo deciso con che ordine farle, o se farle tutte, o quante riusciremo a farle. Abbiamo prenotato solo le prime notti, e poi ci sono solo delle possibilità, tante possibili opzioni. Ogni possibile scelta porta a diverse possibili conseguenze, e a un ventaglio di ulteriori scelte potenziali. E così via, tanto che presto ci troviamo davanti un numero incalcolabile di possibili combinazioni.

Questo che significa? Che le decisioni da prendere e le cose da ricercare non finiscono mai. Mentre con un itinerario preciso hai anche un numero finito di tappe, qui di itinerari possibili ne abbiamo un sacco. Di tappe, ancora di più. E per ogni tappa ci sono cose da vedere, posti dove dormire, dove mangiare. Per ogni gruppo di destinazioni ci sono tanti possibili percorsi. E via così...

Come viaggiare senza un itinerario? Secondo me serve...

E in tutto questo vorremmo evitare di fare troppo i precisini, e fare un viaggio "disorganizzato", non scegliere le cose in anticipo. Ma questo, per me, significa dovermi preparare ancora di più. Perché va bene andare all'avventura, ma è meglio avere anche gli occhi aperti su quello che ci aspetta e sui possibili scenari.
E va bene voler seguire l'ispirazione del momento, ma viene meglio se abbiamo un'idea precisa di quello che abbiamo intorno in quel momento, e di cosa può esserci di interessante.
E' bello muoversi secondo le decisioni del momento, ma è più facile farlo se ti sei studiato prima i vari mezzi a disposizione.
Bello fermarsi in una città quanto si vuole, senza prenotare mesi prima. Ma ti è più facile se sai conosci le migliori alternative, per evitare di dover dormire in una bettola con i topi che ti camminano sui piedi.

Insomma: viaggiare senza un piano preciso mi sembra molto più faticoso di un viaggio "normale", con le tue belle cose già organizzate prima ancora di salire sull'aereo. Ma stavolta andiamo all'avventura così: massima libertà di decisione e di azione, anche se questa libertà richiede molto più impegno.

Dopo i primi giorni di viaggio sentiamo le prime conseguenze di questo modo di viaggiare.
Da una parte è bello fare quello che vogliamo e non avere vincoli. Dall'altra prima o poi bisogna decidere, e quando lo fai ti trovi con gli svantaggi dell'ultimo minuto: poca disponibilità, prezzi più alti... vedremo se riusciamo a prendere un po' le misure.

Un viaggio carico di aspettative contrastanti

Abbiamo iniziato a progettare questo viaggio quasi 12 mesi fa.
Nel tempo, è passato da un vago desiderio a un progettone che ha richiesto centinaia di ore di studio, centinaia di pagine di appunti, centinaia di giorni di preparativi.
Eppure, anche dopo tutto questo tempo e tutti questi sforzi, è ancora un groviglio di idee e di pensieri che si scontrano tra loro, si ricombinano, evolvono, cambiano, si cancellano, e poi magari tornano più tardi sotto un'altra veste.

Gli inizi e le prime idee per il viaggio

Siamo partiti con l'idea di un "viaggio sabbatico". Volevamo prenderci un periodo di pausa dalla nostra vita degli ultimi anni, e cambiare tutto, almeno per qualche mese.
E l'India era il posto giusto per cambiare tutto, perché era tutto un altro mondo.
E così saremmo andati in India.
E sarebbe stato un sabbatico, quindi un periodo di tempo da non trascorrere a correre da una città all'altra, da un posto bellissimo al prossimo, da un'esperienza a quella successiva. Volevamo prenderci il tempo di fare le cose con un altro ritmo, più lento del nostro solito.

Le complicazioni della progettazione

Ma poi. Mentre studiavamo, imparavamo, iniziavamo a mettere insieme i diversi dettagli di questo viaggio, la faccenda ha iniziato a complicarsi.
Bello viaggiare lenti, prendersi il tempo, non fare troppi progetti, ma....
Ci sono un sacco di cose da vedere in India. Mica è facile decidere che cosa vedere e che cosa no.
E poi... vuoi andare in India senza andare a fare un'esperienza di meditazione da qualche parte? E dove? E con chi?
E poi... perché non provare a fare un po' di volontariato, per entrare a contatto con la gente. E come? E dove?
E poi... vuoi non portarti le cose per dipingere (questa è Alessia, naturalmente. Le mie espressioni artistiche non sono di sicuro nella pittura)? Vuoi non metterti a scrivere?
E poi.... viaggeremo in posti esotici per sei mesi, vuoi non fare un qualche tipo di blog?
E poi....

Insomma, a questa idea di pellegrinaggio semplice e senza meta si sono aggiunte un bel po' di attività accessorie. Per carità, tutte belle, tutte interessanti, tutte condivisibili. Ma alla fine abbiamo iniziato a chiederci dove avremmo trovato il tempo di fare tutte queste esperienze così interessanti, come trovare le energie per portare avanti tutti questi progetti.

La semplificazione di progetti complessi

E così poi siamo un po' tornati indietro. Abbiamo iniziato a pensare a come semplificare il viaggio. A come evitare di ricadere nei vecchi errori, nel pianificare le nostre mosse per "ottimizzare" e "sfruttare al meglio il nostro tempo".
Perché alla fine ottimizziamo e sfruttiamo al meglio da un bel po' di tempo, e sarebbe anche il caso di provare a vivere in qualche altro modo. E se non lo facciamo in India, a migliaia di chilometri da casa, dove riusciremo mai a farlo?

Ma non è neanche semplice rinunciare a tutte queste buone, volonterose idee.
E quindi? Non abbiamo ancora trovato una risposta, e ogni giorno si aggiunge una nuova sfaccettatura, una sfumatura diversa che sembra conciliare un po' meglio tutto quello che abbiamo in testa.

E siamo ancora in Italia. Per ora è un po' tutto sulla nostra testa. Ho una mezza idea che una volta che saremo davvero nel cuore delle cose, una volta che entriamo davvero in questa nuova avventura, tutto quello che è stato pensato e preparato prima verrà stravolto. E magari non sarà neanche una svolta così sbagliata.

Cosa mettere in zaino per 6 mesi in India

Andiamo in India con il piano di esplorarla per circa 6 mesi.
Questo vuol dire che abbiamo dedicato lunghe ore e molti sforzi a rispondere a una domanda: cosa caricare nello zaino?
E anche altre domande, come ad esempio: quanto peso e quante cose possiamo portare a spasso? Come risparmiare qualche etto nel nostro bagaglio? A cosa possiamo rinunciare? Quante mutande ci serviranno? E altri affascinanti interrogativi.

Dopo molti mesi siamo arrivati a una lista ormai definitiva, che ho suddiviso per categorie per una più facile consultazione:

  • zaini e affini
  • abbigliamento
  • attrezzatura
  • tecnologia
  • beauty per il bagno
  • medicinali

Ecco tutto il nostro bagaglio.

Zaini e affini

Tutta la nostra roba dovrà pur essere messa da qualche parte.

  • Zaino 50+10 litri Deuter, per me
  • Zaino 60+10 Deuter, per Alessia (nuovo acquisto)
  • Zaino da cabina ottimizzato per misure Ryanair: molto comodo per portarsi le cose importanti sempre con sè, anche in aereo
  • Zaino medio di altro tipo
  • 2 zaini piccoli e appallottolabili: per girare in città comodi
  • Copri zaino: utile quando piove, ma anche per insaccare lo zaino al check-in, che le fibbie e le cinghie non piacciono alle compagnie aeree

Abbigliamento

Siamo diventati habitué del Decathlon negli ultimi anni.

  • 6 magliette tecniche e normali
  • 1 felpa tecnica: leggera e calda
  • 1 maglia leggera (per me) o 1 pesante (per Alessia)
  • 3 pantaloni tecnici e pantaloni "sbracaloni" (larghi, comodi, leggeri)
  • 7 paia di calzini: tecnici, da trekking, leggeri e pesanti
  • Mutande tecniche: traspiranti e ad asciugatura rapida
  • Cappelli contro il sole
  • Fascia per il collo
  • 2 magliette da usare come pigiama (per me) e pigiama completo (per Alessia)
  • Scarpe da trekking
  • Sneakers leggere
  • Sandali da escursione: utili per ogni momento, quando fa molto caldo
  • Ciabatte infradito: da usare in camera
  • K-way

Attrezzatura

Ti vengono in mente un sacco di cose "indispensabili" quando pensi a cosa potrebbe servirti in un lungo viaggio...

  • Moleskine x2 per segnare pensieri e ricordi
  • Attrezzatura per disegni e pittura
  • Taccuini per appunti
  • Portafogli da viaggio x2, più bruttini e leggeri
  • Marsupio per soldi e documenti, da tenere sotto la maglia
  • Sacco lenzuolo superleggero x 2, che non si sa mai come sono i letti che trovi
  • Borraccia filtrante, per le situazioni di emergenza
  • Torcia frontale, quando devi vederci di notte e ti servono le mani
  • Filo stendibiancheria da campeggio, così non servono mollette
  • Lucchetti con combinazione x2
  • Occhiali da sole
  • Occhiali di riserva
  • Coltello piccolo: per sbucciare frutta e verdura
  • Tappi per le orecchie

Tecnologia e hobby

Va bene l'avventura, ma il giusto gadget tecnologico può risolvere un sacco di problemi, e darti anche l'opportunità di fare qualcosa in più.

  • Cellulare: ci siamo portati i nostri, inutile comprare altro
  • Cover cellulare da viaggio: simile a quella normale, ma con un utile cordino da tenere al collo. In tasca, o in mano mentre si è distratti, è sempre a rischio
  • PC portatile: qui abbiamo scelto un Chromebook, poco costoso e fa tutto quello che fa un pc usato mentre sei in viaggio, senza pretese
  • Trasformatore: il Chromebook arriva con un alimentatore dimensioni anni '00, quindi devo comprare qualcosa più adatto al viaggio
  • E-book reader: uno a testa, sostituisce decine e decine di libri, poco pratici da mettersi in spalla
  • Hard disk portatile: ne fanno di piccolissimi! E da qualche parte bisogna pur fare il backup delle foto
  • Power bank da 10.000 mah
  • Selfie stick che diventa anche treppiede
  • Cellulare di riserva: un vecchio modello, sempre utile averlo sotto mano se succede il peggio
  • Adattatore presa di corrente: ne abbiamo uno che va bene per 140 Paesi del mondo, ma l'India non è tra questi, quindi altro acquisto...
  • Cavi vari: Usb classico, Usb-C to Usb-C, Usb to Usb-C, Lightning...
  • Auricolari per cellulare
  • Pennetta USB di riserva

Bagno

Qui non ci inventiamo niente di particolare:

  • Beauty da viaggio: con un comodo gancio per appenderlo un po' dappertutto
  • Spazzolino
  • Dentifricio da viaggio: piccolo e compatto, e quando finisce si compra sul posto
  • Shampoo solido
  • Sapone da doccia
  • Deodorante solido
  • Rasoio: ogni tanto la barba va sistemata
  • Spazzola da viaggio: il manico si piega, occupa molto meno spazio
  • Forbicina da unghie

Medicinali

Sempre difficile capire cosa è meglio avere sempre sotto mano, e cosa finisce nei bagagli solo per la nostra ipocondria latente. Non prendete questa lista come qualcosa di ufficiale. Prima di ogni viaggio, soprattutto se a lungo termine, è necessario confrontarsi con il proprio medico di base.

  • Antibiotici
  • Antidolorifici
  • Antidiarrea
  • Antistitichezza
  • Tachipirina
  • Amuchina
  • Cerotti e disinfettante
  • Crema solare
  • Repellente per zanzare

Ed eco qui la lista praticamente completa.
Risultato finale? 23 kg di bagagli, da dividere in 2, compreso il peso degli zaini. Partiamo con circa 12 kg sulle spalle a testa.

Homestay a Orchha: vivere in vera casa indiana

Nel nostro viaggio in India ci siamo fermati a Orchha, una piccola cittadina a sud di Agra, a ovest di Khajuraho. Abbiamo scoperto che è anche molto frequentata di turisti, spesso italiani.

Abbiamo dormito in un homestay di una famiglia davvero speciale, che ci ha fatto sentire un pò a casa anche se lontani da casa. E stavolta la nostra sistemazione è stata più “avventurosa” del solito. Abbiamo scoperto che possiamo rinunciare a tante comodità che riteniamo fondamentali e stare bene lo stesso.

Vediamo questo nuovo homestay e come è fatta una vera casa di campagna indiana.

La stanza in un homestay indiano

La nostra stanza era molto carina. Grande, spaziosa, con un tavolino e due sedie, un letto molto grande, un sacco di interruttori (agli indiani piacciono gli interruttori).

Certo, a guardarla bene c’erano alcuni dettagli che la rendevano ancora più particolare. Le pareti erano di fango, ma questa ormai non è pù una novità per noi. C’era una finestra poco isolata, e anche questa non è una novità. 

C’erano due porte, e questo sì, non ci era ancora successo. Entrambe le porte lasciavano passare il freddino della sera, ma una aveva chiuso le fessure peggiori con lo scotch, quindi l’impegno c’è.

Ma il vero pezzo forte è il tetto di coppi. Guardi in su e ci sono dei teli. Ancora più in alto, in trasparenza, vedi i coppi del tetto. Così, de botto, senza isolanti di nessun tipo.

E se, mettiamo caso, una notte si mette a piovere, senti il piacevole picchiettare della pioggia. E vedi l’aqua che cola lungo i muri, anche se per fortuna non è arrivata sulle nostre cose. 

Il letto in un homestay indiano

Il letto nella camera non poteva ovviamente essere da meno. Non era un banale letto come i nostri, ma era un letto tradizionale indiano, il charpoy. Praticamente una brandina fatta intrecciando strisce di corda. Sopra c’era un sottile materasso, e sopra un piumino spesso, e una coperta pesantissima ma che teneva tanto caldo.

Certo non era comodissimo ed era duro come una tavola, mentre il cuscino è sottile e morbido che quasi non lo senti, ma alla fine ti abitui.

Avevo detto che il letto era grande, specifico che era enorme… in larghezza. Non riuscivo quasi a raggiungere Alessia, e visto che erano due charpoy spinti insieme, non era possibile incontrarsi nel mezzo perché sentivi la struttura di legno sotto la schiena.

In compenso il letto sarà stato lungo un 1 metro e 80 centimetri scarsi, quindi se mi allungavo i piedi mi uscivano e stavano al freddo… 

Il bagno in un homestay indiano

Per la prima volta da quando siamo partiti, abbiamo preso una stanza con un bagno condiviso. Fuori da una delle porte della nostra camera c’era un portico che portava alla stanza della doccia e alla stanza del gabinetto. Il lavandino lo hanno lasciato fuori sul portico. Alla fine era tutto molto pulito e molto comodo, meglio di tanti altri bagni che abbiamo visto in questo viaggio.

Certo c’erano anche qui delle particolarità. Di una parlerò un pò più avanti. Qui ricordo solo che la doccia non era collegata all’acqua calda. Se volevamo questo lusso chiedevamo alla famiglia, che ci forniva una tinozza riempita di acqua caldissima, da mixare con l’acqua fredda del rubinetto. E poi te la versi addosso, e gli indiani di solito fanno la doccia così. 

Io lo trovo molto scomodo, ma per non andare sotto l’acqua fredda della doccia mi sono adattato volentieri.

I vicini di camera in un homestay indiano

Anche in un piccolo homestay può capitare di avere dei vicini di camera. Non solo la famiglia, quello è ovvio. Parlo di vicini molto più interessanti.

Sotto una tettoia c’è il vitellino Pushpi (in hindi significa: un essere adornato di fiori, che rappresentano bellezza e abbondanza, e serve come una incarnazione dello splendore della natura e degli attributi divini. L’hindi può avere dei termini molto ricchi di significato).

Il vitellino è senza mamma, che è morta 15 giorni dopo il parto, ma sta crescendo piano piano mangiando cibo nutriente e latte dal suo biberon. E quando fa freddo sta sotto la sua coperta, perché se gli umani hanno freddo e si coprono, perché non dovrebbe fare lo stesso anche lui?

E non è l’unico animale che ti fa compagnia. Non dimenticarti che ogni volta che vai in bagno, se alzi lo sguardo, ti trovi a fissare gli occhi scuri di… tre gechi. Stanno acquattati sugli angoli del bagno, probabilmente a caccia di insetti,e quando accendi la luce ed entri ti fissano. E ti giudicano (probabilmente).

Erano due, poi sono diventati quattro, e alla fine erano tre. Non sappiamo bene da dove siano arrivati gli altri, né dove sia andato il quarto. Ogni viaggio in bagno poteva essere una sorpresa.

E infine ci sono i cani, che vengono in visita due volte al giorno. Gli indiani sono molto buoni con i cani, e hanno le loro regole. Ad Orchha la regola era: il primo chapati è per la mucca, l’ultimo è per il cane.
E due cani si presentavano con regolarità a chiedere il loro chapati. Entravano in cortile, si piazzavano fuori dalla porta della cucina, e scodinzolavano in attesa del loro spuntino. 
Quando arrivava, mangiavano, e poi trotterellavano via. Educati, silenziosi e coccolosi.

La sala da pranzo in un homestay indiano

Quando è ora dei pasti, puoi dirigerti verso la sala da pranzo. Non i noiosi saloni degli alberghi, con il loro design asettico, i loro tavoli, le sedie, e tutte quelle cose inutili.

In un homestay come quello di Orchha si mangia in cucina, con il resto della famiglia.
C’è un bel fuoco per cucinare i chapati che ti scalda. C’è la porta aperta per fare uscire il fumo, che ti raffredda. I ripiani servono per appoggiare le cose, ma si cucina per terra, che c’è più spazio.
E si mangia per terra, basta una stuoia sotto il sedere. Sei anche vicino ai fornelli e al fuoco, così basta un attimo per avere un bis di ogni cosa.

Come siamo stati in homestay indiano “estremo”

Riassumendo: stanza che fa entrare pioggia, letto che è poco più una brandina, notti fredde e tempestose, bagno condiviso, animali dappertutto, mangiare per terra…

Sembra una ricetta per un soggiorno da incubo. E invece siamo stati benissimo, e non volevamo più partire. 

La stanza era grande e comoda, le coperte ci tenevano al caldo, le lenzuola erano vecchie ma pulite, il bagno era tra i migliori che abbiamo avuto in India, gli animali facevano compagnia.

Quello che ha fatto la differenza è stata la famiglia. Kiran, Surendra, e soprattutto la loro figlia Kushi sono stati super accoglienti dal primo all’ultimo minuto, e così quelli che potevano essere scomodità sono diventati avventure divertenti.

Abbiamo vissuto su noi stessi quello che milioni di indiani vivono ogni giorno, e abbiamo anche avuto il vantaggio di arrivare nella breve stagione fredda, quando le temperature sono sopportabili. Vivere così tutti i giorni, con 9-10 mesi di caldo torrido… questi giorni ci hanno fatto capire quanto siamo fortunati, e quanti lussi diamo per scontato.

Homestay nel Kutch: parte della famiglia

Come abbiamo scritto in altri post, il Kutch è stata una delle esperienze più speciali che abbiamo fatto in un viaggio pieno di esperienze speciali.

Il deserto, gli artigiani, i workshop… ma quello che ha fatto davvero la differenza è stato vivere qualche giorno con la famiglia di Kuldip. Con loro “homestay” non era solo dormire in casa loro, ma condividere la loro vita e far davvero parte della famiglia.

Una esperienza davvero diversa dalle altre. E siamo partiti con il botto già dal primo giorno…

Sei in famiglia quando… dormi in anticamera

Il nostro homestay era ai confini della città, quindi arrivare ha richiesto un po' di impegno, una chiamata, qualche giro a vuoto del rickshaw. 

Siamo arrivati in anticipo rispetto ai programmi, quindi l’unica stanza libera era occupata. Ma nessun problema, c’è un piano di riserva. C’è un altro letto, solo che… è in anticamera.

Sali le scale, entri al primo piano, ed ecco il letto. Grande, comodo, e ha anche una tenda davanti per garantire la privacy. Cosa possiamo volere di più?
Io sono perplesso, ma Alessia è inspiegabilmente entusiasta, quindi mi adeguo. Sul letto c’è anche un cuscino ricamato con il Piccolo Principe, e per Alessia questo elimina ogni possibile dubbio. 

Alla fine siamo stati bene, era una nicchia comoda e calda dove abbiamo dormito di gusto.

L’ospite che ci precede è un musicista francese che fa ogni anno un viaggio in India per farsi ispirare dai ritmi e dalle melodie indiane. La sera abbiamo cenato tutti insieme, poi ha preso il suo strumento (che ha un nome, ma non lo ricordo più) e si è messo a suonare. Ha improvvisato mentre Ankita (la moglie di Kuldip, che gestisce l’homestay) cantava canzoni classiche indiane, e poi ha anche duettato con loro figlio, che suona le percussioni.

Devo dire che come inizio è meglio che fare check-in alla reception, chiedere la password del wi-fi, e controllare la stuazione delle lenzuola della tua nuova stanza.

Sei in famiglia quando… mangiate tutti insieme

Nei giorni successivi abbiamo mangiato colazione, cena e a volte anche a pranzo con loro. Abbiamo consumato quantità incredibili di chapati in tutti i modi e con tutte le salse. 

Una sera in particolare siamo tornati e abbiamo visto la nonna in cortile, davanti a un forno di terracotta con un fuoco di legna. Impastava e cucinava millet bread, un tipo di pane indiano particolare tipico del Rajasthan, che ci piace tantissimo.

Siamo stati intorno al fuoco per sfuggire al freddo della sera, a parlare un po' e a guardarla all’opera. Abbiamo anche mangiato così, con il fuoco come unica luce, con la nonna e Ankita. 

Abbiamo parlato molto della famiglia, dei matrimoni indiani, delle usanze che hanno… abbiamo imparato un sacco di cose che altrimenti non avremmo mai saputo. Su come pensano, su come si comportano con i familiari, su cosa ci si aspetta dai figli, su cosa fare e non fare a un matrimonio…
Noi abbiamo sfoggiato un po' di foto del nostro matrimonio, e abbiamo raccontato come sono le cose da noi.

Forse è stato da quella cena che i programmi sono un po' saltati. Abbiamo smesso di cercare di riempire le giornate con tutte le avventure possibili e immaginabili, e abbiamo iniziato a vivere la nuova situazione così come veniva. Ne abbiamo guadagnato delle esperienze che non si fanno in nessun viaggio organizzato.

Sei in famiglia quando… dai una mano

La mattina dopo, ad esempio, siamo andati in terrazza a fare colazione per approfittare del sole. Lì c’erano dei mung beans della loro fattoria, messi a seccare. Sono una specie di piselli, quando sono secchi abbastanza rompono i bacelli, raccolgono questi mini fagiolini, e poi li usano per fare qualcosa di simile a una minestra di verdure.

E così dopo colazione ci siamo messi tutti insieme a sbucciare e ripulire i fagiolini: Ankita, Kuldip, Alessia ed io. Ci sono volute un paio d’ore circa per ottenere un chilo, un chilo e mezzo di legumi. E alla fine ci siamo divertiti anche così, a fare lavori “di campagna”.
Mi ricordo che da piccoli sbucciavamo enormi quantità di piselli con la nostra nonna paterna, tutti insieme in cucina. E’ stata una cosa un po' così.

Siccome i discorsi finivano spesso sul cibo, ci hanno chiesto cosa ne pensavamo della pizza indiana. Mettiamo da parte la loro passione per la pizza di Domino’s, perché mi fa spavento pensare che le alternative locali sono peggiori…

Quando abbiamo detto che ogni tanto facciamo la pizza a casa (più una focaccia, in realtà), è venuta fuori l’idea che avremmo potuto farla anche lì in India. E così una sera ci abbiamo provato. 

Il pomeriggio siamo andati a comprare gli ingredienti, e poi abbiamo fatto l’impasto. O meglio, lo ha fatto la mamma di Kuldip, che ha decenni di esperienza nell’impastare il chapati.
La sera poi ci siamo messi d’impegno, anche se non è stato facile. Gli ingredienti erano tutti diversi, e il forno era un aggeggio antiquato che hanno tirato fuori da un armadio…

Nonostante il pessimismo, e dei tempi di preparazione lunghissimi, alla fine siamo riusciti a mettere in tavola due teglie.
E così, forse per la prima volta in tutti i nostri viaggi, abbiamo mangiato la pizza fuori dall’Italia (spoiler alert: non sarà l’ultima volta).  Ed era la nostra pizza: abbiamo fatto la pizza in India!

Come è venuta?

Secondo me non è venuta affatto male, considerati gli svantaggi e le problematiche della situazione. La famiglia ha apprezzato, chi più e chi meno. La nonna ha assaggiato e poi fatto il bis, mentre il figlio ha lamentato il troppo poco formaggio.

Alessia era meno convinta di me, ma come ha detto Ankita: loro non sanno come è la vera pizza, quindi per loro questa è la migliore pizza italiana possibile!

Sei in famiglia quando…  passi il tempo insieme

Con il passare dei giorni ci siamo trovati a passare il tempo con la famiglia.

Un pomeriggio siamo saliti in macchina con Kuldip, Ankita, loro figlio e una loro amica e siamo andati fino alla loro futura fattoria. Per ora è un terreno poco curato con una tettoia di bambù e una distesa di piante che non ho mai visto in vita mia. Siamo stati lì a parlare un pò, rilassarci, guardarci intorno, e ammirare il sole che tramontava.

Un’altra sera siamo tornati mentre i giovani erano fuori per qualche impegno. Abbiamo cenato con i nonni. Si vedeva che la nonna aveva voglia di parlare, quindi Alessia si è messa d’impegno con il suo inglese. 
La nonna è una vecchietta sprint, e ci ha raccontato che nel pomeriggio si sono ritrovati con altri anziani al parco, e lei si è lanciata nel karaoke. E’ grande appassionata di musica e adora cantare, e il video che ci ha mostrato lo conferma. 
Ci ha anche consigliato un filmone indiano dei primi anni 2000 ambientato anche in Italia. Al nostro ritorno proverò a cercarlo.
E’ andata a trovare un altro figlio in Inghilterra nel periodo di Natale. Siccome i nipoti non parlano hindi, lei si è messa a guardare i cartoni animati per imparare un po' meglio l’inglese.

Il nonno era molto più riservato, ma ogni tanto faceva una domanda o una osservazione, e a fine cena ci ha offerto orgoglioso dei datteri di importazione, che erano buonissimi.

Adesso che ci ripenso mi ricordavano un po' i miei nonni materni. Per fortuna non me ne sono accorto subito, o mi sarei emozionato troppo.

Una volta avrei considerato questi momenti come “tempi morti”, ma sono invece ricordi speciali da portarsi a casa.

Sai in famiglia quando… te ne vai solo all’ultimo minuto

I nostri programmi per l’ultimo giorno erano abbastanza chiari: fare gli ultimi acquisti, preparare i bagagli, magari rilassarci un pò, e andare a prendere il treno la sera. Ma ovviamente non poteva andare così.

Prima di tutto, lo shopping è durato più del previsto, e siamo tornati verso sera carichi di borse, dopo aver girato tutto il giorno.

Pensavamo di comprare qualcosa da mangiare in treno, ma la nostra nuova famiglia ha voluto preparare un’ultima cena da mangiare insieme. Siamo rimasti a mangiare e parlare quanto possibile, e forse anche di più. 

Alla fine non potevamo più aspettare. Abbiamo salutato i nonni e ci siamo messi in macchina con Kuldip e Ankita, che ci hanno accompagnato fino alla stazione. Qui ci siamo fatti gli ultimi saluti e gli ultimi auguri, a noi per un buon viaggio, a loro per la buona riuscita dei nuovi progetti. 

Sono riusciti anche a stupirci un’ultima volta, con un piccolo regalo “artigianale”: un fazzoletto con un ricamo fatto a mano da parte di una loro amica artigiana dell’associazione di Kuldip. Abbastanza da commuovere Alessia, e rendere ancora più emozionale il momento.

Ripartiamo verso il resto dell’India lasciandoci indietro un pezzetto di cuore, che resta nel Kutch con una famiglia davvero speciale.

Dormire in un villaggio nel deserto

Quando siamo andati nel deserto del Kutch ci siamo fermati a dormire in un villaggio nel deserto, o meglio nella zona semi-desertica prima del deserto vero e proprio. 

E’ stata una esperienza memorabile per tanti motivi, la maggior parte positivi. Ecco la storia di quella notte…

Il villaggio in mezzo al nulla

Siamo arrivati al villaggio già nel pomeriggio, così Alessia ha potuto fare un corso accelerato di ricami tradizionali del loro villaggio. Poi siamo ripartiti per il deserto.

Mentre Alessia era impegnata con ago e fili colorati mi sono fatto un giretto. Non ci ho messo molto tempo. In mezzo a una distesa di cespugli e alberelli rachitici, che riescono a crescere in una terra sabbiosa e arida, ecco un piccolo centro abitato. 

Venti, forse trenta edifici in tutto. Capanne di fango, con il tetto di paglia o di lamiera. Alcune tonde e carine, altre più lussuose, parallelepipedi di più stanze. Tanti recinti per le bestie, soprattutto per le capre.
Fuori dalla maggior parte delle capanne ci sono i bagni: delle latrine esterne, come nelle case di una volta nelle nostre campagne.

Il villaggio è animato da tutti gli abitanti, che ovviamente passano all’aperto la maggior parte della giornata. Si tratta soprattutto di signori e signore di una certa età, di tanti bambini, e delle donne. Gli uomini di solito sono fuori, o per badare alle bestie o per qualche lavoro più lontano.
Tutti se ne vanno in giro facendo lavoretti, chiacchierando, ciondolando un po' su e giù. Alle persone si aggiungono le capre, i gatti, i cani.

Dormire in una capanna di fango: promessa mantenuta

Quando abbiamo organizzato la nostra esplorazione del Kutch con Kuldip, lui lo aveva scritto chiaramente: “notte in una capanna di fango nel deserto, sistemazione basica”. Ed è stato esattamente così, anche più di quanto pensavamo.

Siamo arrivati al villaggio che era già sera. Abbiamo mangiato una cena calda e abbondante accanto al fuoco di una cucina, e poi abbiamo visto dove avremmo dormito.

La nostra stanza è stata preparata in una capanna multiuso, piena di oggetti di tutti i tipi.
Le pareti erano fatte di fango, il pavimento era in terra battuta, e ovviamente non c’erano lussi come una presa di corrente, o una lampadina di qualunque tipo. Per fortuna avevamo la power bank, e la mini torcia da mettere in testa (grazie per il suggerimento, Fabio!).

Che altro dire? 

Da porta e finestre passavano degli spifferi niente male, una piacevole frescura nella torride notti estive, un viatico per la polmonite con temperature sotto i 10 gradi. 
I letti erano i letti tradizionali indiani, chiamati charpoy, una specie di brandina di strisce intrecciate. Facili da tirare su la mattina per fare spazio, sono molto diversi da un materasso europeo.
In compenso c’erano un sacco di coperte, potevamo scegliere da un mucchio alto circa 1 metro.

Una menzione speciale per il bagno. Ci hanno portato appena fuori dal villaggio e ci hanno indicato la distesa di sterpaglie che si estendeva nella notte, ed è stato tutto. 

Dormire nel deserto: meno romantico del previsto

Quando qualcuno dice “abbiamo passato una notte nel deserto” vengono in mente notti stellate, distese di dune di sabbia, magari un fuoco che scoppietta. La realtà è molto più prosaica.

Nessuno ti avvisa che nel deserto c’è polvere, polvere dappertutto. Anche dentro la nostra capanna si vedeva in controluce un milione di puntini sospesi. Bastava lasciare il cellulare appoggiato per qualche minuto, e lo riprendi con lo schermo che ha già uno strato di polvere come se non lo pulissi da un mese.

Un’altra cosa che scopri quando passi dall’immaginazione alla realtà è che la notte nel deserto è fredda, specialmente se ci vai in inverno. L’aria della capanna era fredda da battere i denti, avevamo addosso vari strati ma ci siamo infilati sotto le coperte appena possibile.

A proposito di coperte: quella notte abbiamo rimpianto i nostri sacchi letto, che erano rimasti in homestay. Diciamo che le coperte non erano proprio fresche di bucato, anche se erano ragionevolmente pulite.

La nostra sistemazione non era molto coibentata. Gli spifferi entravano da tutte le parti, e io in particolare ero tra la porta e la finestra, quindi avevo sempre una corrente d’aria addosso.

I letti erano i tradizionali letti indiani. Questo significa che:

  1. è abbastanza scomoda
  2. ti arriva il freddo anche da sotto, e ti tocca svegliarti nel cuore della notte, aggiungere coperte e avvolgerti tra gli strati, sopra e sotto

A proposito di sveglie nella notte, anche andare in bagno nel deserto può essere impegnativo. Vedere le stelle è bellissimo, la luna illumina il paesaggio con una luce spettrale, ma tremare mentre cerchi un posto appartato non è molto piacevole.

Insomma, anche dormire è stata una avventura. E non potevamo neanche lamentarci, pensando che noi eravamo lì solo per una notte, mentre il resto del villaggio era lì tutte le notti in condizioni simili.

La mattina in un villaggio del deserto

La notte è passata presto, perché la stanchezza ha avuto il sopravvento. E anche perché la notte finisce appena il sole inizia a fare capolino. Alessia si è alzata presto e io ho cercato di stare a letto un po' di più e godermi il mio nuovo bozzolo di coperte, ma nei villaggi del deserto non funziona così.
Una signora particolarmente mattiniera e impegnata ha iniziato a entrare e uscire dalla capanna, prendendo questo e quello. Alla terza volta mi sono arreso e mi sono alzato anche io.

Ho trovato Alessia appena fuori che stava scrivendo il suo diario. Aveva intorno tre o quattro bambini che la guardavano intenti. Non credo che abbiano molte distrazioni o cose interessanti nella loro vita di tutti i giorni, se basta così poco per affascinarli.

Poi si è formato un piccolo capannello di ragazze e bambini. Ci siamo capiti a gesti, con poche parole di inglese, e tanta buona volontà. Come ci chiamiamo, come si chiamano, le varie relazioni parentali tra loro.

Una ragazza ha tirato fuori l’attrezzatura da cucito, visto che Alessia il giorno prima aveva lavorato con lei. Un’altra ha iniziato a disegnare sul diario di Alessia, a scrivere il suo nome e quelli della famiglia. Poi ha iniziato ad abbozzare design per henna, una cosa tira l’altra e… Alessia si è trovata con una mano tutta decorata. E’ ancora il miglior henna che le abbiano mai fatto in tutti i nostri viaggi.
E già che c’ero, anche io mi sono ritrovato con un disegnino sulla mano.

Poi ho fatto giocare un po' i bambini con il cellulare. Non ne ho visti molti nel villaggio, ma sapevano usarlo, come testimonia questo scatto fatto da loro

Due o tre di loro si sono messi a sfogliare le mie foto. Erano affascinati come i nostri bambini davanti ai migliori cartoni animati. La vita del villaggio è tranquilla e naturale, ma non molto stimolante…

Alla fine ci siamo trovati al centro di un gruppetto animato e ridente, sempre diverso. Ogni tanto qualcuno si allontanava per qualche lavoretto, arrivava qualcun altro, anche alcune signore conosciute il giorno prima. Tutti scambiavano qualche parola o qualche gesto, e ci siamo ritrovati a far parte della loro comunità, anche se solo per qualche ora.

I difficili saluti ai nostri nuovi amici

Siamo rimasti il più possibile, ma alla fine è arrivato il momento di ripartire. Non è stato facile.
Abbiamo fatto i nostri saluti, un po' tristi per la fine di questa esperienza. Alcuni bambini ci hanno accompagnato verso la macchina, fuori dal villaggio. Lì abbiamo ritrovato le nuove amiche di Alessia. 

Grandi abbracci, grandi sorrisi e grandi saluti. Solo che… gli abbracci non finivano più. Alessia si è trovata in un abbraccio di gruppo e non la volevano più lasciare andare. A gesti mi hanno fatto capire che io potevo anche andare avanti, lei sarebbe rimasta con loro.
Ci sono volute lunghe trattative, e anche una finta partenza senza di lei. Anche perché Alessia non era particolarmente entusiasta di partire. Fosse stato per lei sarebbe rimasta almeno qualche giorno in più…

L’ultima immagine mentale che abbiamo è questa: la macchina che se ne va in una nuvola di polvere, dietro di noi questo villaggio di colore indefinito, e davanti le ragazze, coloratissime, che ci guardano allontanarci e ci salutano.

Villaggi del Kutch: la bellezza e l’asprezza della vita di una volta

Abbiamo visto la vita nei villaggi del Kutch, soprattutto quando abbiamo dormito in un villaggio ai margini del deserto. 

Secondo la nostra guida Kuldip è una vita che va a un ritmo naturale, tranquilla, senza inquinamento, vicino alla famiglia.

Io ho visto sopratutto una vita dura, una quotidianità povera di stimoli, con pochissime comodità. Una vita che per me e per noi sarebbe insopportabile, ma che per tantissime persone è l’unica realtà possibile.

Location: natura e niente vicini fastidiosi, ma…

La location, a prima vista, può essere interessante. La natura del deserto è selvaggia e affascinante, panorami e tramonti sono di una bellezza indiscutibile.

Per contro, ti trovi a vivere in un villaggio che magari è senza una vera strada, dove per arrivare al negozio più vicino impieghi ore. Se devi spingerti fino a un ospedale, o ad altri servizi, potrebbero servirti giorni.

Le notti sono fredde e possono diventare gelide, e l’unico modo per scaldarsi è seppellirti di coperte, e accendere un fuoco dopo aver fatto un sacco di fatica per raccogliere la legna.

Di giorno, il sole comincia a battere implacabile già dalle prime ore del mattino. D’inverno è anche sopportabile, ma credo che in estate la maggior parte del giorno non sia vivibile. E non ci sono molti rifugi dal caldo torrido.
Niente piscina, niente aria condizionata, ma neanche infissi coibentati. Anche solo trovare un po' di ombra per tutti non è scontato.

La polvere è dappertutto. Si posa su di te e sulle tue cose in ogni momento, continuamente. Ti entra nel naso, si alza in piccole nuvolette ogni volta che ti siedi o dai un colpo a un cuscino o una coperta. Te la senti tra i capelli, li rende ruvidi e secchi. Insomma, la polvere fa schifo.

Anche gli animali sono dappertutto. Capre, bufale, cani, gatti. E dove ci sono tanti aimali, ci sono tante cacche per la strada. E dove ci sono le cacche, ci sono mosche e insetti. Un sacco di mosche e di insetti. Che si posano dappertutto, ma sopratutto su di te. A vedere gli abitanti del villaggio, ti abitui e stai sereno con decine di mosche sulla pelle….

Capanne di fango: vantaggi (pochi) e svantaggi (tanti)

Abbiamo già parlato della nostra notte in capanna, quindi in questa sezione non mi serve dire molto.

Vivere in una capanna di fango ha dei vantaggi, credo. Me ne viene in mente solo uno: costa molto, molto meno che comprare una casa vera.

Gli svantaggi però sono numerosi. Devi vivere in spazi ristrettissimi, una famiglia in uno spazio 3 metri x 3 metri o giù di lì. 

La capanna è fredda e piena di spifferi di notte quando fa freddo, e bollente di giorno e nei tanti mesi caldi, quando il sole è implacabile. Non ho idea di come sia durante la stagione delle piogge, ma ipotizzo non sia piacevole.

I letti sono scomodi. Il bagno fuori non mi convince. L’elettricità e l’acqua corrente sono comodità a cui è difficile rinunciare per una notte, figuriamoci una vita.

Posso apprezzare in linea teorica la tradizione, ma credo che le case moderne vincano su tutta la linea sulle capanne di fango.

Vivere nel deserto: zero stress, ma…

Il bello di vivere nel deserto è che i ritmi sono naturali, lontani dalla frenesia della vita moderna.

Il brutto di vivere nel deserto è… tante altre cose. Me ne vengono in mente solo alcune.

Avere un lavoro buon dire stare lontani da casa, un villaggio di capanne non offre un sistema economico e produttivo molto florido.

La vita di tutti i giorni, per chi non ha un lavoro o riesce a campare del poco che riesce ad avere dal villaggio, non è molto divertente. Per dirla tutta, credo sia noiosa all’estremo. Alla fine vivi con così poco che non c’è neanche molto da fare, anche se volessi. Ho visto signore spazzare una superfice di terra battuta, quindi credo che la noia regni sovrana. 

Ogni commissione e ogni lavoro domestico richiede tempi lunghissimi. Tenere pulito è una battaglia senza fine, con la polvere che si infiltra dappertutto in ogni momento. Cucinare è un lavoro di diverse ore al giorno, dove fai tutto a mano, e devi fare su un fuoco raccogliendo legna dai dintorni e usando cacca di mucca essiccata.

I divertimenti sono: parlare con i vicini, lavoricchiare sui ricami, rompere le scatole agli animali, fumare, e non so bene che altro. Non ho visto libri o giornali, non ho visto televisioni, ho visto pochissimi cellulari.

Bambini che crescono nel deserto: come è la loro vita

Ma quello che mi ha fatto pensare, e che ha dato lo spunto a tutto questo post, è stato vedere i bambini.

Sono arrivati tutti sorridenti a conoscerci, a guardarci un pò incerti, cercando di capire cosa fossero questi visitatori con i vestiti strani, i capelli strani, la pelle strana.

Poi abbiamo visto quanto erano affascinati dal vedere Alessia che scriveva sul suo diario
Ci hanno spiegato che molti di loro non vanno a scuola, e quindi non imparano neanche a leggere e scrivere.

Quando ha offerto loro di usare penne e pennarelli alcuni si sono tirati indietro, e altri non sembravano proprio sapere cosa fare. Non sanno neppure usare carta e matite per fare un disegno… pensato un bambino che non può disegnare e colorare, che non ha mai imparato a farlo.

Quando li ho lasciati “giocare” con il cellulare per fare foto e guardare la galleria fotografica, ho visto degli occhi che brillavano di curiosità e di voglia di scoprire qualcosa di nuovo.

In un villaggio, isolati dal mondo, non hanno praticamente nessuno stimolo. Se non sanno leggere, non hanno la possibilità di godersi un libro, o anche solo un fumetto. Senza scuola e libri, quello che possono imparare è solo quello che hanno intorno in quel momento.

Senza scuola, senza possibilità di imparare, tagliati fuori dal mondo, senza stimoli, si trovano indirizzati su una strada che porta a un futuro con poche alternative e pochissime opportunità

Vivere nel deserto: ne vale la pena?

Risposta breve: no.

Risposta lunga: assolutamente no.

Ma passare in un villaggio un pò di tempo, anche poche ore, basta per rendersi conto di quanto siamo fortunati. Di quanto diamo per scontato uno standard di vita che milioni di persone neanche si sognano. 

Comodità banali come un riparo dal freddo e dal caldo, cucinare in pochi minuti, tirare l’acqua del bagno, poter fare un bagno o una doccia, dormire in un letto pulito…

E tutte le opportunità che abbiamo. Di viaggiare, di imparare nuove cose, di comunicare con il mondo, di giocare, di guardare la televisione, di leggere e scrivere. Non dovrebbero essere cose ovvie, per tanti sono dei lussi, qualcosa che non avranno mai

Siamo arrivati in India! Le prime impressioni

Dopo tanto parlare di questo viaggio, finalmente siamo arrivati in India. Abbiamo registrato a caldo le prime impressioni di questo mondo tutto da scoprire.
Credevamo di essere pronti: non lo eravamo. Ci aspettavamo tanto: è ancora di più.

Prime impressioni di India - Alessia

L’impatto è molto forte soprattutto per l’atmosfera, una nebbia avvolge tutto. Veniamo buttati nel traffico cittadino, gli indiani guidano malissimo, stanno in mezzo alle linee e guardano continuamente il cellulare. Tutti vogliono la mancia e cercano di abbordarti

La città è piena di qualsiasi mezzo di trasporto (scooter, macchine, persone, carretti, risciò), regna la confusione, il rumore dei clacson, se non stai attendo ti prendono sotto. C’è una costante nebbiolina creata dallo smog e dalla polvere.

L'ostello non è proprio come lo immaginavamo, molto molto basico. Diciamo che sono stati molto bravi a fare le foto per Booking. Ma va bene così!

Ore e ore per riuscire a fare la SIM per l'India, in un negozio che è una nicchia su un muro, in un vicolo a fianco di una stradina. Ma alla fine ce la facciamo!

Mentre andiamo a mangiare veniamo abbordati da vari personaggi che cercano di proporci chissà cosa. Molte ragazze e bambine cercano di fermarci chiedendo la carità. Ci sono tanti negozietti ai lati della strada e uno di sartoria prende la mia attenzione.

A cena optiamo per il Chole Bathure, un curry di ceci e pane fritto farcito con delle verdurine. Piccante ma molto molto buono, pagato nulla (3€ in due). Servizio essenziale, ci hanno quasi spazzati fuori con le ramazze perché chiudevano. Mi colpisce il lavabo per lavarsi le mani prima di mangiare (che ovviamente ho usato).

Una bambina ci chiede l’elemosina, non resisto... non le abbiamo dato soldi ma le abbiamo comprato una bibita. Inizialmente è scappata dalla sua famiglia senza salutarci, poi quando l’abbiamo passata di nuovo ci ha sorriso e ci ha salutato (bevendo il nostro regalo). Quegli occhi pieni di di gioia per una Coca Cola....
Più tardi abbiamo incrociato delle bimbe in divisa che tornavano dalla scuola con occhi e bocca sorridenti, e delle bambine in risciò che ci hanno salutato tutte allegre. Questi sono i momenti in cui speravo.

Prime impressioni di India - Carlo

L’India ti colpisce dal primo minuto. L’aeroporto è ancora una zona franca, ma appena il taxi si mette in strada sei catapultato in un nuovo mondo. Il traffico travolgente, l’ignoranza aggressiva delle regole della strada e del buon senso, i mezzi di trasporto fantasiosi...

E l’India ti colpisce come un muro con tutti i tuoi sensi.
Esci dall’aeroporto e ti trovi circondato da un’aria calda e densa di umidità, che fai anche fatica a respirare. 
Gli odori incommentabili arrivano da ogni angolo: immondizie, cibo, inquinamento, persone, animali, motori, tutto e il contrario di tutto. 
Lo spazio personale sparisce, e ti trovi persone dappertutto, che ti sfiorano e ti passano accanto, o anche che ti si fermano addosso. 
Taxi, camioncini, risciò, motociclette e scooter sfrecciano ovunque, risvegliando i tuoi istinti di sopravvivenza. 

Vedi decine di persone che fanno decide di cose che ti sembrano strane ogni dieci metri, vestite in dieci modi diversi. E almeno alcune di loro tenteranno di parlarti, di solito per chiederti qualcosa, venderti qualcosa, proporti qualcosa.

Edifici diroccati ad ogni strada, ma magari sullo sfondo si vedono grattacieli scintillanti. Strade ben asfaltate e segnalate, ma invase di veicoli che girano a caso, animali dalle mucche alle scimmie, sporcizia di ogni tipo, gente, bancarelle e macchine ferme ai lati fino in mezzo alla strada.

L’India, Nuova Delhi, è un posto dove sembra succedere tutto contemporaneamente, dove tutto è accelerato ed esasperato. Tutto più rumoroso, tutto più caotico, tutto più impegnativo, più faticoso, più sporco, più in rovina, più povero...

Ma ci sono anche momenti di fuggevole bellezza che accadono di continuo, se sei attento a cercarli. Una scenetta in mezzo alla strada che sai che non vedresti in nessun altro posto. Uno scambio di battute con uno sconosciuto. Uno scorcio di un angolo della città che ha una sua bellezza anche se non lo capisci. Soprattutto il sorriso delle persone, anche e soprattutto di quelle che sembrerebbero avere meno motivo degli altri di sorridere.

Due artiste di strada si incontrano

Sono seduta nell'erba con i miei acquerelli e sto cercando di ritrarre la Porta dell'India di Delhi nel mio diario di viaggio a colori (così chiamo il mio book). Le persone mi passano davanti, alcune buttano l'occhio, altre si fermano incuriosite, altri ancora mi danno anche la loro approvazione.

Inizia a tramontare il sole, si fa buio e anche se la mia posizione è illuminata da un lampione sto pensando che è ora di mettere via tutto e di andare. Ma qualcuno mi si siede davanti. Sono due bimbi, una femminuccia di circa 6 anni e un maschietto di qualche anno in più. Sono due bimbi di strada, forse fratelli, e lo si capisce da come sono in giro da soli "al buio" e dal fatto che ci chiedono dei soldi.
Per nostra decisione non diamo soldi ai bimbi di strada e non cediamo.

La piccolina guarda i colori e poi guarda me. Sono un po' titubante, sono i miei acquerelli che amo tanto e che custodisco gelosamente. La guardo un'altra volta e le chiedo (più a gesti che a parole) se vuole provare. Prende il pennello ed inizia a colorare su un block notes. Mi scrive il suo nome: Laxmi

Anche il maschietto è interessato ma non tanto a colorare quanto a tentare di smontare la scatola di colori.

Laxmi vorrebbe fare un disegno... ma non ho carta a parte il mio diario di viaggio a colori.
Vedo i suoi occhioni e non riesco a resistere. Le lascio i colori, il pennello, il mio quaderno. Con qualche parola e molti gesti cerco di spiegarle come usarli. Lei apprende velocemente e si mette a disegnare e a colorare. Una casetta gialla con una figura ed il cielo. Un'opera meravigliosa che impreziosisce il mio diario di viaggio

Lei sembra felice e anch'io lo sono.

Gli strani personaggi di Bundi

Per il nostro viaggio in India ci siamo trovati a passare il Natale in un posto parecchio fuori dagli schemi. Bundi è una città fuori dalle rotte turistiche, poco conosciuta anche dagli stessi indiani. 

Ci siamo fermati qualche giorno, e all’inizio non abbiamo visto in giro neanche un occidentale. Così siamo diventati un po' la novità del momento, e abbiamo conosciuto parecchi personaggi interessanti.

Michael, hotel manager fuori dagli schemi

Il primo personaggio che abbiamo incontrato è stato Michael. Ci ha accolto la sera stessa, perché era il manager dell’albergo, e senza di lui avremmo continuato ad aggirarci per stradine per chissà quanto tempo.

Michael è una isola di efficienza in un continente che, di solito, ha lunghi tempi morti e tanta difficoltà a portare a termine i lavori. Gli chiedi una cosa, e dopo pochi minuti è fatta: una piacevole novità.

E’ anche un personaggio strano anche per gli indiani: un omone grande e grosso, massiccio, completamente senza peli e capelli. Anche un pò inquietante, e con un modo di parlare che a volte è quasi brusco.

Nei giorni in cui siamo stati a Bundi ci siamo incrociati varie volte e ci ha dato qualche consiglio, ci ha raccontato un po' di cose sulla città, e sugli ultimi pettegolezzi. Un giorno hanno avvistato un leopardo, e presto ne parlavano tutti.

Un giorno ci ha invitato a pranzo a casa sua. Senza motivo, se non che ci siamo incontrati sul terrazzo verso ora di pranzo.

E così siamo andati a casa sua: un antico edificio abitato dalla famiglia di Michael da 400 anni. La sua è una famiglia di bramini, quindi le pareti sono dipinte di azzurro. Dentro è un dedalo di stanzette, cortiletti, strette e ripide scale che portano ai piani superiori. Non c’è un progetto, e neppure molta logica nella costruzione, che sarà cresciuta nei secoli intorno alla famiglia. Ad esempio per arrivare alla camera di Michael, dove abbiamo mangiato, si passa per la camera del nipote, e da lì si va anche al terrazzo…

Il pranzo era buono e molto semplice, mangiato per terra senza fronzoli. Quando ho messo in bocca l’ultimo boccone Michael era pronto: “We go?”, e in due minuti eravamo in strada.

Raj, il negoziante curioso

Nel nostro primo giorno a Bundi siamo stati agganciati con perizia da un negoziante di sciarpe e vestiti. Ha iniziato con la classica tattica che hanno usato diverse volte in tutta l’India. “Di dove siete?”, “Vorrei parlare un po ' con degli stranieri e conoscervi”, ma lo ha fatto con più classe degli altri.

Ci siamo trovati a sedere nel suo negozietto, e siamo stati circa due ore a parlare di questo e di quello. Ovviamente ha provato a mostrare le pashmine, ma senza spingere troppo.

E così è diventato uno dei nostri appuntamenti fissi. Il suo negozio è lungo la strada che facciamo ogni giorno, così ogni giorno lo salutiamo, ci invita a sederci, ci facciamo una chiacchierata.

Non capiamo molto il modello di business, perché eravamo sempre solo noi a fermarci. Ma abbiamo imparato che è un appassionato di meditazione, e ci ha dato qualche nozione di base anche sui chakra e sulle pietre a loro collegate.

L’ultimo giorno siamo tornati per comprare qualcosa di piccolo, anche solo per ringraziarlo. Quindi alla fine la sua strategia ha funzionato.

Krishna, il vecchio del chai

Lungo l’unica strada importante della città vecchia di Bundi ci sono una serie infinita di negozi, una serie di stanze, tutte grandi uguali, che danno direttamente sulla strada. 

Una di queste nicchie è diversa dalle altre, perché è un tripudio di colori, di disegni, di scritte. E’ il Krishna Tea Stall, il miglior chai della zona.

Krishna è il nome del proprietario, un signore piccolino e dai grandi baffi, perennemente accovacciato alla sua postazione davanti al negozio. 

Lì ogni giorno esegue il suo rituale per la creazione del chai. Sempre uguale, ma sempre affascinante. Si parte e si arriva con una preghiera verso la statuetta del dio che tiene vicino. E poi prendere le spezie, tritarle con un sasso, mescolare tutto nel latte e nel tè bollenti. Versare e riversare il tutto fino a che diventa un chai davvero speciale.

Krishna non sa tanto l’inglese, ma da buon indiano sa venderti di tutto. E quindi mentre bevi il chai magari puoi prenderti anche qualcosa da mangiare. Guarda caso sua moglie cucina qualche buon piatto, basta guardare il menu. 
E se non hai fame puoi guardare gli album pieni di miniature fatte su cartolina, ottime anche per regalare agli amici (con queste ci ha fregato, abbiamo fatto acquisti).
E se non vuoi neanche quello ma ti è piaciuto il chai, per te ci sono dei pacchetti già pronti e premiscelati per fare fino a 100 tazze di chai.

Mentre bevi finirai sicuramente a guardare le pareti, ricoperte di scritte e disegni colorati. Ci sono anni di graffiti di clienti affezionati da tutto il mondo. Alcuni hanno fatto un disegno enorme, altri una piccola firma in un angolo. 

E il giorno prima di partire anche noi abbiamo lasciato la nostra opera d’arte.

Nayan, il ragazzo del cafè Romeo

Mentre cercavamo di sperimentare il meglio della ristorazione di Bundi, abbiamo provato a fare colazione al Cafe Romeo. E’ il posto dove si ritrovano gli occidentali, quindi di solito non ci interesserebbe, ma abbiamo deciso di fare una eccezione.

Il cafè è una soluzione super minimal. Fuori ci sono due piccoli tavolini. A fianco dell’ingresso c’è una mini cucina. Dentro c’è solo una piccola stanza, senza finestre, con dei tappeti per terra e un paio di tavolini bassi. Tutto a misura per una sola persona, un ragazzo dinamico e iperattivo: Nayan.

Ci ha preparato una ottima colazione, una ciotola di porridge con frutta fresca e miele che abbiamo dovuto dividere, tanto era grande. Sentito che eravamo italiani si è anche lanciato nel fare un caffè per Alessia, con tanto di moka. 

Fa tutto lui: Cucina, prepara caffè e chai, saluta tutti, chiacchiera e intrattiene clienti. Sempre un pò di corsa, parla un ottimo inglese ma come se fosse un video Youtube accelerato 2x, quindi riuscire a seguirlo è faticoso.

A un certo punto ha detto: “Ho finito le verdure, vado a prenderle al mercato”. Ed è partito lasciando noi e un’altra coppia di avventori a badare al suo locale. Che personaggio!

Quello che mi piace di Nayan è che gli piace tanto conoscere nuova gente, e poi cercare di mettere in contatto i suoi nuovi amici. Però non gli riesce sempre molto bene. 

Nei giorni in cui siamo stati a Bundi ha provato a organizzare una cena sul tetto: cucina del Rajasthan cucinata da uno chef, chi vuole aiuta a cucinare, chi vuole suona, si passa una serata in compagnia. Purtroppo non è riuscito a trovare abbastanza volontari (noi ci eravamo offerti volontari). 

La sera di partire ci ha detto che due suoi amici australiani dovevano prendere il nostro stesso treno: se passavamo dal suo cafè potevamo dividere il costo del tuc tuc. La mattina dopo siamo passati, ma c’eravamo solo noi. Abbiamo visto i probabili australiani più tardi, già alla stazione. 

Ma è lo stesso un personaggio simpatico, e le sue colazioni sono super abbondanti, super buone, super salutari.

Jay, il ristoratore pazzo

Tra tutti i personaggi strani di Bundi, Jay è il più strano di tutti, per distacco.

Ci ha abbordato mentre eravamo a passeggio la prima sera, parlando a 1000 parole al minuto senza un attimo di respiro. Il suo discorso sembrava passare da un argomento all’altro, senza mai andare da nessuna parte, ma sotto sotto c’era un tema di fondo. E il tema era che aveva un piccolo ristorante lì vicino, e dovremmo proprio andare a mangiare lì.

Ha continuato a parlare per 15-20 minuti, ma sembravano ore, sembrava non finire mai.
I giorni successivi abbiamo continuato a vederlo ogni giorno, quando passavamo nella zona del forte a un certo punto giravamo la testa ed eccolo lì che ci salutava, e ci chiedeva quando saremmo passati. 

Non eravamo convinti. Una viaggiatrice inglese ci ha detto che aveva passato lì una bella serata, ma che era difficile da sopportare dopo le prime due ore. Alcune recensioni dicevano che il menu era fisso, senza prezzi esposti, e che alla fine costava troppo.

Alla fine ci siamo detti: proviamo anche questa.
L’ultima sera ci siamo avviati, e ci ha raggiunto in pochi istanti. Finalmente gli abbiamo detto sì, e sembrava l’uomo più contento del mondo.

Il ristorante è sul terrazzo della casa della sua famiglia, sono due tavoli, e quella sera eravamo solo noi. La cena era un thali, un piatto misto con tante cose buone, fatto dalla sorella e dalla mamma. Bis a volontà, fino a che abbiamo dovuto stopparli.

Il cibo era buonissimo, il lassi era quasi un dessert per conto suo, il conto è stato abbastanza onesto, Jay si è controllato. E’ stata una bella serata

Arvin, il negoziante gentile e onesto

Ultimo, ma non per importanza, è stato Arvin. Tra tutti è il nostro amico di Bundi meno strano, ma quello che ci è piaciuto di più.

Siamo andati da lui per comprare un po' d’acqua. Abbiamo chiacchierato un po ', perché in India attaccano bottone anche se compri un po' d'acqua. Abbiamo chiesto il prezzo dell’acqua, e ci ha detto che non voleva farci la cresta solo perché eravamo stranieri. 

Era un punto importante per lui, perché voleva vivere una vita di buon karma. Il karma è un concetto un pò complicato, non è solo “se ti comporti male, poi ti capiterà qualcosa di brutto”. E’ qualcosa di più simile a “se ti comporti male, fai del male prima di tutto a te stesso, sia nel presente che nel futuro”.

Quando ci siamo visti la seconda volta abbiamo comprato carta igienica, bene preziosissimo e raro in India. Ci ha augurato buon viaggio, ha detto che avrebbe pregato per la nostra salute, e che ci augurava di tornare in futuro.
Credo che le sue preghiere non potranno che esserci utili.

Ci ha anche chiesto quando saremmo andati via, e se riuscivamo a passare a salutarlo. 
E così la mattina della partenza eravamo lì vicino a fare l’ultima colazione. Il suo negozio era chiuso, ma poi lo abbiamo visto arrivare. Ci ha visto al tavolino del bar di Nayan ed è venuto a salutarci con un grande sorriso, rinnovando gli auguri e le benedizioni.

“Arvin” significa “amico delle persone”, e raramente un nome è stato più azzeccato. Una persona squisita che siamo stati felici di conoscere, e che rende il mondo un posto un pò migliore.

Saluti e arrivederci

Abbiamo lasciato Bundi molto a malincuore. Ci è dispiaciuto molto lasciare i nostri nuovi amici, ma era il momento di ripartire per nuove avventure.

Ripartiamo con tanti nuovi ricordi e la speranza di tornare di nuovo in futuro. Bundi è una città carina e tranquilla, e se a questo aggiungi delle persone amichevoli e disponibili, può essere una tappa memorabile anche in un viaggio come questo.

Satyam, il ragazzo timido che studia italiano a Khajuraho

Ho scritto dell’incontro con Raju davanti a un piccolo tempio di Khajuraho. Quello è stato un giorno di incontri, perché abbiamo conosciuto anche Satyam, un altro degli strani personaggi di questo nostro viaggio.

Satyam: appassionato di italiano a Khajuraho

Mentre parlavamo con Raju sono arrivati due ragazzi, che ovviamente ci hanno salutato. Uno di loro si è messo a parlare con noi in italiano!

Siamo rimasti molto stupiti e incuriositi, quindi abbiamo cercato di capire la sua storia. Il ragazzo si chiama Satyam, e gli piace l’italiano. Gli piace così tanto che ha fatto anche un corso di un semestre a Nuova Delhi. Poi ha dovuto smettere per mancanza di denaro, ed è tornato a casa a Khajuraho. 

Così gli è molto difficile tenersi in esercizio, e quindi sta perdendo un pò il livello che aveva raggiunto. Studia a casa per conto suo, ma non è la stessa cosa.

Ci ha mostrato le foto della sua insegnante e del suo gruppo, e abbiamo parlato per aiutarlo a ripassare un po’ la lingua. 

Ci ha chiesto di prendere un chai a casa sua, dicendo che per lui sarebbe stata una cosa molto importante. Seguire uno sconosciuto che ci vuole portare a casa sua? Alla fine abbiamo detto di sì: Satyam sembra così timido e nervoso che non riesci a considerarlo un possibile pericolo.

Chai a casa di Satyam: un caos allegro

Abbiamo seguito Satyam dentro il vecchio villaggio, fino a un piccolo cancello che portava a una casupola. Ci siamo seduti su dei cuscini in una piccola stanzetta con un piccolo divano e una piccola televisione: la stanza più grande della casa, per accogliere gli ospiti…
Intorno a noi ci siamo trovati una moltitudine di nipoti di diverse età, di cui non riuscito a tenere traccia.

E’ arrivato il chai, che abbiamo sorseggiato. Satyam ci ha mostrato i suoi libri di italiano, anche quello che si è comprato con i suoi soldi, e gli esercizi che sta facendo per conto suo. Abbiamo parlato un po', con un misto di inglese e italiano per riuscire a capirci.

Uno dei vari nipoti, più grandicello, dice di lavorare nel mondo dell’internet marketing. Ha letto vari libri inglesi come “Rich Dad, poor dad”, ha imparato da solo a fare cose sul web, e adesso si è lanciato a cercare lavori da fare da remoto. 
Quando gli dico che anche io lavoro nel settore, ma il mio orario di lavoro è di 8 ore, spalanca gli occhi. Poi gli dico che così ho tempo di seguire altri progetti, e allora ritorno normale.

Satyam è un timidone, e nella confusione si “nasconde” un pò. Gli indiani di solito sono molto estroversi, per noi occidentali anche in modo eccessivo. Ma gli indiani introversi come Satyam ci sono, e penso che la loro vita non deve essere facile, quando devono farsi sentire in mezzo a tutta questa gente vociante e rumorosa.

Quando è buio salutiamo tutta la famiglia, e il nostro nuovo amico ci accompagna fino alla strada principale. 
Ci saluta inchinandosi profondamente: per lui questo incontro è stato molto importante e ci tiene a farcelo sapere. Gli auguriamo di poter trovare la sua strada e di poter continuare a studiare.

La storia di Satyam continua

Alcuni giorni dopo Satyam ci ha scritto su Whatsapp: adesso è a Delhi per continuare il suo corso di italiano!

Non sappiamo bene cosa è successo, ma siamo contenti che possa continuare a imparare la lingua che ama.

Raju il vecchio carpentiere di Khajuraho

Mentre esploravamo Khajuraho siamo scesi da un tuk tuk davanti a un piccolo tempio davanti a un lago artificiale. Il sole stava scendendo, e ci siamo fermati a guardare il tramonto sull’acqua, appoggiati alle pareti di pietra del tempio.

Insieme a noi c’era un anziano signore, che ha iniziato a parlarci e a chiederci di noi. Si chiamava Raju, era un carpentiere, e la sua casa era lì vicino, dentro il vecchio villaggio. Ci ha invitato a casa sua, ma quella volta abbiamo rifiutato. Gli abbiamo promesso di tornare il giorno dopo, e così abbiamo fatto.

La casa di Raju

La casa di Raju era dentro un dedalo di viuzze. All'ingresso c’era… la camera da letto. Delle scale strettissime e ripidissime portavano al piano di sopra: la cucina e il bagno. E salendo ancora si finisce nella terrazza, dove ci siamo accomodati.
La moglie è arrivata portando il chai, che abbiamo bevuto tutti insieme.

Siamo finiti a parlare di un po’ di tutto: il nostro viaggio, la sua famiglia… In futuro andranno al Kumbh Mela, il più grande festival religioso del mondo (un sacco di indiani ce ne parleranno, perché ci andranno o per chiederci se ci andremo).
Con noi c’è anche la nipotina di pochi mesi che gioca con tutto quello che le passa per le mani.
Più tardi ci hanno fatto assaggiare anche il puri, delle specie di focaccine fritte e salate, ovviamente fatte in casa, che abbiamo molto apprezzato.

La famiglia di Raju

Raju e la moglie hanno avuto tre figli maschi.

Il più grande è a Delhi a fare tour organizzati per giapponesi, per una grossa agenzia di viaggio.

Il figlio di mezzo è a Londra, ha sposato una ragazza inglese e hanno 2 bambine. Ogni anno vengono in India per 1 mese per stare con la famiglia. Quest’anno si troveranno tutti a Goa, e la moglie di Raju era molto contenta all'idea di mettersi a prendere il sole in spiaggia.

Il figlio minore vive con i genitori, e gestisce una scuola in parte pubblica e in parte privata lì in paese.

Il lavoro di Raju

Quando il sole stava scendendo il discorso è tornato sul lavoro di Raju, la carpenteria.
Ed ecco che è venuto fuori un sacchetto pieno delle sue creazioni, nel caso fossimo interessati.

Sul momento siamo rimasti un po ' spiazzati, ma visto che ormai eravamo lì abbiamo dato un’occhiata. Alla fine ci siamo portati a casa qualche ricordino. Abbiamo pagato più per la compagnia e per il momento di vita indiana che per gli oggetti.

Un’oasi verde a Delhi

Se siete a Delhi e avete bisogno di una pausa dal caos cittadino fate un salto ai Lodhi Garden,
Un enorme parco (360,000 m2) molto vicino al centro di Delhi.

Appena entrati siamo rimasti colpiti dalla pace che regna. Gli unici rumori che si sentono sono il canto degli uccelli e il vento tra gli alberi. E chi conosce il rumore di fondo di New Delhi sa quanto sia preziosa un po' di quiete ogni tanto.

All’interno del parco ci sono diversi mausolei, alcuni risalenti alla metà del XV secolo, circondati da ampie distese d’erba ed alberi pieni di scoiattoli. Noi ci siamo messi all'ombra di un alberello basso ma folto a fianco di uno di questi monumenti.

Anche qui abbiamo avuto la conferma che gli indiani amano fotografarsi! Molte coppie vestite da cerimonia si fanno ritrarre davanti ai mausolei. Ne abbiamo viste passare almeno quattro, tutti con vestiti molto diversi: una coppia in bianco, un'altra in nero, un'altra in vestiti molto tradizionali...

Poi c’è chi si fa una passeggiata, chi si sdraia sull’erba, chi fa yoga, chi si diverte con gli amici facendo una partita a cricket!
C'è anche un piccolo lago frequentato da giovani coppie. Ne abbiamo viste alcune che addirittura si tenevano per mano! (altra cosa che non si vede spesso qui, pare sia un comportamento troppo disinibito)

E se siete amanti della natura ci sono molti cartelli nel parco che spiegano i tipi di uccelli e farfalle che si possono trovare! Per i botanici c'è un giardino delle erbe medicinali, e un'altra area dedicata ai bonsai.

Dopo una bella camminata ci siamo seduti nell’erba a rilassarci, a goderci la calma e a fare amicizia con qualche scoiattolino curioso! 🐿️

Un viaggio sabbatico a più di quarant’anni?

La me di qualche anno fa ti avrebbe risposto:

"Ma sei pazza? Ormai hai una certa età, il fisico non è più lo stesso, devi pensare al lavoro, alla casa, alla famiglia, alla tua quotidianità".

E invece eccomi qui a 43 anni pronta a partire per il mio primo viaggio sabbatico! Convinta come non lo sono mai stata!

Si pensa che a quarant'anni la vita deve già aver preso la sua piega: una casa, un lavoro (soddisfacente o meno… ma questa è un'altra storia), magari una famiglia, degli hobby...

Si pensa che a quarant'anni devi avere la testa sulle spalle, devi avere una stabilità, pensare a costruirti qualcosa per il futuro, per quando invecchierai.

Si pensa che ormai quel che è fatto è fatto e dove sono arrivata mi deve andar bene, mi devo accontentare, devo essere contenta di quello che ho. E poi a quarant'anni la voglia di cambiare, di uscire dalla propria confort zone è decisamente poca! E che figura faccio con gli altri? "Ha quarant'anni e non sa ancora che fare…"

Si pensa che…

…e forse non ci si ferma mai a pensare se è giusto così!

Fino ai quaranta la mia vita aveva una certa piega: posto fisso in ufficio, marito, amici, casa, volontariato, una buona stabilità sociale ed economica.
Ma quando ho iniziato a pormi delle domande ho capito che quella piega non mi donava per niente! Così ho deciso di lasciare il posto fisso per trasformare la mia passione per il cucito nel mio lavoro.
Ma ancora una volta, dopo 3 anni, mi sono trovata a farmi altre domande e a sentire il desiderio (la necessità) di prendermi un periodo di pausa.

Si, a quarantatré anni ho ancora la mente confusa, non so ancora bene quale sia la mia strada e, per il momento, sento la necessità di allontanarmi dalla mia quotidianità e stabilità. Sento la necessità di prendermi del tempo per me stessa (una pausa) perché credo che a quarant'anni nulla è ancora deciso!

Una pausa significa prendersi del tempo per se! E per me ed il mio compagno di avventure Carlo, corrisponde ad un viaggio; è la modalità che abbiamo scelto e che è giusta per noi. Vogliamo scoprire il mondo, nuove culture, persone, poterci mettere in gioco e soprattutto scoprire (ritrovare) un po' di più noi stessi. Un viaggio di corpo e di anima.

Non so dove ci porterà questa avventura, come torneremo e cosa faremo una volta rientrati. Non vogliamo pensarci! Vogliamo solo vivere al meglio questo viaggio!
Sono convinta che ognuno di noi dovrebbe prendersi una pausa nella propria vita! A vent'anni è sicuramente più facile, ma anche over quaranta è possibile! Noi partiamo!

Alessia

La nostra giornata in un monastero buddista (futuro) a Bodhgaya

Un incontro fortuito con un monaco

Eravamo a Bodhgaya, e dopo una giornata al freddo ci siamo fermati qualche minuto a prendere un chai, in un baracchino poco raccomandabile lungo la strada. Di fianco a noi si è seduto un monaco buddista grande e grosso, e ci siamo fermati qualche minuto a parlare.

Quando abbiamo finito il chai ci ha invitato a visitare il suo tempio, promettendoci anche il pranzo.
Ed ecco come è iniziata una nuova avventura

Il “tempio” non è come ce lo aspettiamo

La giornata è iniziata in modo strano già dall’inizio. Non avevamo un indirizzo preciso a cui andare, ma credevo di avere un’idea di massima.
Poi è arrivata la chiamata del monaco: meglio prendere un tuk tuk, e meglio che lo chiamo prima di partire, così gli spiega bene dove andare.

Prendiamo tuk tuk, ci accordiamo sul prezzo mostrando l’indirizzo, chiamo. Dopo una lunga conversazione, il prezzo cambia perché “è molto lontano”. Ma teniamo duro, e alla fine si parte.
Pian piano ci allontaniamo dal centro di Bodhgaya e iniziamo a prendere stradine sempre più strane, sempre più fuori mano. Alla fine siamo in piena campagna, e intorno a noi non c’è quasi niente. Ma dove diavolo è questo tempio?

Il tuk tuk si ferma, e indica un cantiere che sembra abbandonato. C’è qualche muro, dei mattoni sparsi, e poco altro… E da un foro sulla parete spunta la testa del nostro amico monaco che ci saluta. Siamo arrivati.

Dentro è anche peggio. Il monastero è più nei progetti dei monaci che in quello che vediamo.
Le pareti esterne sono la parte più avanzata del cantiere insieme alle fondamenta. Dentro è tutto aperto, tutto al grezzo poco avanzato, tondini di ferro, mucchi di sabbia e mattoni dappertutto.

Le “stanze” dei monaci sono tre mura con delle lamiere buttate sopra a fare da copertura, e la stanza centrale fa anche da tempio, con una specie di altare molto approssimato. E in quella stanza ci siamo sistemati anche noi.

Una giornata in un monastero buddista

Ci siamo seduti sul “letto” del monaco, che era poco più di una tavola con sopra un lenzuolo. In quanto tempo possiamo scappare accampando una scusa?

Seguono un paio di ore abbastanza surreali. Il monaco ci bada ma fino a un certo punto, e ci ha invitato lui! Sa molto meno inglese di quanto pensassi, quindi anche comunicare non è molto semplice. 

Quindi cosa abbiamo fatto?
Ci siamo guardati intorno, chiedendoci in cosa eravamo capitati. Li ho aiutati con la loro scheda Google Maps, per spiegare come funziona, come aggiungere foto, renderla più visibile. Ci siamo presi una specie di benedizione buddista, con il monaco che ha recitato una preghiera dopo aver acceso un microfono con riverbero. Insomma, un po’ una commedia dell’assurdo.

Verso mezzogiorno è arrivato il pranzo, preparato da una signora che passa ogni giorno a cucinare per loro. Enormi quantità di riso, e della verdura molto piccante e saporita.

Stavamo pensando a come andarcene di corsa, ma a quel punto la giornata è un pò cambiata. Il capo monaco è andato via per un appuntamento non meglio specificato, e noi ci siamo trovati a parlare con un giovane monaco, Amit. Abbiamo chiacchierato a lungo parlando di buddismo, di india, di lavoro, di matrimoni e di un sacco di altre cose.

I progetti di un monastero buddista

Ci hanno raccontato i progetti per il futuro monastero. Difficile immaginarselo adesso che c’è così poco, ma ammiriamo la loro fede.

Si trova nella campagna fuori Bodhgaya, a 2,5 km dal tempio. Questo è importante, perché non si può costruire vicino al tempio, e potrebbero costruire una specie di tangenziale intorno alla città, e requisire e distruggere tutti gli edifici nel percorso.
Il terreno è in mezzo a una risaia, quindi hanno dovuto lavorare moltissimo sulle fondamenta, mentre di solito gli edifici indiani in questo sono molto scarsi.

Per ora c’è un solo piano in lavorazione, ma nei progetti potrebbe arrivare ad avere fino a 4 piani. Come tutti gli edifici indiani è costruito in diverse fasi, ogni piano ha la predisposizione per la costruzione del piano successivo, una terrazza e pilastri e tondini già pronti, non un tetto vero e proprio.

Ora stanno costruendo le stanze dei monaci, così almeno avranno un po ' di riparo dal caldo, dal freddo e dall’umidità impressionante che c’è in estate. 

A seguire lavoreranno su altre stanze per ospiti laici e semplici visitatori, mentre il resto dello spazio sarà un’area comune, un cortile dove passeggiare, meditare, fare lezione…

Il nostro contributo al monastero buddista

Dopo una lunga giornata passata a chiacchierare con il monaco Amit, è arrivato il momento di andarsene prima che il sole scenda.

Abbiamo deciso di dare un piccolo contributo al monastero, di dare anche noi il nostro mattoncino al grande edificio che hanno in mente.

Il tutto è diventato una cosa molto seria, con una grossa ricevuta, e con la consegna della donazione che è stata immortalata in numerose foto che poi saranno finite in qualche post Facebook. 

Le foto le ha fatte la signora che ci ha preparato il pranzo. Non ha mai usato l’iPhone, e non ha mai fatto una foto da cellulare in vita sua. Ma ci ha messo tutto il suo impegno.

Siamo tornati in strada che il sole iniziava a scendere, e ci siamo incamminati verso la città. Ci siamo girati e Amit era davanti al futuro monastero, a farci grandi cenni di saluto. Chissà, forse torneremo tra qualche anno a vedere se sono riusciti a costruire il loro sogno.

Personaggi indiani: Amit, il monaco buddista in mezzo al nulla

Durante la nostra visita a un monastero in costruzione abbiamo parlato per diverse ore con uno dei monaci. Il suo nome è Amit, e ci ha raccontato un sacco di cose interessanti.

Ecco quelle che ci ricordiamo.

La storia della nascita di un monaco buddista

Come ha deciso di diventare monaco?

Da piccolo aveva visto una immagine del Buddha che meditava, seduto e sereno, e gli era piaciuta molto. Non capiva bene cosa stesse facendo, ma gli sembrava un bel modo di vivere. 

Un giorno ha deciso di andare in uno dei grandi siti buddisti, e tra Lumbini e Bodhgaya ha scelto la seconda, perché almeno erano indiani come lui. Durante la visita ha conosciuto il monaco capo, quello che avevamo incrociato anche noi. Si sono messi a parlare, e dopo 15 minuti il monaco gli ha detto: “Perché non provi a vivere un po' con noi?”.
Lui ha deciso di provarci, e dopo 4 mesi è ancora lì. 

Non è una scelta per tutta la vita.
Per ora vive la vita dei monaci, medita, impara il buddismo tramite gli insegnamenti del monaco capo. Non gli interessa fare chissà cosa, raggiungere di corsa l’illuminazione, meditare più e meglio degli altri. Se si sente sereno ha abbastanza dalla vita.

In futuro potrebbe cambiare tutto. Il padre potrebbe dargli i soldi per aprire un negozio di medicine tutto suo, e a quel punto tornerebbe ad una vita normale. Perché aspettare i soldi di papà? Perché è un dipendente pubblico, e questo è importantissimo per un indiano.

Indiani e lavoro

Il padre e il fratello di Amit sono dipendenti pubblici. Ci ha spiegato che lavorare per il governo è una delle massime aspirazioni per un indiano.
Perché? Perché è un lavoro sicuro, e perché è l’unico lavoro che poi ti assicura una pensione. Questo significa un livello di sicurezza e stabilità che è molto ambito in India, un Paese con un mercato del lavoro iper competitivo e con una altissima disoccupazione o sottooccupazione.

E così diventare un dipendente pubblico è molto difficile, perché tutti vogliono farlo. E quando c’è una situazione simile, dove una volta assunti sei sistemato tutta la vita, ecco che tutto il mondo diventa paese.
In India per essere assunti nel pubblico devi conoscere la persona giusta e/o devi pagare un sacco di mazzette. C’è proprio un listino indicativo.

Per essere assunto nelle forze dell’ordine, tra i lavori più bassi, ci vogliono comunque migliaia e migliaia di rupie. A salire, essere eletti per una posizione politica di un certo livello richiede di organizzare feste e distribuire soldi a pioggia prima delle elezioni.
Poi, una volta assunto o eletto, puoi “integrare” il normale stipendio in un sacco di modi creativi.

E non è finita qui. Essere un dipendente pubblico ti rende anche uno scapolo irresistibile…

Lavoro e matrimoni

I genitori delle ragazze (sono loro che decidono chi sposeranno…) non guardano a quanto guadagni, ma solo al tipo di lavoro che hai. E l’unico lavoro che va bene è quello nel settore pubblico, perché è sicuro. 

Se sei un imprenditore puoi fare tanti soldi ma potrebbe non durare. Anche se tu fossi figlio di un immobiliarista sei comunque più sfigato dell’ultimo degli impiegati pubblici, che ogni cosa è transitoria. Ma se sei assunto dallo Stato allora sei una garanzia

Se sei un dipendente pubblico allora tutti i genitori di ragazze nubili ti punteranno. Gli altri invece si troveranno senza moglie, come è successo al nostro Amit. Nonostante guadagnasse quattro o cinque volte più del fratello, non era minimamente considerato come possibile marito per le figlie. E come lui tantissimi altri ragazzi della sua regione.

Dove viveva Amit

Amit è un monaco da appena quattro mesi. E prima?

Viene dalla regione dell'Haryana, famosa per la coltivazione dei cereali e perché da lì vengono i migliori wrestler dell’India. I cereali sono fondamentali per fare i chapati, mentre adesso che è in Bihar ha dovuto abituarsi a mangiare il riso, e non è stato per niente facile.

Inoltre l’Haryana è una regione dal clima fresco e temperato, dove d’inverno diventa freddo ma dove in estate basta un ventilatore e un po' di ombra per stare bene. A Bodhgaya invece è sempre umido, e fa caldissimo quasi tutto l’anno, così caldo da togliere il respiro anche alla gente dell’India.

Il futuro di Amit

Ma in qualche modo si è adattato a questa nuova vita, e adesso si impegna nella sua vita da monaco. Veste l’abito color ocra, medita, va al tempio, impara.

Magari attende che papà cacci i soldi per il negozio per tornare a casa. E magari con un negozio suo riuscirà a convincere qualche genitore di essere un buon partito per la loro figlia…

I ragazzi di Chaitanya Kul

Siamo stati qualche giorno alla “scuola non scuola” di Chaitanya Kul, e in questi giorni abbiamo passato del tempo con i ragazzi. Sono tutti dei bravi ragazzi, e tutti si sono presi un pezzetto del nostro cuore. 

Ma ci sono alcuni di loro che ricorderemo in modo speciale. Ecco qualche riga su di loro, compreso il significato del nome.

Vicky: il poliglotta del gruppo

Vicky (Vittorioso) è un ragazzo di 16 anni con un sorriso contagioso, sempre allegro e sempre felice di vederci. Si è impegnato molto per convincerci a tornare, e siamo stati felici di fargli una sorpresa e accontentarlo.

Tutti i ragazzi di Chaitanya Kul si impegnano a imparare e a migliorare. Vicky si distingue anche in un gruppo così speciale perché è il poliglotta della compagnia.

Oltre all’inglese, che parla molto bene, è molto impegnato a imparare lo spagnolo. Come impara? Con Duolingo, una app che insegna le lingue simile a Babbel. E’ la stessa app che ho usato io qualche anno fa, per imparare proprio l’inglese e un po' di spagnolo!

Amrita: l’appassionata di storia

Amrita (Immortale, Nettare degli dei) è la sorella maggiore di Vicky. A 20 anni è impegnata al di fuori del centro, ma passa ancora spesso a trovare i ragazzi e Satyam e a dare una mano. 

Un paio di volte ha cucinato la cena, Alessia le ha dato una mano. Possiamo dire che è una cuoca bravissima, anche se lei non è d’accordo.

Mi ricorderò di Amrita perché è una grande appassionata di storia. Mi ha mostrato i suoi schemi e i suoi grafici con gli appunti, e mi ha fatto una lezione di più di un’ora sul periodo preistorico dell’India.

E’ una studiosa molto impegnata: ha il suo obiettivo giornaliero da raggiungere, le sue pagine da studiare e imparare. Alle 22.30 di sera (!!!) chiama al telefono la cugina e si “sfidano” e si interrogano a vicenda su quello che hanno studiato durante la giornata.

Krishan: artista, sportivo, protettore di fanciulle

Krishan (Nero, Scuro) è un altro ragazzo che si è meritato un posticino speciale.

E’ un giocatore di frisbee atletico e competitivo. Ci ha mostrato fiero il suo incisivo, spezzato da un frisbee lanciato a tutta velocità.

E’ un artista che ha seguito tutti i workshop di Alessia, e ha fatto dei bei disegni e dei bei dipinti nel suo portfolio.

E un giorno, mentre portava Alessia in bicicletta, ha difeso il suo onore da un autista di rickshaw che le aveva rivolto parole poco gentili. Lei non sa cosa si sono detti, ma lui sì e stavano per venire alle mani.

Aman: l’esperto social del gruppo

Aman (Pace) è l’anima Instagram di Chaitanya Kul. Ogni giorno lo abbiamo visto con il cellulare puntato a catturare i momenti piccoli e grandi della vita dei ragazzi. E ovviamente chiedeva ad Alessia le foto e i video che faceva lei.

Satyam ci ha detto che era un ragazzo timidissimo quando era arrivato, ma stare nel gruppo e giocare a frisbee con la squadra lo ha fatto un pò uscire dal guscio.
Ogni tanto mi pareva di vedere momenti del vecchio Aman, la tendenza a essere introverso e a stare un pò indietro rispetto ad altri ragazzi più esuberanti. Da introverso a mia volta lo considero un pò un’anima affine.

Gaurav: dare il 101% in ogni cosa

Gaurav (Onore, Orgoglio) è una scarica di energia ogni volta che arriva. Sempre con il sorriso, e sempre pronto a fare tutto alla massima velocità. 

Giocare a frisbee, andare a fare commissioni, disegnare, spazzare per terra… Gaurav mette in tutto quello che fa la massima energia, senza risparmiarsi e senza riserve.

Ambika: piccoletta senza paura

Ambika (Madre) è una delle più piccole del gruppo, ma è già una delle più attive e una delle portavoci. Parlava con noi volontari, ci ha messo la faccia in videomessaggi della squadra di frisbee, e ha anche fatto una presentazione al gruppo con una lezione di fisica sulla luce.

Non sembra aver paura di niente e di nessuno.

Samar: banana power!

Samar (Battaglia, Compagno di conversazione) è un concentrato di energia e di buonumore. Un altro grande sostenitore del nostro ritorno, sempre sorridente e pronto a scherzare, saltare, correre e darsi da fare. Grande mangiatore di banane, dice che gli danno l’energia per il suo modo di essere sopra le righe ma irresistibile.

“Banana Power!”

Lotus Temple: un esempio di eguaglianza a Delhi

Vi raccontiamo la nostra esperienza al Lotus Temple, un edificio di culto bahá’í che ci ha incuriositi per la sua particolare forma a fiore di loto, ma soprattutto perchè è un luogo di culto aperto a tutti, indipendentemente dalla religione di appartenenza, dal sesso o da altre distinzioni. Ognuno al suo interno può professare il proprio credo.

Da fuori l'edificio si mostra in tutta la sua imponenza. Un edificio composto da 27 "petali" rivestiti di marmo che può contenere nella sua sala centrale un massimo di 2.500 persone.
La coda di persone per entrare è parecchio lunga (è sabato) e la confusione non è da meno, nonostante gli assistenti cerchino in ogni modo di creare ordine

Ma una volta entrati qualcosa cambia. Si respira una diversa aria.
All'interno ci sono numerose file di panche in marmo e in un lato un "luogo di lettura".
Troviamo il nostro posticino, chiudiamo gli occhi e meditiamo un pò. Percepisco i rumori delle persone che mi passano accanto, percepisco il mio respiro e mi sento tranquilla.

Veniamo interrotti da dei canti. Sono canti provenienti da delle letture di diverse religioni in diverse lingue. Non capisco molto le differenze ma hanno tutte delle piacevoli melodie e resto con gli occhi chiusi ad ascoltarle. Mi scende qualche lacrimuccia (la solita ipersensibile). Penso a quanto è "magico" questo luogo, penso che sarebbe bello (e giusto) che questa uguaglianza e democrazia non restassero rinchiuse in queste mura. Penso a come qui si vive in pace mentre fuori esiste un mondo di guerre e diseguaglianze purtroppo spesso causate dalle stesse religioni. E un esempio bello forte è qui in India con le sue caste, vietate per legge, ma ancora in uso.

Nel frattempo i canti finiscono. La folla si accalca verso le uscite con una confusione che per ora ho visto solo in India. Il momento magico si è chiuso. Con calma ci avviamo anche noi verso l'uscita.
Grata per aver conosciuto e vissuto questo luogo.

Alcune informazioni tecniche:

La fede Bahá’í è una religione monoteistica nata in Iran, durante la metà del XIX secolo. Per questa religione un edificio di culto deve essere uno spazio aperto a tutti, senza alcuna discriminazione. Gli scritti sacri di qualsiasi religione riconosciuta possono essere letti e cantati a condizione che non si suonino strumenti musicali come accompagnamento. All'interno della struttura non possono essere esposte immagini o statue.

La struttura è stata realizzata dall’architetto iraniano Fariborz Sahba, che vive in Canada, a cui venne affidato l’incarico nel 1976 e nel dicembre del 1986, il tempio venne ultimato e aperto al pubblico.

Per altre informazioni visita il sito ufficiale: https://bahaihouseofworship.in/

Vrindavan: la città che non abbiamo visitato

Siamo partiti senza fare tanti piani, ma avevamo un bel po' di idee su cosa vedere in questo viaggio in India.
Una delle città che volevamo visitare era Vrindavan. Si trova vicino a Mathura, ed entrambe sono città sacre per gli indù, in quanto luogo di nascita e di crescita di Krishna, che tra i tantissimi dei che venerano ha un'ottima posizione in classifica generale. Sono anche due città vicine tra loro, e a metà strada tra New Delhi e Agra, quindi molto comode da raggiungere.

Il piano era semplice: arriviamo in treno, giriamo tra una e l'altra città per qualche giorno, poi ripartiamo per Agra. Ci vediamo un po' di templi, assistiamo a un po' di riti e rituali, vediamo un po' di India che i turisti occidentali non vedono spesso.

L'impero criminale di Vrindavan

Nel treno che ci porta a Mathura ci sediamo vicino a una famiglia: madre, fratello e sorella. La ragazza ci parla un pò, e quando le diciamo che vogliamo visitare Vrindavan ci dà un avvertimento molto convinto: attenti agli occhiali!
Ci sono tante scimmie, e si divertono a prendere di mira occhiali e cellulari. Se una di loro ti deruba c'è un trucco: fare uno scambio con un contenitore di succo di frutta, un "frooty". Insomma, le scimmie ti ricattano e ti tocca pagare per riavere le tue cose...
Il consiglio della nostra vicina di posto: tenere tutto nella borsa e andare in giro così. Un bel problema per due miopi come noi, specialmente Alessia...

Al momento del check-in parlo un po' con il ragazzo che gestisce la struttura. Anche lui ha diversi consigli da darmi, e a un certo punto il discorso arriva a Vrindavan. "Be careful of your specs", attendo agli occhiali se vai lì. Anche lui quindi mi dice di stare bene attento.
Il tempio principale, lo Sri Sri Krishna Balaram Mandir, è circondato di queste scimmie ricattatrici. Meglio andare con gli occhiali in borsa e poi rimetterli solo all'interno del tempio....

A questo punto mi metto a fare qualche ricerca in più.
Internet ha una ampia raccolta di esempi di questi furti interessati da parte delle scimmie...

Ecco il video recente di una che ha rubato un iPhone:

https://www.youtube.com/watch?v=GRAqHXnjz2c

Qui la notizia che una scimmia ha rubato gli occhiali di un District Magistrate, che mi sembra una carica importante, ma che non lo ha messo al riparo dalle scimmie.
Sull'argomento c'è una folta letteratura su internet.

Vedo anche questo post di una ragazza che ho trovato altre volte nelle mie ricerche. Anche lei è stata vittima delle scimmie, in un momento in cui pensava di essere al sicuro sulle rive del fiume. Prima era andata in giro senza occhiali, ma era aiutata da un'amica che immagino non fosse miope.

Infine, mentre giriamo per Mathura, vediamo alcune scimmie girare negli edifici al lato della strada. Un passante ci avverte: "Careful with your specs". A quanto pare le scimmie hanno imparato a procurarsi mazzette anche qui. Non ci sono posti sicuri.

Le scimmie: un nemico sottovalutato

So che alcuni potrebbero pensare che sto esagerando, e che un po' di scimmie non possono essere poi un gran problema.

Avete presente quanti problemi può creare una scimmia? Parliamo di un animale furbo, opportunista, sempre pronto a entrare in azione mentre noi siamo distratti a fare i turisti.
Sono più forti fisicamente di noi: in un combattimento 1 contro 1 tra un uomo medio e una scimmia, scommetto sulla scimmia ogni volta.
Sono più agili di noi e svelte di noi, quindi non hai molte chance di schivarle se ti puntano. E ti auguro buona fortuna se ti prendono qualcosa e cerchi di inseguirle.
E non si fanno intimidire: alle scimmie, come al cavaliere nero, non glie devi c...à il c...o (cit.). Anche se ti senti più forte di loro, hai voglia di metterti a fare rissa con una scimmia? Hai visto che denti che hanno? E non si farebbero problemi a usarli su di te.

La lezione: rimani flessibile, ascolta i consigli dei locali

Dopo molti ragionamenti e ripensamenti, ho chiesto ad Alessia di rinunciare a visitare Vrindavan.
A Mathura la situazione è gestibile, le scimmie sono poche. A Vrindavan sembrano più numerose e organizzate, e sono davvero dappertutto. Non voglio passare la giornata sentendomi un bersaglio. E andare in giro cercando di guardarmi intorno senza occhiali non è affatto piacevole, e neppure utile: che vai a guardare in un posto se non vedi le cose più lontane di qualche metro?

E così abbiamo una giornata libera in più, che useremo per riposare, goderci un po' l'atmosfera indiana, fare piani per i prossimi giorni. Un viaggio significa anche questo: cambiare quando serve, capire quando è il caso di provare e quando è meglio trovare un piano B. Vrindavan rimarrà la città-che-non-abbiamo-visitato, sperando che sia una eccezione.

Aggiornamento: avevo ragione!

Abbiamo parlato con una ragazza italiana che è stata Vrindavan e... è stata attaccata da una scimmia! Le ha rubato gli occhiali ed è scappata via, e lei ha dovuto inseguirla e capire cosa fare. Evidentemente non aveva avuto i nostri avvertimenti.

Ha detto che alla fine i venditori li hanno aiutati a recuperare gli occhiali, ma era passato un po' di tempo. Nel frattempo la scimmia si era messa a sgranocchiare un po' le stanghette, e quando ha ricevuto la sua mazzetta (il succo di frutta) ha buttato via gli occhiali. Ci ha mostrato i segni dei denti, dovrà farli sistemare un pò.

Mi spiace di non aver visitato la città, ma sono anche sollevato di essermela persa per una paura infondata. E così ogni tanto posso ricordare ad Alessia: te l'avevo detto!

Esperienze di alberghi indiani: Kishan homestay a Mathura

La nostra prima tappa dopo New Delhi è Mathura, una città sacra per gli indiani, perché luogo di nascita di Krishna.

Siamo rimasti qualche giorno in un piccolo albergo, molto ben recensito su Booking: Kishan Home Stay.
Diciamo che è stata un’esperienza interessante, e che ci ha mostrato molto su come possono essere le strutture ricettive indiane.

E così facciamo valutazioni come fossimo Barbieri a 4 Hotel.

La location: 2 stelle su 5

La nostra pensione si trova in una zona residenziale, a parte qualche altra pensione molto simile. Molto comoda se arrivi in treno, bastano pochi minuti a piedi. Abbastanza tranquilla, i vicini non hanno fatto baccano come in altre sistemazioni.

Punti a sfavore: la zona era molto periferica, e per arrivare alle cose interessanti da vedere devi camminare almeno un paio di chilometri, o prendere un tuk tuk. Considerando che Mathura per gli indiani è poco più di un paesotto, vuol dire che siamo in piena periferia.

Zona residenziale vuol dire case, ma case molto popolari. La fogna a cielo aperto corre su canalette a fianco della strada, non è interrata. Vi lascio immaginare gli odori, che tendono a diffondersi anche ai primi piani.

Prime location!

La prima stanza: 4 stelle su 5, poi 2 su 5

La struttura si presenta simpatica, un po' trasandata, ma ci si passa sopra. 

La nostra stanza sembra buona. Decentemente pulita, molto tranquilla, molto grande. C’è anche spazio per un tavolino e due sedie, quindi rispetto alla stanza di New Delhi è tutta un’altra musica. Ci facciamo la doccia e c’è acqua calda in abbondanza, quindi sistemazione top.

A dire il vero qualche problemino c’è. Il bagno non è proprio ben rifinito, diciamo che le cose funzionano e che è abbastanza pulito, ma niente di più. C'era anche il piccolo problema che non c'era acqua calda...
Gli infissi non sono proprio ad alto risparmio energetico… Dal letto guardo la finestra e vedo la luce che passa dalle fessure tra infisso e serramento. Immagino che in India non ci sia molto bisogno di isolare dal freddo, se non per un paio di mesi l’anno, quelli in cui siamo arrivati noi!

Siamo già belli sistemati e tranquilli, e sono sul letto a scrivere qualcosa, quando il voto cala precipitosamente. Vedo del movimento con la coda dell’occhio. Guardo meglio, ed ecco un topolino che corre a nascondersi sotto il letto.

Decidiamo che la stanza è grande, ma non c'è spazio per tutti e tre.
Il ragazzo che gestisce la struttura ci offre una sistemazione alternativa e accettiamo.

Seconda stanza: 3 stelle su 5, in calo

La nuova stanza mi è stata presentata dal manager come una versione più lussuosa della precedente. Diciamo, eufemisticamente, che non ero convinto. Secondo Alessia le finiture erano migliori, il bagno più decente, i materassi più morbidi.

Io ho notato che le dimensioni erano molto minori: il letto ci stava solo addossato alla parete, quindi Alessia dovrà fare i salti mortali per scendere dal letto. E la nuova stanza è all'ultimo piano, senza un tetto normale e senza tante protezioni dal sole. In pratica, diventa caldissima. L'acqua calda va e viene.
Ma non sembra contenere topi, e anche se entrano non possono nascondersi (non ci sono spazi sotto il letto e gli altri mobili), quindi vince.

Le aree comuni: 3 stelle su 5, ma troppi animali

Se non vogliamo stare in camera abbiamo qualche alternativa.
C’è la terrazza fuori dalla nostra camera al secondo piano. C’è il tetto sopra la nostra camera, che è un po' un’altra terrazza, con vista sul resto del quartiere. E c’è una terrazza al secondo piano che fa anche da area per mangiare.

Area lounge di classe

Tutto sommato non sono male. Il problema sono gli altri occupanti di queste zone. Non gli altri clienti, ma i vari animali che vediamo.
Ci sono i gechi sui muri, ma loro tendono a stare in disparte e danno un po' di colore.
Ci sono le zanzare, e loro sono molto più fastidiose. Ce ne sono tantissime, non sono aggressive come le nostre, ma comunque fastidiose. Dobbiamo inaugurare lo spray per scacciarle, e sembra funzionare.
Il grosso problema sono… le scimmie. Le abbiamo viste poco sopra di noi e ne siamo stati alla larga, visto la loro reputazione. Le abbiamo sentite camminare intorno alla stanza, e forse anche fare una piccola rissa vicino ai nostri vestiti stesi. Ho anche avuto un po' di paura che potessero giocare con la roba stesa, ma è stata una paura infondata.

I servizi accessori: 3 stelle su 5

Approfittiamo della posizione vicino alla terrazza e allo stendibiancheria per lavare un po' di cose e metterle ad asciugare. Questa è una gran comodità.
Con 1 euro in più ci viene data anche la colazione il giorno successivo, e anche questo è un punto positivo.

Il servizio è molto spartano: il ragazzo che porta il vassoio lo inclina un pò, e un po' del contenuto di un vasetto cola sul tappetino che copra la tavola. Il ragazzo non fa una piega e se ne va. Noi facciamo spallucce e mangiamo.

Soluzioni di design: 1 stella su 5, di incoraggiamento

Se il nostro albergo ha perso un po' di voti, a parte il topolino, è stato nelle sue soluzioni architettoniche, che possiamo definire “creative”.

Ecco qualche esempio, in ordine sparso:

  • gli infissi fatti di spifferi, di cui ho già parlato
  • la moquette di erba sintetica brutta usata per coprire l’area ristorante, pareti comprese
  • i cavi e le canaline che corrono lungo i corridoi, e che devi stare attendo a non inciampare
  • lo stucco usato con grande liberalità per chiudere le fessure

Ma ci sono soprattutto due chicche che mi hanno colpito molto.

Numero 1: i bagni comunicanti. Il nostro bagno aveva due finestrelle. Una dava verso l’esterno, aveva una ventola di 20 centimetri davanti un buco grande almeno 25-30 centimetri…
Ma soprattutto c’era una seconda finestrella sull’altro lato. Anche lì c’era una ventola, ma non la attivavamo noi. Solo dopo abbiamo capito che era la ventola del bagno vicino, che spingeva l’aria nel nostro!
E i nostri vicini, per qualche motivo, penso abbiano deciso di rinfrescare la stanza lasciando la ventola accesa per tutta la notte…

Numero 2: il soffitto cubista. Come potete vedere nella foto, agli indiani piace fare questi soffitti che combinano luci, ventilatori, e un po' di colore. Quello che mi fa impazzire è che nessun elemento di questo soffitto è allineato con gli altri. Tutti sono orientati un po' storti, tutti sono un po' spostati rispetto agli assi… un capolavoro di design.

Valutazione generale: 4 stelle su 5, per i ricordi

Non è facile dare un giudizio finale a questo albergo, ma alla fine gli diamo un generoso 4 su  5 di valutazione. Non per la stanza, o per la qualità del sonno, o per il servizio, o per la location.

Ma per l’esperienza che ci ha dato, sicuramente più memorabile che un “noioso” albergo dove dormi tranquillo e dove va tutto bene. Tutti questi difetti e problemi piccoli e meno piccoli alla fine erano superabili, e ripartiamo con dei ricordi divertenti.

Chaitanya Kul: una immersione di India con ragazzi straordinari

Dopo un paio di mesi in India abbiamo deciso di fare qualcosa di un po ' diverso.
Andiamo a fare un pò di volontariato tra i giovani indiani, e proviamo a vivere l’India che non si vede nei viaggi normali.

E così da Varanasi abbiamo preso un treno verso Adari, un paesino sperso nell’Uttar Pradesh dove gli occidentali non si fanno vedere.

Chaitanya Kul e Workaway

Siamo andati a passare qualche giorno a Chaitanya Kul. Non è proprio una scuola, più una specie di doposcuola. I ragazzi vanno lì per imparare cose, ma è una cosa completamente volontaria creata da un uomo solo, Satyam. Ci sono circa 30 ragazzi e ragazze dai 10 ai 20 anni.

Tutto è nato da Satyam, che dopo una carriera da ingegnere ha deciso di aiutare i ragazzi che vengono da situazioni familiari difficili a crescere come adulti responsabili, motivati, produttivi.
Non ci sono lezioni nozionistiche come a scuola, ma tanto lavoro per imparare metodi e tecniche, apprendere in modo autonomo, essere indipendenti, fare un percorso di crescita.

Come li abbiamo trovati? Tramite Workaway, un portale che mette in contatto le organizzazioni umanitarie di ogni tipo con i viaggiatori disposti a donare tempo e competenze in cambio di vitto e alloggio. Lo consigliamo se volete vivere esperienze significative, o anche solo risparmiare mentre viaggiate.

I nostri contributi alle attività

Cosa abbiamo fatto nella nostra esperienza di volontariato?
Di tutto un po', facendo del nostro meglio. Alessia ha dato una mano in cucina. Io ho lavato tanti piatti (cucinare all’indiana richiede un sacco di pentole ad ogni pasto…).

Alessia è stata notata per le sue doti artistiche. I ragazzi hanno visto le sue opere su Instagram e il suo taccuino di acquerelli di viaggio, ed è stata assediata di richieste di workshop.

E così ha fatto un corso base di ricamo, che ha avuto un gran successo tra le ragazze ma anche con vari ragazzi. Sono rimasti ben oltre l’orario previsto a creare le loro opere.
Ha fatto anche un corso di pittura creativa, anche quello con tanti partecipanti entusiasti. E infine anche una lezione di acquerello per i più interessati alla pittura.

Io ho dato una mano su quello che so fare, e ho sistemato un po' il sito internet del centro. Era un vecchio sito costruito con Wix, e lavorarci è stata una bella gatta da pelare. ma sono riuscito a sistemare alcuni problemi di grafica che erano proprio brutti da vedere.

E poi abbiamo lavorato un sacco al nostro progetto più grande: la presentazione. Ad ogni volontario viene chiesto di insegnare qualcosa ai ragazzi. Deve essere una lezione utile, senza cose “banali” che possono trovare su internet, e raccontata  in modo accattivante. 

Ci sono volute molte ore e molto impegno, ma alla fine eravamo pronti. Parlare in pubblico, in inglese, per insegnare e intrattenere una ventina di ragazzi e ragazze… una passeggiata!

Abbiamo parlato di noi: lavoro, famiglia, casa. Abbiamo parlato un pò dell’Italia, con tanto di piccola lezione di parole e gesti italiani. Poi abbiamo parlato dei nostri viaggi.
I ragazzi si sono divertiti un sacco a ripetere “Macchu Picchu” e non posso biasimarli: noi abbiamo la stessa reazione e abbiamo superato i 40.

Mentre presentavamo abbiamo capito un po' meglio pregi e limiti dell'educazione indiana. I ragazzi studiano la rifrazione della luce, usano cellulari e software meglio di noi, imparano online inflazione e ruolo delle banche centrali. Ma, messi davanti a una mappa del mondo, non hanno idea di dove trovare la Turchia, il Marocco, o anche la Cambogia.

Le spiegazioni erano alternate con curiosità e foto dei posti che abbiamo visto. Ci sono anche stati quiz e giochi a punti, che li hanno divertiti e caricati.

La presentazione si è conclusa con una serie di domande sull’India modello “Chi vuol essere milionario?”, con i ragazzi che indovinavano in coro tra 4 alternative. La presentazione doveva durare un’ora, su richiesta dei ragazzi abbiamo usato tutto il nostro materiale e abbiamo finito dopo più di 2 ore e mezza. Alla fine applausi per tutti, foto ricordo, e anche qualche complimento entusiasta.

L'ultimo giorno abbiamo anche fatto dei video per i nuovi volontari, per spiegare loro come fare delle presentazioni migliori, e un po' di regole e suggerimenti per la loro permanenza a Chaytania Kul. Il montaggio lo abbiamo affidato ad Aman, l’esperto di media e social media del gruppo.

Frisbee agonistico: un’altra nuova esperienza

Stare con a Chaitanya Kul ci ha fatto scoprire anche uno sport che ignoravamo: il frisbee agonistico. I ragazzi hanno iniziato a giocare circa un anno fa, e per loro è diventata una cosa seria. Si allenano tutti i giorni, 7 giorni su 7. Hanno partecipato a un paio di tornei, e li hanno vinti. Adesso si stanno preparando a un grande torneo a New Delhi, e sono concentratissimi.

Come si gioca a frisbee agonistico? Cercherò di riassumere.
Ci sono due squadre, di 6 giocatori ciascuno. Per segnare un punto bisogna portare il frisbee fino in fondo al campo avversario, un po' come fare meta a rugby. I giocatori si passano il frisbee cercando di arrivare a meta, chi riceve il frisbee deve fermarsi e passarla, e solo dopo può tornare a muoversi. L’altra squadra cerca di intercettare i lanci, basta anche solo toccare il frisbee. Non vale il gioco fisico, niente placcaggi o blocchi.

L’allenamento è ogni mattina alle sette e mezza, in un campo di terra spesso coperto di nebbia. E’ importante per i ragazzi, e sembra divertente, quindi anche noi ogni mattina abbiamo inforcato una bici e affrontato le strade piene di buche che portano al campo.

Giro di riscaldamento, stretching, e fatte le squadre si inizia a giocare. Per quasi un’ora e mezza! Dopo decenni di esercizio fisico saltuario, questo ritorno all’agonismo è stata… un’agonia. Alla fine mi sono divertito un sacco, anche se le giocate di qualità sono state poche, ed ero il più lento in campo. Maledetti ragazzini pieni di energie e di voglia di correre…

Cosa ricorderò di queste partite?

  • L’energia inesauribile dei ragazzi, che galoppavano su e giù mentre io mi trascinavo imbolsito
  • I ragazzi che correvano sul terreno sassoso a piedi nudi, come fosse niente
  • La gioia e l’agonismo che mettevano in tutte le giocate
  • il “cerchio” a fine allenamento, in cui ognuno diceva come era andata, di cosa era contento/a e cosa voleva migliorare

Quanto è difficile rinunciare alle comodità

Stare per giorni in questo centro per ragazzi in un paesino sperduto non è stato sempre facile. Devo dire che ci ha messo alla prova, anche dopo diversi mesi passati in India. Ci sono delle comodità che diamo per scontato ma che non lo sono affatto.

Uno dei problemi più grossi sono state le zanzare. La prima notte abbiamo dormito senza la rete antizanzare, ed è stato un errore che non abbiamo ripetuto. Assaliti dalle maledette succhiasangue, sono finito con la coperta sopra la testa, e l’unico spiraglio per respirare protetto dalla mia mano. Quella mano, i giorni successivi, sarà costellata da almeno trenta puntini rossi.

Il problema che non ti aspetti è il freddo. Gennaio in India non è freddo come da noi, ma è più freddo di quanto ti aspetti dall’India. Quando non c’è il sole le temperature scendono di brutto, e le case indiane non hanno il riscaldamento. Tra le cinque del pomeriggio e le nove del mattino non te la passavi troppo bene. Per fortuna avevamo i nostri giubbotti pesanti, comprati per l’occasione a Bodhgaya…

I primi giorni c’è stato anche un problema con la fornitura dell’acqua. A quanto pare tutti quelli che possono permetterselo hanno una fornitura “privata”, e allora tutto bene. Ma se questa ha qualche problema devi affidarti al servizio pubblico, che però non funziona tutto il giorno.

Quando è disponibile l’acqua del servizio pubblico?
12 minuti al giorno.
12 minuti. 
E non si sa neanche quando, ti arriva un avviso mezz’ora prima e devi stare pronto a prenderne il più possibile.

Per fortuna dopo un paio di giorni tutto è tornato a posto, e abbiamo avuto il lusso di poter lavare i piatti e farci la doccia senza misurare l’acqua con il contagocce!

E lavorare in un centro come quello di Satyam è difficile anche per un altro motivo: gli orari.
Dormire dopo le cinque è molto difficile, perché verso quell’ora iniziano i canti delle moschee e le scampanate del tempio indù vicino… I ragazzi iniziano ad arrivare alle sei e mezza, e si parte subito forte, con le pulizie e le attività. Non ci sono pause fino a sera, con gli ultimi ragazzi che se ne vanno sulle otto e mezza. Tra una cosa e l’altra si va a letto tardi, e la mattina dopo si parte di nuovo.

Perché adattarsi a tutto questo? Per ricordarsi di quanto siamo fortunati per tutto il resto dell’anno, quando queste scomodità sono solo un ricordo dell’avventura indiana. Ma soprattutto per un altro motivo.

Cosa rende tutto sopportabile: i ragazzi

Alla fine tutti i problemi finivano in secondo piano grazie ai ragazzi. Passare del tempo con loro, prendere parte alle loro vite, far parte della loro “famiglia” bastava a far dimenticare un bel po' di scomodità.

Ci siamo sentiti davvero accolti e subito presi dentro il gruppo, come se fossimo lì da tempo e non da poche ore o pochi giorni. Il loro entusiasmo e la loro voglia di vivere erano contagiosi, e alla fine ci trovavamo a sorridere e a ridere con loro nonostante tutto.  Sarà un cliché, ma mi sono sentito anche io tornare giovane per un po’.

E’ stato anche molto bello vederli entusiasti e felici dei corsi “artistici” organizzati da Alessia. Volevano imparare, si divertivano, e spesso restavano molto oltre l’orario previsto di fine corso per fare il più possibile. Satyam ha detto ad Alessia che dopo la prima ora poteva almeno prendersi una pausa. Ma lei ovviamente è rimasta con loro fino all’ultimo minuto utile.

E quando è stato il momento di ripartire i ragazzi ci hanno accompagnato in stazione e hanno aspettato il treno con noi. Ci sono stati lamenti e richieste di tornare, e tornare appena possibile! Ma soprattutto ci sono stati sorrisi e risate, selfie ridicoli, anche un balletto su un remix di “Bella Ciao”...

Ci hanno portato fino ai nostri posti, e siamo tornati alla porta per salutarli. E questo è stato il nostro ultimo ricordo di loro. Il treno che lentamente esce dalla stazione, noi affacciati della porta aperta, e i ragazzi che si sbracciano per salutarci, gridando che ci aspettano presto.

Non li dimenticheremo mai.

Solo in India: corsi di informatica per ragazze che non hanno mai usato un computer

Dopo la nostra esperienza a Chaitanya Kul siamo partiti per Lucknow e per una nuova scuola. Stavolta una scuola “vera”: maestre, classi, orari di lezione e tutto. 
The Good Harvest School cerca di dare un’educazione a giovani ragazze delle campagne indiane, prima che si sposino giovanissime.

Siamo arrivati, e dopo un’ora eravamo già all’opera.
Sono “bravo con il computer”? Sono la persona giusta per fare un corso intensivo di informatica base alle ragazze. 
Quanto tempo ho per preparare qualcosa? “Vado a prendere il computer, vado a chiamare le ragazze, poi puoi cominciare”.
E allora diamoci da fare! 

Un corso di informatica fuori dagli schemi

Le mie qualifiche per fare questo corso? 
Uso il computer da una vita, e ho insegnato un po' di informatica ai bambini del G.R.E.S.T. di Postioma. Era l’estate di 30 anni fa…

Le dotazioni tecnologiche?
Tre vecchi computer portatili donati da un’altra associazione, e spolverati per l’occasione. Per disperazione ho aggiunto il mio Chromebook.

Quanto è numerosa la classe?
Ci avevano detto che sarebbero arrivate 5-6 ragazze, poi al momento di cominciare ne abbiamo viste 9, di tutte le età. 9 bambine su 3 computer… ecco perché ho aggiunto il mio, altrimenti passavano più tempo a guardare che a fare.

Primo giorno di corso: salvati da giochini istruttivi online

Dopo una veloce presentazione, facciamo i bigliettini con i nomi da mettere davanti a ciascuno di noi. Chissà che riusciamo a impararne qualcuno prima della fine del corso…

Poi si parte subito a imparare, e voglio che facciano subito cose pratiche. Niente teoria se devi iniziare a usare il computer, è qualcosa che devi fare facendo prove ed esperimenti pratici!

Apriamo Google Docs, e le ragazze iniziano con la base: scrivere il proprio nome. E poi scrivere qualche piccola frase: “Il mio nome è… mi piace…”.
Già così la stanza è precipitata in un caos creativo.  Ad ogni minuto le ragazze avevano nuove domande da fare.

“Bhāī (pronuncia: Bahìa, “fratello” in hindi), come si fa la maiuscola?”

“Bhāī, come si va a capo?”

“Bhāī, dove trovo i due punti?”

Domande che sembrano impossibilmente banali, ma non per loro, che non avevano mai visto una tastiera che non fosse quella virtuale del cellulare…

Mi sono reso conto che ero stato troppo ambizioso: chiedere loro di scrivere al computer, in inglese, testi originali era un po' troppo. E alcune impiegavano molto tempo, e dovevano farsi aiutare dalle compagne nella traduzione. 

Poi ho avuto un’idea geniale: ho cercato online un sito con semplici giochi per esercitarsi a scrivere alla tastiera. Così le ragazze dovevano solo seguire le lettere e le istruzioni che vedevano sullo schermo.
I risultati sono stati rapidi ed entusiasmanti. Le ragazze si sono divertite tantissimo, occhi fissi sullo schermo e sulla tastiera, massimo impegno e concentrazione, ogni tanto i suoni per ogni livello superato, e i festeggiamenti se guadagnavano tutte le stelle a disposizione. 

Verso la fine della giornata scolastica si vedevano progressi incredibili. Ragazzine e bambine che prima guardavano i tasti come fossero un cubo di Rubik, adesso battevano sui tasti con sicurezza, e anche una certa precisione. Alcune si spingevano anche a usare più dita di entrambe le mani, e con un tocco più gentile del mio, che ogni tanto tendo ancora a digitare come se usassi una macchina da scrivere meccanica.

Alle due le lezioni finiscono, e noi tiriamo un sospiro di sollievo.
Le ragazze, invece, non danno cenno di volersi fermare. Continuano a battere sui tasti fino a che non vengono a chiamarle: la jeep è pronta, ora di tornare a casa.

Noi rimaniamo nella scuola deserta e silenziosa, con un pomeriggio libero davanti. Ma domani si riparte, e dobbiamo farci trovare pronti. Oggi abbiamo giocato, ma domani si inizia a fare sul serio!

Secondo giorno di corso: l’entusiasmo delle studentesse di informatica

Il giorno dopo le lezioni sono previste alle 9 e mezza. Verso le 9 affrontiamo il freddo e la nebbia per un po' di colazione e troviamo una sorpresa. Le ragazze sono già davanti ai computer e in piena attività!
Sono arrivate alle 8 e, mentre aspettavano, hanno deciso di prendere l’iniziativa. Non possiamo che ammirare la loro voglia di fare, e cercare di fare del nostro meglio per aiutarle.

Per le lezioni decidiamo di fare le cose per bene e spostare la sede. Ieri abbiamo usato il tavolo della cucina, ma stavolta andiamo in una vera classe. Ci sono diversi vantaggi: è più serio, possiamo sederle a ferro di cavallo e seguirle meglio, è un ambiente dedicato a imparare. Ma soprattutto è abbastanza chiuso, e quindi sfuggiamo al freddo!

La mattina è un corso intensivo di programmi di videoscrittura, o meglio di Google Docs (per Word bisogna pagare una licenza…).

Le ragazze imparano a fare i grassetti, a cambiare colore al testo, a impaginare, a cambiare il font… Magari i risultati non sono molto professionali, ma sono tanto colorati e si divertono. 

Dopo due ore intense arriva la pausa pranzo. Loro mangiano il loro pranzo, noi riusciamo a mangiarci un pò di biscotti.
15 minuti prima della fine della pausa tornano alla carica: “Bhāī, can we do the typing practise?” (fratello possiamo giocare con il gioco della videoscrittura?). Le ragazze preferiscono darsi da fare alla tastiera che giocare durante la ricreazione. Wow!

Il pomeriggio è ancora dedicato a Google Docs, e a qualche funzione più avanzate. E qui scopriamo una nuova fonte di entusiasmo. Vediamo insieme come inserire immagini nel testo, e Docs permette di cercare da gallerie di immagini pronte.

Quando capiscono come funziona le ragazze si scatenano: “cani”, “sirene”, e soprattutto “unicorni”. Ad ogni ricerca appaiono decine di immagini bellissime tra cui scegliere, e le ragazze sono affascinate.

La giornata finisce alla grande, con le nostre studentesse che restano attaccate allo schermo fino all’ultimo minuto. Alcune a scrivere, altre a cercare immagini belle. Le ragazze che scrivono ormai sono veloci, si muovono in maniera naturale, spesso anche con una buona postura della schiena. Sembra impossibile che siano le stesse di un paio di giorni fa.

Il terzo giorno: un finale inaspettato

Terzo giorno di corso, stavolta le ragazze arrivano all’ora giusta. La sera prima, e anche la mattina presto, ci siamo messi d’impegno per capire come insegnare loro Excel, o meglio Google Sheets.

Come spiegare alle ragazze cosa è un foglio di calcolo? E soprattutto come far capire che è qualcosa che potrebbe essere loro utile in qualche modo? Ma abbiamo dei piani e delle buone idee.

La prima parte della mattina si fa un po' di ripasso del giorno prima, e si guardano alcune altre cose di Google Docs. Alcune ragazze sono in difficoltà, altre meno entusiaste di ieri.
Poi scopriamo un nuovo mondo: cercare belle immagini su Google Immagini. Anche qui le ragazze sono entusiaste di aver scoperto un nuovo mondo. E se trovano una bella immagine, possono anche salvarla sul computer! E così imparano a fare anche quello.
Ma arriviamo alla pausa pranzo che sono ancora cariche e attive.

Poi arriva l’imprevisto. La famiglia che ci ospita, e che gestisce la scuola, ci dice che hanno avuto una emergenza familiare non specificata. Devono partire per la città in breve tempo, e noi dovremo andare con loro.

Il nostro corso di informatica è già finito.

Cerchiamo di spiegare alle ragazze cosa è successo e le salutiamo. Sembrano anche loro un po' tristi per la fine del corso. C’è giusto il tempo di fare una foto tutti insieme, poi loro tornano a casa e noi facciamo i bagagli (nella fretta dimentico anche il mio e-book reader, ma questa è un’altra storia).

Cosa ho imparato insegnando informatica in India

Cosa ho imparato nel fare questo piccolo corso di informatica in India?

  • Preparare le lezioni richiede un sacco di fatica e di programmazione. Penso di aver passato più ore a preparare la lezione del giorno dopo delle ore passate con le ragazze.
  • Anche se prepari il programma perfetto, poi può sempre capitare un imprevisto che manda tutto all’aria.
  • Insegnare è davvero faticoso. Dopo quattro ore di lezione eravamo prosciugati di energie fisiche e mentali. E avevamo anche studentesse entusiaste e desiderose di imparare.
  • Insegnare in una lingua diversa dalla tua è doppiamente faticoso. Specialmente se anche i tuoi studenti devono imparare usando una seconda lingua. I gesti e la pratica sono serviti molto più delle parole.
  • Insegnare a neofiti è incredibilmente frustrante. Diamo per scontate un sacco di cose, ma se ti trovi davanti qualcuno che non ha mai visto un computer devi spiegare concetti base e non è semplice come sembra. 
  • Come spieghi a una ragazza indiana figlia di contadini cosa è un file, un software, un “mouse”? Di solito la lasci fare e capirà quello che le serve con la pratica

Ragazzi senza computer: cosa si perdono

Ho avuto un computer vicino o davanti a me per quasi tutta la mia vita, e mi è difficile immaginare come sia vivere in modo diverso.

Dicono che avere accesso a internet (e quindi a dispositivi come un computer) sia un diritto universale. Può sembrare una cosa stupida fino a che non ti rendi conto cosa vuol dire esserne esclusi.

Usare computer e internet vuol dire avere degli strumenti incredibilmente efficaci e versatili per studiare, per imparare mille cose, per esplorare un mondo di informazioni e di cose. Vedere le ragazze che usano Google Immagini per la prima volta è stato vederle muovere i primi passi in un nuovo universo di cui non sospettavano neanche l’esistenza. E con questi primi passi nasce in loro una curiosità di saperne di più, di provare, di sperimentare, di imparare. Se non hai questo tipo di accesso il tuo mondo è molto più piccolo, la tua curiosità soffocata.

Abbiamo avuto solo poche ore per lavorare con le ragazze. Abbiamo fatto del nostro meglio, ma abbiamo potuto fare solo i primi timidi progressi. Ma quei primi passi sono i più difficili, e abbiamo aperto la porta del nuovo mondo.

Spero solo che mantengano l’entusiasmo e la voglia di imparare che hanno mostrato mentre eravamo insieme. Se hanno quello il resto verrà strada facendo. E forse per alcune di loro sarà l’inizio di un percorso che le porterà lontano.

Meditare a Bodhgaya sotto l’albero di Buddha

Nei nostri viaggi nell’India ci siamo spinti in Bihar solo una volta, per andare a Bodhgaya. Perché siamo andati a Bodhgaya? Perché c’è un albero. Ma non un albero qualunque…

La storia del fico di Bodhgaya

L’albero famoso di Bodhgaya è un albero di fico. Sotto quel fico, 2.500 anni fa, si è fermato un uomo. E’ stato per giorni interi a meditare, dopo un lungo percorso di crescita spirituale. A

l culmine di quel percorso, dopo una meditazione profondissima, quell’uomo ha avuto un momento di illuminazione che lo avrebbe fatto diventare il Buddha, l’illuminato.

Il tempio di Bodhgaya 

Da quel momento l’albero è diventato uno dei posti più importanti per i seguaci di Buddha, e pochi secoli dopo l’imperatore Ashoka ha fatto costruire un grande tempio, proprio a fianco dell’albero. Questo tempio è diventato meta di pellegrinaggi e ancora oggi viene visitato ogni giorno da migliaia di buddisti da ogni parte del mondo.

Oltre al grande tempio c’è un cortile pavimentato in marmo tutto intorno, un grande parco pieno di tombe, capitelli, statue e altri simboli buddisti, e poi altri parchi tutto intorno, una grande vasca di acqua con i pesci, un giardino per la meditazione, e tanto altro ancora.

Ma al centro di tutto c’è ancora questo albero di fico. L’albero è enorme, con un tronco possente e dei rami titanici che si allargano intorno, così pesanti che sono sostenuti da delle colonne. La chioma si estende per una ventina di metri tutto intorno, e sotto la sua ombra possono sedersi centinaia di persone in meditazione.

I buddisti intorno all’albero di Buddha

E infatti questo è quello che succede ogni giorno. intorno all’albero c’è un continuo viavai di pellegrini e buddisti da tutto il mondo. Con il tempo la dottrina buddista di è sviluppata in tante versioni diverse, e ognuno porta a Bodhgaya i suoi modi di vestire, meditare, credere.

Ci sono i monaci con la veste color ocra, e quelli con la veste arancione. Ci sono quelli che sgranano mantra a tutta velocità, e quelli che rimangono seduti immobili per ore. Ci sono quelli che camminano recitando preghiere, e quelli che leggono da grandi libri. Ci sono quelli che mescolano riso e sassolini, e quelli che cantano qualche nenia misteriosa.

Insomma, sotto l’albero succedono un sacco di cose e si vedono un sacco di cose.

Meditare sotto l’albero dove Buddha ha raggiunto l’illuminazione

Ovviamente anche noi abbiamo voluto provare a meditare sotto l’albero di Buddha. Se è andato bene a lui, magari poteva aiutare anche noi. E un monaco buddista ci ha detto che stare sotto i suoi rami aiutava a stare in pace con se stessi e con il mondo.

Siccome siamo stati a Bodhgaya per diversi giorni, abbiamo provato a meditare sotto l’albero diverse volte, un pò a tutte le ore. La mattina con la rugiada della notte per terra, in un pomeriggio di sole, una sera affaticati e infreddoliti.

I risultati sono stati… misti.

Alessia mi ha detto che lei si è sentita effettivamente serena sotto l’albero di Buddha, e ha meditato bene nonostante le persone, il trambusto e il rumore.
Io ho fatto del mio meglio, ma non sono riuscito a fare altrettanto bene. Meditare con la gente intorno non è ancora qualcosa che riesco a fare bene.
Mi distraggo, mi innvervosisco, e vorrei dire loro di piantarla di fare tutto questo baccano, che qui c’è gente che cerca di illuminarsi!

Ma, anche se l’albero non mi ha aiutato nella pratica, mi ha dato lo stesso un momento molto buddista e profondo.

La lezione buddista che mi ha dato l’albero di Buddha

Abbiamo pensato che una foglia dell’albero di Buddha sarebbe stato un bel ricordo da portare con noi. Non vale strapparla dall’albero (anzi, se ci provi ti prendi un sacco di rimproveri); vale solo se riesci a prendere una foglia caduta naturalmente.

Mentre eravamo sotto il fico durante la nostra prima visita, ho visto una foglia sfarfallare a terra, e finire in un angolo. Sono arrivato per primo e l’ho raccolta. 
Al primo tentativo, e subito abbiamo avuto quello che volevamo,

Ma a me piace avere backup e riserve. Magari sarebbe stato meglio avere un’altra foglia, per sicurezza. Così ad ogni visita ho provato a raccogliere un’altra foglia. Ho provato, e provato, e provato, ma non c’è stato niente da fare. Ogni volta qualcun altro era più vicino e mi ha preceduto, spesso quasi senza volerlo, con le foglie che gli finivano in testa.

In diversi momenti mi sono un po' arrabbiato, fino a che ho avuto la mia piccola illuminazione. Potevo arrabbiarmi, o potevo prenderla come una lezione buddista.
Non avevo bisogno di quella foglia. Era un desiderio, un attaccamento, e mi ha portato solo negatività e danno. Se non avessi avuto quel desiderio sarei stato meglio.

Ecco la base di tutta la filosofia buddista: desideri e attaccamenti sono la causa del dukkha, della “sofferenza” o “insoddisfazione”. Per essere felici (e raggiungere il nirvana) bisogna imparare ad abbandonare questi desideri.
E l’albero mi ha insegnato in modo diretto e pratico come questi desideri facciano male e siano inutili. Grazie, fico di Buddha!

Altre cose memorabili di Bodhgaya (secondo me)

Bodhgaya è quasi solo il tempio e l’albero buddisti, ma noi abbiamo trovato qualcos’altro di memorabile in città. Stiamo parlando, ovviamente, del cibo.

Nel bazar intorno al tempio ci sono un sacco di pietanze strane da provare, in carretti e baracchini che sembrano poco raccomandabili ma che fanno del cibo delizioso. Basta stare attenti alle solite cose: guardare dove mangiano in locali, cibo preparato al momento, scegliere specialisti che fanno una sola cosa, ma bene.

Girando nelle stradine intorno al nostro albergo ho visto delle signore impegnate a cucinare qualcosa su delle grandi piastre roventi. Era il pane tibetano, una specie di focaccia morbida di cui mi sono innamorato subito. Da quella sera, almeno una volta al giorno ho fatto un giro in quell’angolo di Bodhgaya a comprarmi la mia pagnottina, al folle prezzo di 10 rupie (11 centesimi).

E nell’area del mercato un po' più lontano dal tempio abbiamo scoperto per caso un’altra chicca nascosta. Una sera abbiamo visto un baracchino con una piccola vetrina, piena di bellissime torte. Ci siamo ovviamente fermati per un dessert prima di tornare in albergo. Le torte erano buonissime, cucinate alla perfezione, le fette erano enormi, e costavano pochissimo. 

Bodhgaya è stata una delle nostre tappe più interessanti, e merita una visita da parte di ogni viaggiatore che si trovi nel nord est dell’India.

Fare del bene e stare bene: Sheroes Hangout

Stasera siamo andati a cenare in un posto molto particolare: Sheroes Hangout.

E’ un locale gestito da una cooperativa che aiuta donne sopravvissute ad attacchi con l’acido. Diverse di loro lavorano lì al caffè.

Il posto è molto carino per gli standard occidentali, per quelli indiani è proprio una cosa di un altro livello. Super pulito, ordinato, accogliente, senza tutte quelle soluzioni un po' “indiane” che abbiamo visto altrove.

Le ragazze e le donne che lavorano lì sono gentilissime, e non ti stanno tanto appresso per venderti qualcosa, un’altra piacevole novità durante il nostro viaggio in India.

Un bel posto dove mangiare e non solo

Abbiamo mangiato molto bene, e il cibo era molto saporito ma molto poco piccante. Immagino che per loro sia completamente insipido, ma per noi occidentali va più che bene.

Dopo aver mangiato la ragazza che ci seguiva ha chiesto se volevamo vedere un video che presentava l’associazione. Ovviamente abbiamo detto di sì, e ho visto che sarebbe durato 15 minuti. Sembrava un po' lungo...

Mi sbagliavo, sono passati in un attimo, era fatto molto bene e con l’obiettivo di colpire forte sui sentimenti. Bravi, ci sono riusciti.
Ecco il video, così potete capire anche voi.

https://www.youtube.com/watch?v=ZG2fvvcbnxc

Chiedono ad Alessia se vuole farsi henné sulla mano... dopo il video, e vista la sua grande passione, la risposta non poteva che essere sì.

Sempre la stessa ragazza, che abbiamo scoperto chiamarsi Manini, si è messa all’opera e in pochi minuti ha fatto una cosa molto carina.

Le abbiamo chiesto come ha imparato, pensando fosse un’attività che le era stata insegnata dall’associazione. La risposta: “ho guardato video su Youtube, ho iniziato a farlo sul mio braccio, all’inizio mi tremava molto la mano ma adesso ho imparato”. Che dire, non so proprio cosa altro avrei dovuto aspettarmi. Intraprendente e proattiva.

Chiacchierando con Manini

Mentre Manini disegnava decorazioni sulla mano di Alessia abbiamo chiacchierato un pò.

Altri che sono stati al locale hanno scritto e detto di storie commoventi che si sono fatti raccontare. Un po' li invidio, io non sono stato capace di andare a chiedere cose così delicate.

Le abbiamo chiesto della sua vita di adesso, di come sta e cosa fa.
E così abbiamo chiuso su una nota molto positiva.

Se passate per Agra tenetevi da parte un pochino di tempo. Ci sono tante cose da scoprire oltre al Taj Mahal, e una piccola perla è sicuramente questa associazione e il Sheroes Hangout.

Queste sono le indicazioni Google Maps.

E qui c'è il loro profilo Instagram.

Il viaggio della speranza verso il Nepal

Dopo 3 mesi in India è tempo di uscire dal Paese, per motivi di visto. Eravamo a Varanasi, e abbiamo deciso di andare in Nepal via terra. 

Basta prendere un treno per Gorakhpur, poi uno dei tanti autobus che vanno a Sonauli, e da lì passare il confine a piedi è una passeggiata.

Questa è la teoria. La pratica ha mandato tutto all’aria prima ancora di lasciare Varanasi. Questa è la cronaca del nostro viaggio della speranza.

L’ultimo giorno a Varanasi, inizia la lunga attesa

La prima parte del viaggio è stata la più piacevole. I piani erano passare le ultime ore a Varanasi in relax, e così abbiamo fatto. Siamo andati ai ghat a vedere l’alba, abbiamo fatto colazione, poi doccia, bagagli, check out. Alla fine siamo andati in uno dei nostri cafè preferiti, il Mona Lisa, e ci siamo messi comodi ad aspettare.

Da lì i piani hanno iniziato a cambiare, perché il treno ha continuato ad accumulare ritardo. Doveva arrivare tra le 12 e le 13, ma mentre la mattina scorreva via il ritardo ha superato le 6 ore, ed era solo l’inizio…

Noi eravamo in comoda attesa al cafè: potevamo scrivere, dipingere, leggere, rilassarci, mangiare cose buone, e così siamo rimasti per tutta la mattina, e poi per tutto il pomeriggio

Rintanati in stazione dei treni a Varanasi

Verso le 19, più di 8 ore dopo del previsto, decidiamo di andare ad aspettare in stazione. Già nel piazzale antistante ci sono scene abbastanza apocalittiche, con gente distesa a dormire e aspettare su ogni metro quadrato libero. 

Ci facciamo strada e decidiamo di aspettare in una delle sale d’attesa a pagamento. Non sono lussuose per i nostri standard ma hanno dei posti a sedere vagamente comodi, dei bagni dedicati, e non rischiamo che arrivino dei soldati con fischietto a scacciarci.

Da lì inizia la lunga attesa. Alessia cerca di stare tranquilla, io mi metto a scrivere più che posso, un po’ per distrarmi un po’ perché preferisco cercare di stare attivo e fare qualcosa di utile. Sulle 21 ci mangiamo il pane e formaggio che ci siamo portati dalla città.

Le ore continuano a passare, il ritardo continua ad aumentare, la gente inizia ad ammassarsi anche in sala d’attesa. Alessia prova a dormire in qualche modo, io continuo a scrivere e tenere d’occhio la situazione.
Abbiamo pagato per 2 ore. E poi per altre 2 ore. E poi per ALTRE 2 ore…

Salire su un treno indiano affollato

Finalmente, verso le 2 di notte, il nostro treno arranca faticosamente in stazione. Siamo pronti ad attenderlo alla banchina, e siamo un pò bravi e fortunati: siamo vicini al nostro vagone. Non basta per stare tranquilli.

Quando il treno è quasi fermo la folla si agita e parte la ressa. Tutti che vogliono salire subito, senza neanche aspettare che chi deve scendere se ne vada. Tutti che spingono, spintonano, sgomitano. Le vecchie signore sono le peggiori.
Ci troviamo un po' separati, ma più di tanto non possiamo allontanarci, e non ci perdiamo di vista perché siamo molto più alti della media. A parte questo, è una bolgia infernale.

Per qualche motivo sono molto zen e non mi sento né arrabbiato né altro, forse troppo stanco, o forse Varanasi e l’India mi hanno cambiato un pò. Essere zen non mi impedisce di farmi strada con le buone e con le cattive. Alessia viene aiutata da un soldato che prova a mettere ordine, e ogni tanto essere europei aiuta. Poi trascina dentro anche me, e finalmente possiamo cercare i nostri posti e lasciarci la folla alle spalle.

Qualche minuto dopo, dal nostro finestrino, guardiamo gente che rimane a terra mentre il treno riparte. Ci sistemiamo alla meno peggio, ci copriamo per proteggerci dall’aria condizionata sparata al massimo, e proviamo a dormire un pò.

Il treno più lento del mondo: 5 ore, 20 km, eravamo più veloci a piedi

Dopo qualche ora di sonno agitato e poco riposante, ho aperto gli occhi poco dopo le sette.  Se tutto è andato come previsto dovremmo essere vicini a Gorakhpur, destinazione finale del treno.

Google Maps spegne presto le mie speranze, come un iceberg che casca su un lumino da chiesa… Il treno non è neppure riuscito ad allontanarsi da Varanasi in modo decente. Sono passate 4 o 5 ore, e avremo percorso sì e no 20 km… Il ritardo registrato è ormai salito oltre le 18 ore. 

Guardo fuori e vedo che ci muoviamo quasi a passo d’uomo, e ci fermiamo ad ogni piccola stazione, quando invece dovremmo tirare dritti.
Guardo in giù verso la cuccetta di Alessia, e stiamo pensando la stessa cosa: sarà un lungo viaggio…

La lenta strada verso Gorakhpur

Da svegli ci siamo messi comodi (per quanto possibile) e abbiamo sopportato la lunga attesa. Il treno ha iniziato ad andare un po' più veloce, ma comunque la destinazione era distante diverse ore.

Ad una stazione ho anche provato a scendere di corsa per comprare qualcosa da mangiare. Naturalmente non ci sono riuscito: troppa gente, e troppa paura di restare a terra. Abbiamo dovuto arrangiarci con le nostre razioni di emergenza.

Dormire con l’aria condizionata al massimo non mi ha fatto molto bene, e mi sento tutto raffreddato e intontito…

Alla fine siamo arrivati a Gorakhpur verso le 13, avremmo dovuto arrivare alle 18… del giorno prima. Stanchissimi, senza forze, con ancora tanti passaggi da fare per arrivare al confine, decidiamo di non continuare subito ma di fermarci lì.

Riposo a Gorakhpur (12 ore di sonno)

Abbiamo così passato una mezza giornata nella ridente Gorakhpur. Non abbiamo fatto molto. Abbiamo riposato un po' sulla terrazza del posto dove abbiamo dormito, che era una casa privata che ci ha messo a disposizione una camera.

Poi siamo andati a mangiare qualcosa in una specie di fast food indiano. Tutto molto colorato, tutto molto pulito, tutto molto illuminato. Anche il cibo era molto buono, ci siamo ingozzati di cose nuove ordinate un po ' a caso.

Torniamo in terrazza, ma con il sole che cala arrivano le zanzare, e non riesco più a tenere gli occhi aperti. Ce ne andiamo a letto prima delle sei, con l’idea di svegliarci più tardi e mangiare un paio di banane per cena.
Alle nove apriamo gli occhi, ci giriamo dall’altra parte, e continuiamo a dormire a oltranza.

Viaggio verso il confine India-Nepal

La mattina dopo, nonostante circa 12 ore di sonno, non riusciamo a trovare la volontà di alzarci alle 5, ci riproviamo alle 6. Andiamo alla stazione del bus e ci carichiamo sul primo che va verso Sonauli, la cittadina sul confine indo-nepalese.

Il bus è… pittoresco, ma abbiamo i nostri posticini in ultima fila, vicini al finestrino. L’autista sa il fatto suo e si fa strada con perizia, anche se sui rallentatori non si ferma. Ogni tanto arriviamo veloci e voliamo in aria prima di ricadere sul sedile. Altro che montagne russe: un autobus per Sonauli ti offre la stessa adrenalina per una frazione del prezzo.

Io dormicchio per la maggior parte del viaggio, nonostante caos, scossoni, salti. Alessia guarda fuori dal finestrino, e vede scenari di povertà che è difficile immaginare, con gente che vive in ruderi e case diroccate, paesini spersi senza la minima attrattiva, e tanta gente che vive ai margini della strada tirando avanti in qualche modo.

Passiamo il confine tra India e Nepal a Sonauli

Dopo 3 ore di viaggio arriviamo a Sonauli e scendiamo in questa cittadina abitata da gente che cerca di venderti qualcosa, fregarti in qualche modo, o entrambe le cose.

Cambiamo le ultime banconote da 500 rupie in dollari, perdendoci un sacco. In teoria è obbligatorio entrare in Nepal senza rupie in banconote di grosso taglio, in realtà non gliene è fregato niente…
Facciamo il nostro timbro di uscita, camminiamo fino al grande arco che segna il confine. Lasciamo i nostri dati alla parte indiana, e finalmente proseguiamo e siamo in Nepal!

Poco distante c’è l’ufficio per fare le carte di ingresso, e con un po ' di pazienza e di preparazione precedente riusciamo a fare tutto. Aiuta il fatto che gli uffici sono deserti, siamo gli unici “clienti”.

Disavventure nepalesi appena arrivati

Da lì in poi dovrebbe essere tutto facile, ma ovviamente non può essere così.
Primo obiettivo: procurarsi un po’ di rupie nepalesi. Il primo ATM rifiuta tutte e tre le carte… proseguiamo fino al secondo, ma il risultato non cambia.
Come fare?

Ci facciamo portare alla cittadina più avanti, pagando con le rupie indiane di piccolo taglio. Da lì andiamo a esplorare fino a che non troviamo un altro ATM, nascosto dentro un edificio pieno di negozi, e finalmente abbiamo dei soldi.

L’autobus sottodimensionato per Lumbini

Andiamo alla fermata del bus che porta a Lumbini, la nostra destinazione finale della giornata. Il bus è praticamente pronto a partire, quasi pieno, infatti resto in piedi.
Come si capisce che un bus è nepalese? Se è fatto per i nepalesi, che normalmente sono un paio di spanne più bassi di me. Così se provo a stare dritto la testa mi sbatte sul tetto…

Poi mi trovano un posto a sedere e il viaggio prosegue tranquillo, con le solite corse pazze ma c’è poco traffico e la strada è abbastanza comoda.

Arrivo a Lumbini e fine della grande avventura

Finalmente arriviamo a Lumbini, e veniamo scaricati a poca distanza dal nostro albergo. Sono circa le 15. Contando la nostra attesa a Varanasi ci abbiamo impiegato circa 52 ore. Una grande avventura, sicuramente più romanzesca ed emozionante di un banale volo aereo che ti fa arrivare a Kathmandu in 45 minuti.

Impressioni di New Delhi in 10 parole chiave

Abbiamo iniziato il nostro viaggio a New Delhi. Più di una persona mi ha consigliato di starci il meno possibile, e anche online c'erano consigli di questo tipo.
Dicono che ha un impatto troppo forte, che è "troppa" per qualcuno che è appena arrivato in India. Abbiamo deciso di fermarci lo stesso qualche giorno e immergerci subito in tutto quello che l'India offre, anche se è difficile da digerire. Credo che il consiglio sia giusto: atterrare da casa a New Delhi è difficile. Ma è stata anche un'esperienza di cui non mi pento. E magari così tutto quello che troveremo più avanti ci sembrerà più facile.

Come posso rendere l'idea di una megalopoli da 30 milioni di abitanti che contiene così tanto di tutti: persone, vite, attività, cultura, storia, brutture, speranze...? Non penso certo di poterlo fare dopo esserci stato cinque giorni. Ma ho scritto alcune parole chiave che mi vengono in mente pensando a New Delhi, che aiutano a fare una piccola mappa mentale, una incompleta, semplificata rappresentazione che però può essere lo stesso interessante.

New Delhi è... estremi

E' la prima cosa che mi viene in mente. Arrivare a New Delhi vuol dire uscire da un aeroporto abbastanza moderno, prendere la strada e vedere Tuk Tuk, camioncini sgangherati, mucche, auto ammaccate, Suv. Ai lati si alternano catapecchie, cumuli di immondizia, alberi tropicali, giardini curati recintati con il filo spinato.

E il resto della città continua su questo tono.
Vedi una povertà da non crederci.
Vedi i viali dritti e alberati vicino agli uffici governativi.
Vedi la gente che vive per strada.
Vedi tanti veicoli elettrici, dai tuk tuk agli scooter.
Vedi i cumuli di rifiuti ad ogni angolo, anche alti come te.
Vedi una metropolitana migliore di quelle italiane.
Vedi le strade che passano allo sterrato anche al centro della capitale...

Sembra una contraddizione continua, un cumulo di paradossi e antitesi, e ti trovi disorientato come se non capissi che cosa stai vedendo, che cosa dovresti pensare.

New Delhi è... rumore

Questa è la prima verità che capisci, e che le foto non ti mostrano. New Delhi è un muro di suono continuo, incessante, mutevole, cacofonico, impossibile da ignorare.

Tutto fa rumore, tutti fanno a gara per farsi sentire nel frastuono. I clacson sono una sinfonia, dal camion all’ultimo dei risciò tutti lo usano in continuazione, comprese versioni personalizzate e taroccate per decibel massimizati.
Tutti sembrano avere capacità vocali da tenore, con voci che si proiettano a grandi distanze e che senti a decine di metri di distanza. E poi i lavori in corso, il carico e scarico di merce, i motori, i bambini che giocano, i petardi…

E la musica. La musica che sembra essere dappertutto. Sembra sempre ci sia una festa, o una cerimonia, o una processione che richiede musica al massimo volume possibile.

Non sono mai stato in una situazione così rumorosa, così a lungo.

New Delhi è... insonne

Il rumore non smette mai. Giorno, notte, alba, non fa differenza. 

Fino a notte fonda ci sono i rumori della strada, i petardi e la musica. La mattina presto (ma presto davvero) già si sentono le serrande che si alzano, i primi clacson, le prime voci. Perché anche se sono le quattro di mattina agli indiani piace parlare con la voce sparata al massimo, e salutare l’amico che vedono dall’altra parte dell’isolato…

Sentivo questi rumori dalla camera del nostro ostello, che era anche in una stradina abbastanza isolata. E così sentivo questa città che non dorme mai, dove a tutte le ore c’è un sacco di gente in giro.

L’ultimo giorno siamo usciti alle cinque del mattino per prendere il treno. La strada era già piena di gente che iniziava a spostarsi, paragonabile alle strade del centro di Treviso in un pomeriggio qualsiasi. E la strada davanti alla stazione era già un ingorgo di auto e tuk tuk, bloccati in una colonna caotica che si estendeva fino a chissà dove. 

Insomma, non andate a New Delhi con l’idea di dormire facilmente.

New Delhi è... traffico

Stavo dimenticando un punto importante, anche se abbastanza ovvio. Il traffico di New Delhi è una cosa difficile da immaginare, e difficile anche da vivere.

Tantissime persone, in poco spazio, tutti che si devono muovere. Risultato: le strade sono una giungla, una bolgia infernale dove sembra impossibile farsi strada.
La segnaletica non vale neanche come suggerimento, i sensi di marcia sono ignorati, la distanza di sicurezza è un segno di debolezza, e dare la precedenza è un segno di mancanza di mascolinità.

Gli autobus e i camion sono lenti e ondeggianti, ma almeno viaggiano abbastanza regolari. Le auto sono aggressive alla guida e si fanno strada a colpi di clacson, ma più di tanto non possono correre.
Ma se a questo aggiungi tuk tuk, moto e scooter, ecco che riempi ogni centimetro di asfalto possibile. Anche se sembra impossibile, loro si infilano da qualche parte e in qualche modo. Magari salgono sul marciapiede, o si allargano contromano. Così, senza guardare e senza problemi.
E per completare il quadro si aggiungono i mezzi accessori: un po' di biciclette, carrettini tirati a mano, carretti tirati da cavalli...

Poi in qualche modo tutti arrivano a destinazione. Non abbiamo mai visto un incidente, neppure un piccolo urto.
Tutti tagliano la strada, ma quelli intorno si fermano e lasciano passare (con malagrazia). Prendi un tuk tuk a New Delhi ed è come andare in giostra: adrenalinico, magari spaventoso, ma alla fine non sei tu che guidi. Tanto vale prenderla con filosofia e divertirti per tutta la corsa.

New Delhi è... sporco

Credo di non stupire nessuno dicendo che New Delhi è una città sporca.

Lo sapevo, mi ero preparato mentalmente. Non è servito del tutto. E’ molto, molto, molto sporca. Se siete schizzinosi le strade della città (e dell’India in genere) non saranno una prova facile da superare.
Per terra trovi veramente di tutto. Il concetto di gettare le immondizie nel cestino è poco diffuso. Ci sono tante mucche e tanti cani dappertutto, con conseguenze immaginabili. Gli indiani stessi masticano il paan (uno stimolante naturale) e poi lo sputano a terra dove capita. Scaracchiare e scatarrare è la regola. I netturbini fanno il possibile, ma gli sforzi sembrano concentrati nello spostare i rifiuti un po' più a lato.

Noi tendiamo a non farci tanti problemi, ma in questo viaggio dovremo raggiungere nuovi livelli.
Se non altro dopo una giornata così è più facile passare sopra al livello di pulizia dell’ostello.

New Delhi è... odori

Ecco un’altra verità che le foto e i video non ti fanno capire: a New Delhi sentirai degli odori che non ti lasceranno indifferente. E lo dico io, che sono cresciuto in campagna e andavo in giro per i campi nel periodo della concimazione. Visto quello che ho scritto sopra, non c’è da stupirsi. Ma è comunque qualcosa di inscindibile dall’impressione generale della città.

Ogni tanto arrivano folate di profumi interessanti: i fiori dei templi, ma soprattutto gli affascinanti profumi del cibo che viene cucinato e servito ad ogni angolo. Le spezie si fanno sentire e coprono per un po' gli altri odori, meno piacevoli.

New Delhi è... fatiscente

New Delhi ha una sua bellezza, ma non è certo una bellezza classica. Come si dice per non offendere: "non è bello/a, ma è un tipo".

Il centro di Delhi è fatto di palazzi fatiscenti: vecchi, mal tenuti, e non dovevano essere il massimo neppure quando erano nuovi.
Poi magari la sera si illuminano di festoni luminosi lunghi decine di metri, ma dietro le luci e i colori i problemi restano.
Scrostati, sbrecciati, scoloriti, danneggiati, mal rifiniti, mal costruiti.

Sembra sempre essere in riparazione, ma ogni intervento sembra fatto in modo da creare altri tre diversi problemi più avanti.
Un esempio: fili della luce tesi un po' a caso e dappertutto, a volte pendenti sulla tua testa, altri aggrovigliati l'uno sull'altro. Altro esempio: scavare con il martello pneumatico una canaletta sulla strada, senza prendere le misure o altro e creando un percorso a zig zag che sarà coperto chissà come.

New Delhi è... strada

La vita di New Delhi sembra si sviluppi tutta in strada. La gente sembra passare lì la maggior parte della giornata. Questo spiegherebbe come mai gli edifici e le case siano lasciate un po' andare, tanto ci passano poco tempo.
E così tutti si riversano in strada. Passeggiano, corrono, contrattano, mangiano, chiacchierano, guardano i negozi, si riposano, sgranocchiano snack… 

Le strade sono il vero centro vitale della città, i luoghi dove le cose succedono. Ad esempio abbiamo visto pochissimi bar o locali dove passare il tempo. Gli indiani mangiano velocissimi, quindi non passano tempo al ristorante. I negozi sono spesso dei buchi nel muro senza neanche una vetrina, quindi sono una continuazione della strada.

Per gli indiani la strada non è solo per spostarsi da un posto all’altro, la strada è il posto dove stare e dove essere.

New Delhi è... persone

La città è fatta dalle persone che la abitano. E’ vero per tutte le città, ma per New Delhi ancora di più.
Le nostre città, almeno le città d’arte, sono belle a prescindere. Se non ci fosse nessuno potremmo camminare in giro ammirando un sacco di cose belle. Venezia è l’esempio perfetto: meno gente c’è in giro, più esce il suo fascino.

Per New Delhi vale l’opposto. Se togliamo la gente dalla città rimane una distesa aggrovigliata di edifici fatiscenti, di sporco, di desolazione veramente deprimente. Ma se prendi questa landa desolata e la riempi di indiani ecco che diventa un turbinio di vita e di attività.

New Delhi è... energia vitale

Perché alla fine New Delhi è soprattutto energia vitale. La città non è fatta dai suoi monumenti, dai suoi edifici, e neanche dalla sua storia.

E’ una città di persone, di interazioni, di energia incontrollata. Tutto è dinamico, colorato, rumoroso, imprevedibile. Anche se hai fatto poco arrivi a fine giornata che sei esausto, fisicamente e mentalmente. Ma un po' ti viene voglia di tornare in strada anche il giorno dopo.






Varanasi, la città sacra che ti ammalia

L’ultima tappa dei nostri primi 90 giorni in India doveva essere qualcosa di speciale. Dopo aver girato il Rajasthan, il Gujarat, l’Uttar Pradesh ed essere passati anche per il Bihar, volevamo finire in bellezza prima di andare in Nepal.

E così, ovviamente, ci siamo fermati a Varanasi

Tappa a Varanasi: pochi giorni non bastano

Varanasi è la classica tappa di ogni giro in India che si rispetti, anche per chi ci passa solo 10 giorni o un paio di settimane. Abbiamo parlato con ragazzi italiani che hanno detto che sarebbero rimasti per 1 giorno e mezzo… Credo che con così poco tempo non puoi capire nulla della città. Vedi le cose, visiti i monumenti, e te ne vai. 

Ma Varanasi, anche più di altre città indiane, vive tutta fuori dalle attrazioni e dai giri turistici. E’ una città che richiede di essere vista e vissuta con molta calma, che si lascia scoprire solo un po’ alla volta, solo a chi ha la pazienza e la curiosità di andare un po’ oltre, un po’ fuori, un po’ di sbieco.

Nei nostri primi giorni ci siamo fatti delle gran camminate per vedere le cose più interessanti, come tutti. Ma ci siamo resi conto che 2-3 giorni non sarebbero bastati, e abbiamo deciso di rimanere di più. 
E’ stata una delle migliori decisioni che abbiamo preso durante questo viaggio.

Il Kumbh Mela

Durante le nostre esplorazioni, non abbiamo potuto fare a meno di fare una gita fuori porta. Dove? Oh, siamo solo andati al più grande festival religioso del mondo, che si tiene vicino a Varanasi solo 1 volta ogni 12 anni, e stavolta era un evento particolare che accade solo 1 volta ogni 144 anni.
Ogni singolo indiano con qui abbiamo parlato più di qualche minuto ci ha chiesto: siete andati al Kumbh Mela? Andrete al Kumbh Mela? Avete sentito parlare del Kumbh Mela?

A Prayangar, dove confluiscono 3 diversi fiumi, ogni 12 anni si tiene una grande fesat che richiama ogni volta decine e decine di milioni di fedeli. Per quest’anno sono privisti 400 milioni di visitatori. Gli indiani vanno ad immergersi nelle acque del Gange e dello Yamuna per lavare i peccati e fare altri riti collegati alla loro fede. Si riuniscono lì anche un sacco di sadhu, i santoni indiani. Ce ne sono di vario tipo, ma sono sicuro che quando hai letto “santoni indiani” il tuo cervello ti ha dato qualche idea.

Siamo andati anche noi, ed è stata… un’esperienza. Adesso sono contento di averla fatta, ma non la rifarei. E comunque ci ha impegnato per una lunghissima giornata, dalle prime ore del mattino fino a notte fonda, quando finalmente siamo riusciti a trascinarci fino al nostro letto.

Cambio ostello, cambio esperienza

Il primo ostello era moderno, comodo, in una zona tranquilla, abbastanza ben organizzato. Ma si trovava nella zona centrale della città, lontano dal fiume. 
Quando abbiamo deciso di restare più a lungo non avevano camere libere, e quindi abbiamo prenotato in un altro ostello, questa volta molto più vicino ai ghat, in una posizione molto centrale. 
Questa decisione nata dalla necessità ha cambiato completamente la nostra esperienza di Varanasi.

Il Mona Lisa Hostel si trova nella parte vecchia, nel dedalo di stradine strettissime e caotiche che si espande dalle rive dei ghat verso ovest. Si trova in una stradina chiusa e un pò defilata. La nostra camera era in alto, aveva finestre su tre lati e una visuale completa dei tetti intorno, e anche del fiume. Ce ne siamo innamorati, e Alessia ha già deciso che se (quando) torneremo dobbiamo assolutamente stare in quella camera.

Effetto Varanasi

Varanasi viene chiamata la città più antica del mondo; dagli indiani. Ma se stai a sentire loro l’India ha inventato tutto e ha fatto tutto prima degli altri, quindi prendiamola con un pizzico di scetticismo.
Dicono che sia la città più sacra, e sicuramente per loro è così. Tantissimi indiani con cui abbiamo chiacchierato ci nominavano Varanasi, quando c’erano stati, o quanto sarebbe loro piaciuto andare.

Dicono anche che è stata costruita secondo dei criteri precisi, per far fluire l’energia e per portare a benefici spirituali a chi vi abita e a chi passeggia per le sue strade.

La mia opinione: la vecchia Varanasi è stata costruita senza alcuna regola, con stradine minuscole e tortuose che non portano da nessuna parte, o che ti costringono a lunghe deviazioni. Venezia, in confronto, è un esempio di ordine e di precisione.

Alessia invece è rimasta completamente conquistata. Su di lei la città sembra avere avuto davvero una grande influenza, chiamiamola “effetto Varanasi”. Era più tranquilla, più serena, si muoveva in mezzo alla confusione e alla folla senza innervosirsi.

Forse alcune persone sono più sensibili di altre ai misteriosi effetti della conformazione della città. Anche io mi sono trovato molto bene, ma penso che sia stato a causa di un motivo molto più prosaico, legato al cibo, e di cui parlo meglio dopo.

Le nostre giornate pigre a Varanasi

Intorno a noi la città ribolliva di attività: migliaia, milioni di fedeli da tutta l’India erano in città prima o dopo la loro visita al Kumbh Mela, e anche alcuni residenti ci hanno detto che non hanno mai visto simili folle. Ovunque andassimo c’era gente che faceva di tutto: correva a destra e sinistra, mangiava, comprava, parlava, pregava, vendeva, gridava… I turisti stranieri passavano spesso in velocità, diretti ai ghat più famosi, o a lezioni di yoga, o a tour guidati. 

Noi, in tutto questo, abbiamo invece rallentato ancora di più il nostro girovagare. Le nostre giornate iniziavano presto, perché ci piaceva andare a vedere il sole che sorge sul Gange. Lo abbiamo fatto tre volte, più di tutto il tempo di viaggio e forse più di tutti i viaggi che abbiamo fatto.

Poi c’era la colazione. Forse il motivo per cui sono stato così bene a Varanasi. Il nostro ostello era molto vicino a due cafè che offrivano pane e dolcetti di tipo europeo e fatti bene. Dopo mesi di dieta indiana sono stati manna dal cielo, e ne ho approfittato in maniera smodata.

E il resto della giornata?
Lunghe passeggiate per la città, mescolandoci alla folla ma senza la loro frenesia di andare da qualche parte. Esplorare le stradine della città vecchia, infilandoci in vicoli e passaggi strettissimi, e scoprendo sempre qualcosa di strano e interessante. Percorrere lentamente i ghat, osservare affascinati i fedeli indù fare i loro 1000 rituali, fare il bagno, accendere i lumini, pregare… Quando avevamo fame c’era sempre un buco che vendeva street food mai visto, ma (quasi) sempre delizioso. La sera un ultimo giro per le strade affollate, o per i ghat affollati, e poi potevamo rilassarci nella nostra bella camera.

Addio (arrivederci?) a Varanasi

Questi giorni a Varanasi sono stati alcuni tra i più sereni del nostro viaggio. Alessia non avrebbe mai voluto ripartire, se fosse stato per lei avremmo comprato la stanza in cui siamo stati. Siamo rimasti una decina di giorni, ci sono tanti turisti che in 10 giorni girano per tutta l’India. 

Ma alla fine siamo ripartiti. Stavano per scadere i 90 giorni e il visto ci obbligava a uscire dall’India, quindi siamo partiti verso il Nepal. Il viaggio da Varanasi al confine si è trasformato in un viaggio della speranza, ma questa è un’altra storia.

Darshan: il momento sacro indù che non ci aspettavamo!

Perché non ce l’aspettavamo? Perchè in entrambi i casi siamo capitati un po' per caso. La prima volta eravamo già dentro al tempio a curiosare, mentre la seconda volta siamo stati colpiti da una folla che si stava raggruppando davanti ad un tempio.

Ma partiamo dal principio. Che cos’è il Darshan?
Non lo sapevamo neanche noi fino a qualche giorno fa! Darshan significa “mostrare, apparire”, è il vedere con i propri occhi la statua della divinità o altri oggetti sacri importanti (qualcosa in più su Wikipedia, se interessa). Questa visione per gli induisti è un momento molto importante perchè credono che la divinità sia presente nell’immagine e vederla permette loro di ricevere le benedizioni divine.

E questa forte convinzione l’abbiamo vista con i nostri occhi.
Nei darsham che abbiamo visto i fedeli si dispongono davanti a una tenda, quasi un sipario, e attendono pazienti. All’improvviso parte una musica assordante che si mixa al boato delle urla della folla in attesa, che si ammassa alle transenne per essere più vicina e vedere meglio l’immagine sacra. Sembra quasi di essere ad un concerto

Mani alzate al cielo, urla di preghiere o mantra a noi incomprensibili, lanci di petali di fiori verso l’immagine sacra. Il tutto accompagnato dalla musica, un mix di tamburi e altri strumenti indiani che non molla un attimo e riempie di suoni tutto il tempio. 

La prima volta vediamo tutto questo dalle ultime file, dove chi non si ammassa “sotto al palco” prega alzando le braccia al cielo o sdraiandosi completamente a terra.

Davanti alla divinità vengono fatti ondeggiare (secondo me con dei ritmi e dei movimenti definiti) degli oggetti come un candelabro, un oggetto piumato ed altri due che a distanza fatico ad identificare.
Più tardi alcuni dei fiori offerti vengono distribuiti alle donne nelle prime file, credo che siano stati benedetti dall’essere stati offerti alla divinità.

La seconda volta siamo più coinvolti. Si sale al tempio per una ripida scalinata e quando si aprono le porte vieni trascinato fino in cima dalla massa che spinge e non puoi far altro che lasciarti andare alla corrente. Dentro ci dividono tra uomini e donne. Curiosa vado avanti e mi trovo un posticino. Ovviamente sono l’unica occidentale e non passo inosservata, ma quello che ricevo sono grandi sorrisi e qualche domanda. Guardo dall’altra parte e vedo che anche Carlo è preso in chiacchiere.
Quando si aprono le porte dell’immagine il caos è totale, le donne si ammassano, i bambini (giustamente) piangono, io faccio un passo indietro per lasciar strada ma vengo presa e schiacciata lo stesso pure io. Ma anche questa volta mi lascio trasportare dalle cose. Ogni tanto aiuto qualcuna a farsi spazio o stacco un velo che si impiglia nelle transenne. Qualcuna mi fa cenno di andare anch’io davanti all’immagine, ma preferisco vedere “da fuori”, almeno per ora.
Carlo ha visto diverse persone “offrire” alla statua del dio confezioni di dolcetti. Li mostravano mentre erano lì davanti e poi proseguivano oltre, che le guardie erano severe.

Siamo usciti da queste esperienze un po' frastornati ma anche gioiosi.Mi aspettavo sicuramente qualcosa di più raccolto, forse perché io stessa associo la parola “sacro” a qualcosa di silenzioso. Ma non per gli Induisti. Loro esternalizzano la loro adorazione con estremo entusiasmo (a volte forse anche un po' troppo), con gioia, musica allegra e anche molti colori. Forse qualcosina dovremmo prendere esempio

Babu, il custode artista del tempio (Amber)

Eccoci alla terza puntata della nostra rubrica: “personaggi indiani”.

Questa volta parliamo del nostro nuovo amico Babu. Babu è uno squatter che vive in un antico tempio ed è un artista. Ma andiamo con ordine.

Lo abbiamo conosciuto mentre esploravamo Amber (o Amer), una cittadina vicina a Jaipur famosa per il suo forte, chiamato (senza troppa fantasia) Amber Fort. Ne parleremo di più in un altro post.

Amer è una piccola città, meno caotica delle altre che abbiamo visitato finora, con diverse cose molto carine. Mentre stavamo cercando una di queste cose, ecco che vediamo un tempio molto piccolo che sembra molto antico.

Veniamo invitati ad entrare, e per una volta decidiamo di provare a vedere.

Ci viene incontro un signore molto gentile di età indefinita, che ci ha portato un po' in giro a vedere il tempio. Siccome era molto piccolo ci abbiamo messo anche poco, ma è stato interessante.

Poi, come previsto, ci ha detto che lui vorrebbe mostrarci cosa fa per vivere: dipinge su vecchie cartoline. Vuoi non andare a vedere le opere di un artista dopo che ci ha fatto visitare il tempio?

E così ci troviamo a sedere nella camera da letto di questo signore. Da sotto il letto tira fuori un baule, lo apre, e inizia a mostrarci le sue opere.

Prende delle vecchie cartoline, o dei vecchi documenti, e ci dipinge sopra animali o dei con dei colori brillanti e dei pennelli di pelo di scoiattolo. E’ una cosa molto carina, e che non abbiamo visto da altre parti, quindi la ci piace molto. Alessia rimane affascinata, sembrano fatti molto bene.

Morale della favola: dopo un po' di mercanteggiare, ci troviamo in zaino tre cartoline.

Conclusa la vendita arriva il momento del chai. Il signore chiama una ragazza, che scopriremo essere sua figlia, che ritorna con le tazzine fumanti. Siccome ha sentito che Alessia ha poca voce, ha fatto aggiungere zenzero al chai, perché fa bene alla gola.

E così, sorseggiando tè bollente, facciamo due chiacchiere e conosciamo un po' meglio questo personaggio.

Si chiama Babu. E’ un soprannome, dice che il suo nome vero è troppo difficile per me. Lo pronuncia, gli do ragione.

Mi chiede di indovinare la sua età, sparo intorno ai 50, sbaglio di pochissimo... Ha 70 anni, secondo me portati benissimo.

Vive con buona parte della famiglia all’interno delle mura di questo piccolo tempio. Non sono stato a indagare, ma non credo che sia una sistemazione ufficiale. In India funziona così.

Lui tiene in ordine il tempio, fa entrare i fedeli che portano le offerte e chiedono benedizioni. Questo, dice, lo fa “per il dio”. Poi, per campare, propone ai turisti le cartoline che dipinge. Per farne una ci vogliono diverse ore, sono piene di dettagli molto piccoli. Turisti ne passano, anche se “non tutti i giorni”.

Oltre a lui ci sono la moglie di 1 anno più giovane, con cui quest’anno festeggia 50 anni di matrimonio. Ha 2 figlie più vecchie e 2 figli più giovani. Un figlio e una figlia vivono lontani, gli altri 2 vivono con lì.

Credo ogni famiglia abbia una stanza, abbiamo visto una minuscola cucina, e poco altro. Per il resto vivono all’aperto, nel cortile di questo tempio. Mentre stiamo per andare via stanno iniziando a fare un fuoco fuori per preparare la cena. C’è anche una bambina, la nipotina di Babu, molto sveglia e dagli occhi curiosi.

Salutiamo Babu e la sua famiglia prima che il sole tramonti del tutto. Ci lasciano andare con gran sorrisi, auguri di buon viaggio e auspici di un futuro ritorno.

Manini, la ragazza che ci mostra facce diverse dell’India (Agra)

Continuiamo la nostra rubrica "personaggi indiani che incontriamo nei nostri viaggi".
Oggi parliamo di Manini, che è già comparsa nel nostro post dedicato al Sheroes Hangout.

Le donne e le ragazze che sono lì hanno in comune una cosa: sono sopravvissute a un attacco con l'acido.

Gli attacchi con l'acido

Cosa succede in questi attacchi?
Qualcuno decide che quella donna ha fatto qualcosa con cui non sono d'accordo, e pensa che il modo migliore per reagire sia buttarle addosso dell'acido. Il risultato sono ferite dolorosissime, spesso invalidanti, e che ovviamente lasciano segni che si portano dietro per tutta la vita.

Quali sono i moventi che provocano una violenza simile?
Non fanno in maniera soddisfacente i lavori di casa. Hanno una propria attività invece di stare in casa. Non hanno ancora figli (non importa di chi è colpa). Non sono interessate a qualcuno che le fa la corte.

Chi sono i colpevoli di questi attacchi?
Il marito. Il padre. Varie combinazioni dei membri della famiglia, o della famiglia del marito. Compagni di classe, amici o colleghi respinti.

E' un crimine che viene commesso ancora molto spesso in India. Noi ricordavamo di averne sentito parlare mentre eravamo più giovani, e poi sinceramente non avevo sentito altro. Ma, come succede spesso con queste cose, il fatto che non ne sentiamo parlare non vuol dire che il problema abbia finito di esistere.

Come avevo scritto, nella nostra chiacchierata non siamo riusciti a chiederle le domande che magari le fanno tutti. Come è stata attaccata. Da chi. Se i colpevoli sono stati puniti (spesso non succede).
Siamo finiti a parlare del suo presente e del suo futuro.

La nuova vita di una sopravvissuta all'acido

Come è la vita di una sopravvissuta ad un attacco di acido?

Manini è entrata a far parte di Sheroes da circa 2 anni. L'associazione aiuta lei e le donne come lei ad affrontare la loro situazione, che di solito richiede un percorso complesso. Ci sono sostegno psicologico, assistenza medica, assistenza legale, e anche sostegno economico per avere di che sopravvivere nei casi più difficili.

Poi, oltre a sopravvivere, lavorano insieme per tornare a vivere. L'associazione offre loro corsi di formazione e opportunità di imparare skill utili per trovare un lavoro. E alcune di loro possono decidere di lavorare all'interno dei cafè che hanno aperto, come ha fatto Manini.

Ci ha detto che lavora al cafè 6 giorni a settimana. Sembra un bel lavoro: l'ambiente è tranquillo, amichevole, pulito, e le donne che erano lì sembravano andare d'accordo. Quando c'eravamo noi c'erano pochissimi clienti, e loro stavano a disposizione ma chiacchierando e ridendo tra loro.

Tra qualche giorno farà anche una piccola vacanza. Andrà a Jaipur, la Pink City, e voleva vedere il Palazzo dei Venti, probabilmente il simbolo della città. Jaipur è un posto molto bello, siamo sicuri che si sarà divertita molto.

E' all'interno dell'associazione da circa due anni, e si trova molto bene. Lo ha detto con un bel sorriso, che raccontava che non è sempre andata così bene negli ultimi anni.

Ci ha detto che non vede spesso la sua famiglia, ma la sente in videochiamata. Questo ci ha fatto capire che è in buoni rapporti con loro, quindi almeno non sono stati loro ad attaccarla. Per gli indiani la famiglia è importantissima, quindi almeno lei ha potuto mantenere questi importanti legami, al contrario delle sfortunate che sono state colpite proprio dalla famiglia.

La mamma le dice che al suo villaggio inizia a fare molto freddo. E' vicino alle montagne, verso il nord dell'India. Lei invece è ad Agra, dove l'inverno è come il nostro autunno, e preferisce le temperature miti che trova lì.

Non è stato facile per lei passare da un piccolo villaggio sperduto a una grande città come Agra, che conta 2 milioni di abitanti. E questo in aggiunta a tutti gli altri problemi. Ma adesso si è abituata, e non credo che tornerebbe indietro.

Cosa abbiamo imparato da Manimi

L'associazione, il documentario che abbiamo visto, tutte le donne presenti nel cafè dimostrano che si può sopravvivere anche a un attacco così devastante, e a essere felici anche portandosi dietro le terribili conseguenze fisiche e mentali.

Manimi ce lo ha mostrato con le sue parole, i suoi sorrisi, e con il tempo che ci ha regalato. Per me, è stato anche vederla mettersi in posa per la foto facendo la V con indice e medio della mano, come ho visto fare alle ragazze indiane che si fanno i selfie. Mi è sembrato di vederla comportarsi con naturalezza come se fosse una ragazza completamente normale, e penso che questa sia una sua grande vittoria.

Viaggio di 3 mesi nell’India del Nord: percorso, bilancio, ricordi

Sono passati ormai 3 mesi da quando siamo atterrati in India, in questo nuovo mondo che stiamo esplorando lentamente. Adesso siamo anche usciti dal Paese per passare un po' di tempo in Nepal, prima di tornare (motivi di Visa e permessi).

Dopo 90 giorni è tempo di bilanci e di pensieri sparsi.

Percorso di 3 mesi in India

Dove siamo stati? Queste sono le tappe principali:

  1. New Delhi 
  2. Mathura 
  3. Agra
  4. Jaipur 
  5. Bikaner 
  6. Jaisalmer 
  7. Jodhpur 
  8. Dilwara 
  9. Ahmedabad 
  10. Buhj 
  11. Udaipur 
  12. Bundi 
  13. Orchha
  14. Khajuraho
  15. Bodhgaya
  16. Varanasi

Ricordi speciali di 3 mesi in India

  1. vedere il Taj Mahal
  2. provare il cibo di strada indiano
  3. bere il lassi
  4. girare in un tuc tuc sgangherato
  5. chiacchierare con un indiano sconosciuto
  6. giocare con i bambini indiani
  7. assistere a un rito in un tempio indù 
  8. fare selfie con gli indiani come fossimo star di Hollywood
  9. fare un piccolo corso di artigianato indiano
  10. Vedere un film indiano al cinema
  11. andare nel tempio dei ratti
  12. fare S.E.O. in India
  13. stare fermi davvero
  14. farsi fregare da un tuk tuk
  15. imparare a cucinare un piatto indiano
  16. imparare dagli artigiani dell'India
  17. stare in un villaggio "estremo"
  18. farsi dare un passaggio
  19. prendere un treno notturno di notte: da Bhuj ad Ahmedabad, dalle otto alle due (e poi si cambia stazione per prendere un altro treno!)
  20. fare un corso di miniature
  21. conoscere bene un indiano
  22. mangiare cosa piccante da morire
  23. andare da un barbiere indiano
  24. dormire in una vera casa di campagna indiana
  25. vedere i templi di Khajuraho
  26. accettare inviti da sconosciuti.
  27. stare in treno una vita
  28. meditare sotto l'albero di Buddha
  29. giocare a frisbee agonistico con ragazzi indiani
  30. insegnare informatica a bambine indiane
  31. passeggiare per i ghat di Varanasi

Auto-intervista dopo 90 giorni in India

Ne è valsa la pena?

Carlo: a volte è difficile. Spesso è faticoso. Ogni tanto ci arrabbiamo. Ma questo viaggio mi regala dei momenti, e spesso delle intere giornate, che fanno dimenticare ogni problema.

Alessia: senza ombra di dubbio e lo rifarei altre mille volte. Tutte le persone incontrate, i sorrisi dei ragazzi, i colori, gli odori, la gentilezza, la libertà di prenderci i nostri tempi... si, ne vale la pena!

Se potessimo tornare indietro, cosa cambieremmo?

Carlo: con il senno di poi farei i bagagli in modo un po’ diverso. Mi sarei portato più vestiti invernali, avrei lasciato a casa alcune cose. 
Forse potevo fare meno ricerche organizzative, e più ricerche per capire come fare alcune esperienze più significative ma più impegnative.
Ma per più del 90% delle nostre decisioni non cambierei niente.

Alessia: avrei dato più spazio a letture e/o film riguardanti la cultura indiana. Ho letto qualche libro prima della partenza ma non abbastanza. Mi piace addentrarmi e conoscere il paese che visito, spesso mi informo durante il viaggio. Ma in questo caso avrei preferito sapere qualcosa in più prima. Ad esempio, tornassi indietro mi sarei informata di più sull'induismo a discapito di cose più "organizzative"

Non vi manca la vostra vecchia vita?

Carlo: mi mancano tante cose della routine che abbiamo lasciato in Italia. Le comodità, il silenzio, la nostra casa, gli amici, la famiglia, il gatto, il cibo italiano, passare tempo al PC… Ma niente di quello che ho detto è perduto per sempre. Abbiamo scambiato una situazione con un’altra, con vantaggi e svantaggi. Quando saremo stanchi torneremo a casa e ritroveremo tutte queste cose, con la differenza che le apprezzeremo ancora di più di prima.

Alessia: in questo punto siamo un po' diversi... io sono "scappata" dalla mia routine, quindi al momento non mi manca! Amo l'avventura ed il fatto che in viaggio ogni giorno sia diverso dal precedente mi rende viva. Mi mancano famiglia, amici, la gatta, ma non mi manca la casa come luogo fisico ne le varie comodità. Mi mancano le mie attività creative ma per ora non da farmi tornare a casa. In viaggio dipingo ed è ottimo modo per continuare a "creare". E chissà, magari in futuro inizierò a portarmi via qualcosa da ricamare! ;)

Non vi manca la vostra famiglia?

Ce lo ha chiesto Amrita, una delle ragazze che abbiamo conosciuto durante le nostre esperienze di volontariato. Per gli indiani la famiglia è tutto, e stare lontani solo per viaggiare deve sembrare una scelta assurda.

Carlo: rispondo come ho risposto a lei: amiamo viaggiare, e per ora questo viaggio ci sta dando tanto. La famiglia ci manca, ma stiamo facendo qualcosa di irripetibile, o quasi. 

Più avanti saremo più stanchi, la famiglia ci mancherà sempre di più, e a un certo punto la nostalgia di casa sarà più grande della voglia di continuare.

Alessia: la famiglia mi manca, mi mancano un sacco le mie nipotine!!!!! Ma non è ancora il momento di tornare... so che in qualche modo capiscono i motivi e soprattutto il nostro amore per il viaggiare. Questa esperienza ci sta regalando tante emozioni e sono sicura che se noi siamo felici anche loro lo sono per noi. Arriverà anche il momento in cui abbracceremo tutti!

Lo rifaremmo?

Carlo: per fare questo viaggio abbiamo preso delle decisioni abbastanza drastiche e sconvolto un po’ le nostre vite. Ci siamo lasciati alle spalle tante cose, e ci abbiamo speso dei mesi solo per i preparativi. 
Ma, se tornassimo indietro, lo rifaremmo di nuovo senza dubbi.

Alessia: mettere in pausa la propria "normalità" per 6 mesi non è poco... abitudini, lavoro, famiglia... Ci abbiamo investito tantissimo tempo e ancora più energie fisiche e soprattutto mentali. Non sempre è stato facile, anzi. Ci sono stati momenti di sconforto, di dubbi e paure. Ma non ho alcun dubbio, lo rifarei sicuramente! Le emozioni che provo ora sovrastano ogni paura.

Lo rifaremo?

Carlo: questa è una domanda leggermente diversa, ma basta a rendere diversa la risposta.
Mi piacerebbe fare altri viaggi come questo. Se davvero lo faremo dipende da tanti fattori, alcuni sotto il nostro controllo, altri no. Faremo del nostro meglio, e vedremo cosa succederà in futuro.

Alessia: non smetterò mai di viaggiare... e spero di replicare in un futuro! ;)

“Fortunati voi che potete permettervi di partire…”

Si, lo siamo ma non è solo una questione di fortuna!

Quando ho dato la notizia che saremmo partiti per qualche mese all'estero, le persone hanno reagito principalmente in due modi: chi ci ha sostenuto da subito e chi ci ha reputati degli incoscienti!

Ma c'era una frase che accomunava molte persone da entrambi i lati: "Beati voi che potete permettervi di farlo!"

È una frase che mi sono sentita dire spesso anche nel passato, quando raccontavo dei miei viaggi che facevo. E se devo essere sincera mi ha sempre un po' infastidita. Diciamocelo chiaro: i soldi non crescono sugli alberi per nessuno, e nemmeno per noi!

Non abbiamo famiglie ricche e quello che abbiamo ce lo siamo guadagnato con il nostro lavoro e le nostre scelte di vita.

Siamo sempre stati entrambi dei risparmiatori (dico solo che l'idolo di mio marito da piccolo era Zio Paperone!!). Fin da giovani non abbiamo mai investito troppo nelle cose "materiali" (casa, arredamento, abiti ecc). Non tanto perché volevamo spendere tutto nei viaggi ma perché eravamo noi fatti così!

Abbiamo lavorato parecchio negli anni (per me anche in lavori non apprezzati) e risparmiato.

Tutti i nostri viaggi passati e probabilmente futuri sono low cost (anche quello di nozze lo è stato! ;)). Guardiamo sempre eventuali offerte delle compagnie aeree, se viaggiamo per pochi giorni evitiamo il bagaglio a mano, dormiamo in ostelli, se possibile usiamo i mezzi pubblici ecc.  È una modalità che amiamo e che ci permette di risparmiare

E anche questo viaggio sabbatico non sarà diverso.
Ci abbiamo riflettuto per molti mesi.
Abbiamo creato piani economici per capire se e come potevamo permettercelo.
Abbiamo cercato delle modalità di viaggio e un paese che ci piacesse ma che potevamo anche permetterci.
Useremo delle piattaforme che ci permetteranno di fare qualche lavoretto o scambiare delle nostre competenze in cambio di vitto e alloggio (che oltre a risparmiare ti permette di entrare in contatto con le persone del posto).
Useremo i mezzi pubblici e non i drivers.
Mangeremo, per quanto possibile, nei posti più locali e non turistici...

Quindi a tutte le persone che mi dicono "fortunati voi" faccio un enorme sorriso e rispondo: "si, siamo molto fortunati, ma è anche il risultato delle nostre scelte in questi anni. E sono sicura che anche tu, se lo desideri davvero, lo puoi fare!"

Un abbraccio
Alessia

Ci hanno intervistato sul nostro viaggio

Alcuni giorni fa abbiamo fatto una chiacchierata con Andrea Cabassi a proposito del nostro viaggio in India. Andrea aiuta chi, come noi, sta pensando di prendersi un periodo sabbatico, normalmente per viaggiare. Abbiamo seguito il suo corso e ci ha aiutato in tante piccole cose con idee e consigli pratici per organizzare, risolvere i problemi, e soprattutto mantenere l'impegno per partire davvero.

Ecco l'intervista:

https://youtu.be/Bx4VEKuYlkQ?si=0nR2Qjb-XqWMAAQ3

Le domande più frequenti sul nostro viaggio

Quando vedevamo qualcuno partire per un lungo viaggio o indeterminato ci facevamo sempre mille domande... cosa andrà a fare? come si mantiene? come viaggerà per il paese?
E ora tocca a noi! Abbiamo raccolto qui le domande più frequenti che ci hanno fatto amici, famigliari, colleghi...

Avete un itinerario?

Un itinerario dettagliato e organizzato no. Abbiamo un'idea massima del giro e delle tappe che vorremmo fare, ma nulla di definito
Vogliamo viaggiare lentamente e farci trasportare dalle cose, dagli eventi e dalle persone.
L'idea è di trascorrere i primi 90 giorni nel nord dell'India. Partire da Delhi e poi spostarci nel Rajasthan, Gujarat e poi verso Varanasi. Usciremo dall'India e trascorreremo un po' di tempo in Nepal.
I secondi 90 giorni sono ancora più indefiniti. Dovremmo volare a Vijayawada, nell'Andhra Pradeshper, per incontrarci con un'associazione di volontariato di cui facciamo parte, trascorrere un po' di tempo insieme ai bimbi e poi... si vedrà. In base al meteo, alla nostra voglia di esplorare l'India del centro-sud decideremo se restare o perchè no, magari ci sposteremo in un altro paese... chissà!

Come viaggerete?

Come in ogni nostra avventura viaggeremo low cost con zaino in spalla! Dormiremo in ostelli, guest house, home stay e useremo delle piattaforme come Couchsurfing (scambio ospitalità) o Workaway (offerta di competenze/lavoro in cambio di vitto e alloggio). E' un modo per risparmiare ma anche per conoscere persone ed entrare in contatto con la cultura del luogo.
Viaggeremo lenti, con i mezzi di trasporto locali cercando di essere rispettosi dei luoghi che visiteremo
Viaggiare low cost non è solo una questione di budget, per noi è anche uno stile di viaggio, di vita!

Cosa farete?

Siamo aperti a tutte le novità e le esperienze che l'India vorrà offrirci!
Vorremo entrare in contatto con la cultura locale indiana, conoscere le persone del posto, le loro abitudini, tradizioni, le loro necessità, i loro valori.
Esploreremo il territorio con le sue strutture, i templi e anche la natura.
Vorremmo fare delle esperienze di volontariato (Alessia adora i bambini!)
E poi ci piacerebbe assaporare la cucina del luogo, imparare qualche piatto tipico, immergerci tra i colori delle stoffe, i lavori artigianali, il ricamo, la meditazione...
E poi chi lo sa... siamo aperti a tutto!

Avete già un volo di ritorno? Cosa farete quando rientrerete in italia?

Abbiamo un biglietto di sola andata il 5 novembre per Delhi!
Abbiamo lasciato i nostri lavori per partire e per ora l'unico obiettivo che abbiamo è il viaggio!
Non vogliamo pensare al nostro rientro perché non sappiamo quando avverrà con precisione e soprattutto non sappiamo al nostro rientro quanto saremo cambiati. Non sappiamo se avremo ancora le stesse passioni, se ne avremo altre, quali saranno le nostre necessità. Non sappiamo se vorremo la stessa vita di prima. Lo scopriremo a tempo debito. Per ora ci godiamo il viaggio, viviamo il presente!

Hai altre domande?

Se hai qualche altra domanda da farci scrivici! Mandaci un commento o contattaci sui social con una mail o un messaggio!
Ti basta cliccare qui.
Saremo felici di risponderti e condividere le nostre avventure! ☺️

L’ossessione degli indiani per le foto e i selfie

Nei nostri viaggi in India abbiamo visto mille volte la passione sfrenata che gli indiani hanno per le foto. Ad ogni angolo c’è qualcuno che si da un selfie, che scatta una foto, che maneggia una macchina fotografica professionale… Dopo un po’ mi sono messo a fare l’antropologo dilettante, e ho iniziato a studiare i loro comportamenti per poi scriverne sul blog. E gli indiani mi hanno dato un sacco di materiale di cui scrivere. 

Indiani e foto: grande passione, poca esperienza

Per gli indiani ogni scatto può diventare un set fotografico. Ci sono quelli che arrivano, fanno la foto e ripartono. Ma sono tantissimi quelli che invece ci mettono il massimo impegno ogni volta.

E così ovunque potete vedere indiani in posa davanti a qualunque punto di interesse, a fare mille prove e mille scatti in cerca di quello perfetto. E poi si mettono a controllare il materiale prodotto per essere sicuri che tutto sia riuscito al meglio. Non importa se c’è altra gente in coda che aspetta di fare la propria foto, loro si piazzano in mezzo alle scatole Alessia non sempre ha perdonato questa abitudine, e a volte ha pungolato questi aspiranti Helmut Newton in modo che non intralciassero le sue attività fotografiche.

Tanti, soprattutto tra le donne, vanno a visitare i monumenti vestiti a festa, con i loro abiti colorati e brillanti e magari i loro gioielli più belli. Alcune si portano proprio il cambio, per fare foto con diversi outfit. Poi sotto magari le scarpe sono scarpe da ginnastica orrende, ma dalle caviglie in su sono elegantissime. E non è una cosa limitata all'età. Le ragazze arrivano tutte tirate per fare le foto per i social, ma abbiamo visto tante signore e anche diverse nonne arrivare con vestiti tradizionali bellissimi per fare il loro shoot. 

Anche i monumenti e le autorità sono consapevoli di questa situazione. Tra le varie regole da seguire durante la visita al Taj Mahal c’è anche quella di non fare foto e video girando su se stesse o in altre pose da Instagram, che non è elegante. E anche altri templi e monumenti hanno cartelli “No Tik Tok” e simili.

Nonostante tutto questo impegno, spesso sembrano avere poca esperienza sulle regola base delle foto.

Raramente abbiamo visto degli indiani preoccuparsi di non fare delle foto controluce, e quindi tante volte si mettono con il sole alle spalle. Un errore da principianti.

Anche il soggetto delle foto a volte lascia perplessi. Certo, tutti fanno le foto davanti ai grandi templi e ai grandi monumenti. Ma servi anche fare foto alle stazioni della metro, a dei muri senza alcun elemento di interesse, ad edifici normalissimi? Abbiamo visto indiani che facevano foto alle cose più banali con lo steso impegno di chi inquadrava i monumenti più famosi.

I selfie che fanno sono tantissimi, ma spesso un po' improvvisati, e le teste vengono tagliate molto spesso. Poi a loro piace tanto usare gli effetti, così le foto sembrano più degli scatti a  bambole inquietanti che dei ritratti realistici.

Diciamo che gli indiani sono lanciatissimi nello scattare foto, ma non hanno molta esperienza nel fare le cose per bene. Hanno iniziato da poco ad avere la possibilità di farle, non come noi, che arriviamo da lunga storia di foto fatte con il rullino, le macchine fotografiche analogiche, le diapositive, gli occhi rossi, le foto di gruppo dove c’era sempre uno con gli occhi chiusi…

Gli indiani e la mania di farsi foto come fossero modelli

Andare in giro per le città dell’India vuol dire anche finire in una specie di mondo parallelo, dove un sacco di modelli e modelle posano in set fotografici ad ogni angolo di strada.

Questi modelli si concentrano nelle zone più pittoresche, ma li puoi incrociare in ogni momento, inaspettati. Possono essere nascosti in un angolo, o possono occupare la strada accompagnati da un codazzo di accompagnatori.

Gruppi e gruppetti di uomini indiani in giro a farsi foto a vicenda: tutto normale

Tra i più appassionati di foto ci sono sicuramente i giovani ragazzi. Spesso li abbiamo visto in giro a coppie, o anche in piccoli gruppi, a volte anche una decina. A volte almeno uno di loro aveva proprio una macchina fotografica professionale, una bestia che peserà un sacco, ingombrante e con un obiettivo che sembra un cannone.

Li abbiamo visti fare dei veri e propri safari fotografici, girare da un posto all'altro in cerca di angoli interessanti. Quando ne trovavano uno, partiva la serie di foto. Uno alla volta si mettevano nelle posizione ottimale e si trasformavano in modelli. Sistemata ai capelli, occhiali da sole sul naso (a volte diverse paia, da cambiare), via il giubbotto che non è elegante. Pose a guardare l’infinito, inquadrature di tre quarti, ricerca del profilo migliore. Gli altri componenti del gruppo lanciano le loro idee sulle possibili pose, su cosa sedersi, come inquadrare. Sembra che la prendano molto sul serio.

Non abbiamo mai visto niente del genere da parte delle ragazze. Forse per loro non è accettabile “mettersi in mostra” in quel modo.

Coppie indiane che si scambiano i ruoli di modello/a e fotografo/a

Anche le giovani coppie non sfuggono alla mania delle foto, anzi. Abbiamo notato che, rispetto a noi europei, tendono a farsi le foto a turno. Prima lui fa foto a lei che passeggia, che si mette in posa, che sale e scende scalinate. E poi è lei a fare le foto a lui mentre guarda l’orizzonte, o mentre incrocia le braccia al petto, o si appoggia a un muro incrociando le gambe.

Quasi mai fanno foto insieme, abbracciati o anche stando vicini. Credo non sia visto di buon occhio, specie se sono sposati. E se sono sposati quasi sempre avranno dei figli piccoli con loro, che rende il tutto meno romantico.

E mentre si fanno i loro servizi fotografici, il fotografo o la fotografa ci mette il massimo impegno. Sperimenta con l’inclinazione dell’obiettivo, manda indicazioni per le pose da provare, si sposta in cerca della composizione ottimale…

Servizi fotografici prematrimoniali indiani: una cosa seria

L’apice delle manie fotografiche gli indiani lo raggiungono nei servizi prematrimoniali. In quasi tutte le città, nei monumenti più scenografici, potete vedere sfilare coppie vestite in ghingheri e accompagnate da un piccolo plotone di accompagnatori. 

Anche qui si tratta di roba seria, massima organizzazione e professionalità. Le ragazze a volte si cambiano in strada, nascoste dentro una tenda montata per l’occasione. L’uomo intanto passeggia per la strada, tutto tiratissimmo e lucidissimo, e magari circondato di immondizia e sporco. L’antitesi tra l’eleganza spesso pacchiana e la miseria crea un effetto straniante che colpisce.

La coppia è seguita da due, tre o anche più fotografi, e altri accompagnatori con tanto di ricambi, coreografie e oggetti di scena. Faranno il giro dei posti migliori dei monumenti, a volte spostandosi per tutta la città. E ad ogni stop la carovana si ferma e tutti si mettono all'opera per creare lo scatto perfetto. C’è di tutto: foto illuminati da faretti e occhi di bue, camminate al rallentatore, colombi che si alzano in volo, finte scenette per la strada, pose seriose da un balcone…

Per il nostro matrimonio (tanti e tanti anni fa) ci siamo limitati a sgusciare via prima del ricevimento e fare una passeggiata per Asolo con un solo fotografo e i nostri testimoni… per gli standard indiani siamo stati davvero dei poveri sfigati.

Indiani che si fanno foto con gli occidentali

Molte delle informazioni che abbiamo raccolto sulle capacità di selfie degli indiani ci vengono dalle esperienze dirette. A loro piace un sacco fare foto insieme agli stranieri, e ogni giorno in India ci sono state un paio, una decina, centinaia di foto dove compariamo vicino a ragazzi, signore, bambini, giovani, famiglie, studenti…

Ognuno di loro ha il suo modo di farsi avanti, di chiedere, di fare la foto.

Le ragazze indiane quando chiedono di fare una foto con gli occidentali

Le giovani indiane sono interessatissime a fare foto con gli stranieri. Non si fanno troppi problemi a salutare Alessia e a chiedere una foto. Chiedono sempre ad Alessia, mai all’uomo. 

Poi la foto finirà in Instagram o sui social, ne siamo sicuri. Basta vedere come prima si sistemano e si mettono in tiro, e come aggiungono effetti anche un po’ pacchiani.

Poi ripartono ridendo divertite tra loro, come avessero fatto qualcosa di vagamente trasgressivo per la rigida morale indiana.

Gli studenti indiani quando chiedono di fare una foto con gli occidentali

Girando per monumenti e templi abbiamo incontrato tante scolaresche, decide e decine di bambini e bambine, tutti con la loro divisa colorata. Se venivamo avvistati c’era poco da fare: ci aspettava una lunga pausa. Sorridenti, entusiasti, curiosi, non vedono l’ora di parlare con due misteriosi stranieri. “what’s your name?”, “Where are you from?” e poi “Can we take a picture?”, e a quel punto sotto con le foto.

Le bambine puntano dritte ad Alessia e solo su di lei, i ragazzi su di me. La mia ignoranza sul cricket li stupisce sempre, così il discorso passa sulle città che abbiamo visitato. Ci tengono tantissimo a stringerti la mano: è evidentemente qualcosa che imparano in classe, spesso non sanno farlo molto bene, è sempre divertente vederli provare con grande impegno.

Dopo qualche minuto di solito arriva un maestro o una maestra a riportare l’ordine e a farli ripartire per la tappa successiva, così anche noi possiamo continuare le nostre esplorazioni.  

Le signore indiane quando chiedono di fare una foto con gli occidentali

Ogni tanto anche le signore di una certa età si fanno sotto per chiederci una foto. Alcune arrivano riservate e miti, alcune arrembanti e ridenti, e altre passano direttamente ad abbracciare Alessia ripetendo “Selfie? Selfie”.

Spesso sanno pochissimo inglese, e neanche ci provano a parlare con noi. Sono felici di avere la loro foto e ripartono ringraziando. 

Gruppi di ragazzi indiani quando chiedono di fare una foto con (le) occidentali

Una delle categorie più arrembanti sono i gruppi di ragazzi e di giovani uomini che vanno in giro per le città. C’è sempre almeno uno di loro che sa l’inglese abbastanza bene da farsi sotto e presentarsi, farci un paio di domande, e poi chiedere una foto insieme. A quel punto inizia un valzer di personaggi, uno alla nostra destra e uno alla nostra sinistra. Uno fa le foto, e ogni volta che segnala che è venuta bene, ecco che si fanno sotto altri ragazzi e si danno il cambio.

Se poi una degli stranieri è una ragazza, magari con la pelle molto chiara, e con i capelli rossi e corti, ecco che diventiamo un bersaglio irresistibile. Alessia non passa mai inosservata, e io di solito sono un po’ invisibile. A volte cercano di fare le foto direttamente con lei. Scherzando diciamo che sarà stata mostrata in giro come “fidanzata straniera” di un sacco di ragazzi.
A volte lasciava correre, altre volte pretendeva che nell'inquadratura ci fosse anche il sottoscritto. Però tutti i ragazzi sono sempre stati molto corretti, e bastava una parola perché si tirassero indietro con tante scuse. 

Le famiglie indiane quando chiedono di fare una foto con gli occidentali

Con le famiglie a volte arriva da noi il padre, a volte la madre. Quando siamo stati agganciati ecco che chiamano il resto della famiglia, e a volte possono essere anche una decina di persone. Segue un certo trambusto per metterci tutti in posa e stare nell'inquadratura. Se c’è il tempo e la pazienza parte anche la girandola dei cambi: prima noi con i genitori, poi con mamma e figli, poi papà e nonni, e via con tutte le combinazioni possibili.

Se la famiglia è piccola, di solito i genitori ci tengono tantissimo a fare foto dei loro figli insieme agli occidentali. Magari una in posa, una mentre ci stringiamo la mano, e via. Quando sono piccoli molto spesso sono spaventati, e a volte non c’è verso. Poveri pulcini, terrorizzati dagli sconosciuti strani e bianchi!

Considerazioni sulla mania degli indiani per le foto e la loro immagine

Questa sezione ha un titolo molto lungo ma in realtà non ho molto da dire. In questo post mi sono limitato a raccontare quello che ho visto con i miei occhi. Non ho analisi da fare, o perle di saggezza da dare.

Solo i fatti: agli indiani piace un sacco farsi le foto, farsi selfie, anche se magari non sono molto bravi, e gli occidentali sono un oggetto di scena perfetto per le loro foto. Sicuramente è molto divertente osservarli mentre fotografano, e consigliamo a tutti di non sottrarsi quando si fanno sotto per un selfie. Basta poco per farli contenti, e ti sembra sempre di essere una star del cinema.

Lo street food a Varanasi

Varanasi è una città bella, misteriosa, seducente, magica, spirituale, sconvolgente, sacra… Tutto vero, tutto interessante. Ma non dimentichiamo che è anche una città che offre tantissime opportunità gastronomiche. Insomma, si mangia proprio bene. 

Qui non voglio parlare di ristoranti o di altri posti tradizionali. Il meglio di Varanasi lo trovate quando siete in strada, in alcune delle mille e mille bottegucce e bancarelle di street food.

La strada dello street food a Varanasi

Nelle nostre esplorazioni gastronomiche abbiamo trovato una strada con un’offerta particolarmente ricca di delizie e strane pietanze mai viste prima. Anzi, in realtà è un tratto di una delle strade principali di Varanasi, che porta alla zona del tempio Shri Kashi Vishwanath.
Per qualche motivo verso la fine cambia nome due volte, ma nel tratto principale si chiama Ramapura Luxa Road. E’ una strada molto larga, e molto trafficata. Sapete che state arrivando nella zona giusta quando la folla si fa sempre più grande e fitta.  
Cosa trovate di buono in questa strada? Di tutto!

Per prima cosa vi consiglio di arrivare fino al Keshari Restaurant, uno dei ristoranti più vecchi e conosciuti di Varanasi. Ma non andrete lì a mangiare. Il ristorante si trova al primo piano, e non è neanche male: elegante, buono, abbastanza economico. Ma la parte più interessante si trova al piano terra, dove hanno organizzato una catena di montaggio di cibo di strada di tutti i tipi.
Troverete diverse postazioni che creano specifici piatti, e in fondo la cassa dove potete pagare e ricevere in cambio un gettone. Con il gettone vi fate strada tra gli altri avventori (gli indiani non capiscono il concetto di “fila”) e in pochi secondi vi consegnano un piattino pieno di delizie strane e piccanti, con un paio di salse sopra per non farsi mancare niente. Raj Kachori Chaat, Basket Chaat, Aloo Tikki Chaat, Tamatar Chaat, Papri Chaat... Ci sono una decina di opzioni di chat o chaat, un termine che significa snack o spuntino. Costa un pochino di più che prenderlo da altri posti, ma si parla comunque di mangiare con meno di 1 euro, e andate sul sicuro in termini di pulizia e ingredienti.

A proposito di chat, dal Keshari Restaurant potete tornare indietro, verso ovest, e dopo qualche centinaio di metri troverete il Kashi Chat Bhandar. Sono specializzati in chat e cibo di strada. Menu fisso, una decina di piatti diversi (i nomi sono quelli del Keshari), di solito sono diverse combinazioni degli stessi ingredienti base. Può sembrare un po' l’incubo dei NAS, ma è sempre pieno di locali che si fermano a mangiare, e questa di solito è garanzia di qualità.
Anche qui fatevi strada fino al ragazzo che raccoglie gli ordini e fatevi sotto soldi alla mano, altrimenti vi passeranno tutti avanti. Un piattino ve lo portate via anche a 50 centesimi, quindi potete anche provarne due o tre.

Dopo aver sperimentato con piatti piccanti, magari è il momento di provare qualcosa di dolce, e che magari aiuti anche la bocca in fiamme. Continuate ad andare verso ovest, e dopo circa 200 metri troverete il PDR Mall, un centro commerciale con tanto di cinema.
Più o meno di fronte ci saranno alcuni negozi che vendono lassi, una specie di yogurt molto cremoso, con aggiunta di altri ingredienti come frutta secca a renderlo una delizia. Fa bene contro il piccante, ed è pieno di fermenti lattici che aiutano lo stomaco a digerire. Quindi fa bene, e questa è la mia scusa per fare il pieno ogni volta che è possibile. Il lassi viene fatto mescolando gli ingredienti in grandi pentole, direttamente in strada, quindi è sempre freschissimo. 

Se prima volete un’ultima prelibatezza salata, uno dei posti a fianco dei venditori di lassi prepara diversi snack fritti, samosa, ma anche una specie di patata insaporita di spezie e poi fritta. Sono buonissimi, c’è quasi sempre la coda, ma se ti fai strada ne mangi uno con 20 centesimi di euro.

Lassi “di strada” o Blue Lassi?

Parlando di lassi a Varanasi bisogna anche parlare del più famoso della città, e forse di tutta l’India. Blue Lassi è un’istituzione a gestione familiare ormai da tre generazioni (il ragazzo che fa il lassi è nipote del fondatore). Ne parlano tutti, dai blog alla Lonely Planet.

Si trova in una stretta stradina nella zona del tempio, e passando potreste non vederlo se fosse per la massa di gente che trovate a tutte le ore del giorno, in attesa della loro ciotola di lassi. E’ molto costoso, circa 1 euro mentre in giro per Varanasi lo trovate mediamente a 50 centesimi, ma è davvero buonissimo.
Consiglio di provare entrambi, per quello che costano sono due esperienze che vale sicuramente la pena fare.

Si trova nella zona del tempio, nel pomeriggio tendono a formarsi assembramenti di fedeli che aspettano di visitare il tempio, e arrivare fino al Blue Lassi può essere complicato. 

Street food meno conosciuto a Varanasi

Se volete continuare a sperimentare, ecco un paio di proposte per street food particolari di cui parlano in pochi.

In diverse zone della città ho visto dei piccoli baracchini, davvero un banchetto lungo 1 metro e poco più, che vendono momo. I momo sono dei fagottini pieni di verdure o di altro, una specie di ravioli più grandi e fatti al vapore, tipici del Nepal

La versione indiana prevede di spolverare i momo con un mix di spezie rosso brillante, rendendoli super piccanti. Per un nepalese deve essere come mettere la pizza sull’ananas, ma a me sono piaciuti, è qualcosa di diverso sia dal cibo indiano che dai momo nepalesi “veri”.

E se avete voglia di qualcosa di meno estremo, potete provare a trovare Kaji Rupan Rotiwale. E’ un buco di laboratorio in una stradina nella zona vecchia di Varanasi, un po' fuori mano.
Sforna a ritmo continuo delle pagnotte piccoline e con dei buchetti sopra: è il pane shermaal. Le pagnotte sono molto buone, le potete mangiare appena sfornate, e ovviamente costano poco o niente.

Il ragazzo che gestisce il laboratorio ci ha detto che è un cibo tipico di Varanasi, e ovviamente le sue sono le migliori della città. Anche lui è la terza generazione a gestire l’attività, che è aperta da più di 70 anni e ha anche alcuni negozi in altre parti della città. 

Non è street food, ma se sei a Varanasi…

Se siete a Varanasi e avete già fatto il pieno di cibo indiano, o sentite la nostalgia del cibo europeo, posso consigliarvi un paio di alternative molto interessanti. Il bello è che sono vicinissime tra loro, una di fronte all’altra, quindi con un solo viaggio potete davvero fare una scorpacciata.

Il primo posto è la famosa Brown Bread Bakery, molto famosa e molto nominata anche dalla Lonely Planet. Ha un menu molto ricco che va dai panini, alla pizza, alle torte, ai croissant.

Noi ci siamo arrivati dopo quasi tre mesi di cibo indiano, ed è stata la prima volta che ho potuto mangiare del buon pane. Sono tornato più volte a comprare pagnotte da mangiare così, a secco, e mi sono piaciute tantissimo. Buonissime anche le torte e il resto delle cose esposte in vetrina. Anche la pizza non è male, probabilmente perché una delle fondatrici è italiana.

Attenzione: se ordinate qualcosa dalla cucina, potreste trovarvi ad aspettare tantissimo e senza motivo. Io la prima volta ho aspettato dei “pancake” per 1 ora. Quindi ordinate qualcosa dalla vetrinetta dei dolci, e non ve ne pentirete!

Di fronte alla B.B.B. c’è la Mona Lisa Bakery, perché agli indiani piace farsi concorrenza vendendo le stesse cose uno di fianco all’altro. Anche qui trovate delle ottime torte, e dei dolcetti anche più buoni della Brown Bread Bakery, ma con meno scelta e meno pane.

Entrambi i locali hanno dei tavolini, potete rilassarvi un po’, e chiacchierare con altri viaggiatori europei. Noi abbiamo incrociato una ragazza che ha detto di essere una nostra follower, e Alessia ha conosciuto una ragazza che seguiva su Instagram.

Scopri il tuo street food a Varanasi, con i giusti consigli

Fino ad ora ho parlato di quello che abbiamo gustato a Varanasi in prima persona. A volte abbiamo seguito i consigli della Lonely Planet o di altri viaggiatori, a volte abbiamo visto qualcosa che sembrava buono e abbiamo provato. 

E questo è il miglior consiglio che possiamo dare: se vedi qualcosa che sembra buono, compra e assaggia. Di solito costerà pochissimo, quindi il rischio è minimo, se segui le regole per scegliere street food “sicuro”.

  • guarda i posti che hanno un sacco di gente del posto, loro ne sanno più di noi
  • guarda i posti che fanno le cose al momento, così è minore il rischio che il cibo resti tanto tempo “fermo” prima di arrivare a te
  • meglio i posti che fanno una cosa sola, è più probabile che la facciano bene
  • meglio i posti che cuociono tutto, piuttosto che rischiare con qualcosa di crudo, per quanto possa essere fresco
  • fidatevi anche del vostro istinto: se vi sembra trascurato, sporco, poco serio, provate a trovare qualcosa che vi convince di più

Buon appetito!

Le signore vipassana incontrate e Lumbini

Dopo un viaggio da incubo durato giorni siamo finalmente arrivati a Lumbini, città sacra per i buddisti perché è considerato il luogo di nascita di Buddha.

Dopo aver scaricato i bagagli in camera ci siamo diretti verso la terrazza per mangiare qualcosa sotto i raggi di un sole tiepido e rinfrancante. Non eravamo soli, e presto abbiamo conosciuto i nostri primi personaggi particolari in Nepal.

Un tè internazionale e multiculturale

A fianco a noi tre signore stavano bevendo il tè, e a un certo punto ci hanno invitato a unirci a loro. Una di loro veniva dalla Cina, due dalla Malesia. Poi ci hanno raggiunto brevemente un’altra ragazza dalla Cina, e la coppia nepalese che gestiva l’albergo.

Insomma, un incontro multietnico e multiculturale. La signora cinese ha anche fatto una videochiamata con la famiglia a casa, tutta contenta di mostrare gli strani stranieri con cui condivideva il tavolo.

Il signore nepalese ha chiamato questa nostra riunione sanga, che in sanscrito ha un significato a metà strada tra “associazione” e “comunità”. Sembrava un bel modo di descrivere questo momento di condivisione.

Abbiamo condiviso i biscotti e gli snack che avevamo comprato a Gorakhpur, e che sono stati molto apprezzati. Loro ci hanno offerto un sacco di tè di lusso, e la ragazza ci ha offerto pomodori crudi… abbiamo anche dovuto mangiarli per non offendere, così abbiamo mangiato un po’ di verdura che fa bene.

E così abbiamo iniziato a parlare, e abbiamo chiesto loro che cosa facevano a Lumbini.

Breve intro alla meditazione vipassana

Erano appena uscite da un corso di meditazione vipassana, una scuola di meditazione molto famosa che vuole insegnare le tecniche di meditazione così come sono state insegnate per la prima volta da Buddha stesso. Non sono insegnamenti buddisti, non c’è una componente religiosa o filosofica, ma sono corsi molto “pratici” e operativi.

Sono anche corsi super impegnativi. Quello per principianti dura 10 giorni (!) e ci sono delle regole molto rigide da rispettare, tra cui:

  • niente cellulare, computer o altri aggeggi tecnologici
  • niente libri o cose per scrivere
  • isolamento completo dal resto del mondo, sia in entrata che in uscita
  • non si parla e non si comunica con nessuno, neppure per guardarsi negli occhi
  • separazione assoluta tra uomini e donne, anche per le coppie che arrivano insieme
  • giornate piene di attività, che iniziano con la sveglia alle 4.30 del mattino
  • mangiare solo le cose vegetariane proposte, e non si mangia dopo metà pomeriggio

e così via. 

Per 10 giorni devi vivere dedicandoti solo alla pratica della meditazione, seguendo un percorso preciso e strutturatissimo.
E’ un’esperienza che ti trasforma.

Tè del pomeriggio con signore esperte di meditazione

Le signore non erano certo alle prime armi, anzi sono delle vere e proprie esperte. Avevano appena finito un corso di 40 giorni! Quaranta giorni senza parlare e senza contatti con il mondo esterno. Non era la prima volta che lo facevano, tutte loro avevano fatto diverse esperienze in giro per il mondo. Una di loro aveva iniziato più di 13 anni fa.

Si stavano riposando, ma già da domani ricominciavano. Iniziava un corso per principianti da 10 giorni, e loro avrebbero partecipato come server. I server danno una mano a cucinare, pulire, servire in tavola, e fanno da tramite tra i corsisti e i maestri, tra le altre cose. E loro avrebbero fatto anche questa esperienza, e tutto su base volontaria. 

La scuola vipassana si sostiene sul volontariato e sulle donazioni. I corsi a cui partecipi non hanno un costo, se arrivi fino alla fine lasci quello che tu ritieni sia giusto.

Lezione di tè dagli esperti ai profani (noi)

Mentre parlavamo, la signora cinese ha continuato a trafficare con la teiera e con il bollitore. Se li era portati dalla Cina, perché per lei il tè è una cosa seria. Non abbiamo certo bevuto il tè dalle bustine, per loro deve essere come andare a mangiare la pizza da Domino’s… 

Il tè era una pallina compatta di foglie essiccate. Ed era un tè che la signora aveva fatto stagionare per 20 anni tenendolo in casa.
Così abbiamo imparato che per i veri intenditori, un tè è tanto più buono quanto più viene fatto invecchiare. Altro che data di scadenza, tutto il contrario!

Le signore ci hanno raccontato di famiglie che hanno conservato il tè gelosamente per decenni. I commercianti accorti comprano questo tè antico dalle famiglie contadine e lo propongono agli appassionati, che lo pagano una fortuna perché se ne trova pochissimo.

Io mi sono sentito quasi in colpa a bere il tè che la signora aveva conservato così a lungo. Da ignorante come sono ho solo notato che era amarissimo. Ovviamente il tè non va contaminato con lo zucchero o con altre cose, deve essere gustato “puro”. 

E un’altra caratteristica molto importante è l’età della pianta da cui vengono prese le foglie. Anche qui, più è vecchia e più il tè è pregiato. Ci sono delle piante che hanno più di 600 anni, e ovviamente le loro foglie sono costosissime. 

Nel corso del pomeriggio la signora cinese ha sfoggiato diversi tè per farceli assaggiare. Alcuni erano effettivamente profumati e gustosi, poi le differenze tra uno e l’altro le sentivo fino a un certo punto. Ho anche imparato che i buongustai, tra un tipo di tè e l’altro, bevono dell’acqua per togliere il sapore e gustare al meglio la nuova tazza.

Dobbiamo fare la meditazione vipassana!

Ma la cosa più importante che abbiamo imparato dal nostro incontro fortuito è che dobbiamo assolutamente provare a fare la meditazione vipassana.

Le signore ovviamente sono state categoriche: se abbiamo la possibilità, dobbiamo assolutamente fare un tentativo. E’ difficile, specialmente all'inizio, ma i benefici che porta fanno passare il resto in secondo piano. Per tutte loro questo tipo di meditazione è diventata una parte importante delle loro vite. Fanno diversi ritiri ogni anno, ormai da più di dieci anni, e ognuno può durare dai 10 ai 40 giorni!

Ci hanno anche consigliato di provare a passare al centro di meditazione il giorno dopo. Magari nel corso da 10 giorni che stava per partire c’era qualche defezione dell’ultimo minuto, e avremmo potuto approfittare. Ne siamo stati tentati: diverse persone hanno tessuto le lodi di questa meditazione vipassana…

Addio alle signore

Quando il sole ha iniziato a scendere, lentamente la riunione improvvisata si è sciolta. Le signore probabilmente dovevano prepararsi all'indomani. Noi dovevamo andare a caccia di una SIM nepalese. E così abbiamo salutato le nostre nuove amiche e siamo ripartiti.

Alla fine non abbiamo seguito il loro consiglio, non siamo andati a vedere se si era liberato qualche posto al corso vipassana da 10 giorni che stava per partire. I tempi della nostra permanenza in Nepal erano troppo stretti.

Ma c’è un centro meditazione a Jaipur che ci aspetta a marzo…

Amer: Venite a scoprire una cittadina indiana piena di storia

Amer (o Amber) una cittadina vicina a Jaipur famosa per il suo forte, chiamato (senza troppa fantasia) Amber Fort. Era la vecchia capitale del regno dei rajput Kachhwaha, prima che venisse spostata nella nuova Jaipur. 

Il forte è bellissimo e viene visitato da tantissimi turisti, sia stranieri che indiani. Arrivano, visitano, ripartono. Ma noi abbiamo scoperto che la cittadina intorno è molto bella, ed è un piccolo gioiello nascosto dell’India.

La storia

Amber fu fondata dai rajput Kachhwaha, ed è stata a lungo capitale dello stato di Jaipur, che rimase sotto il potere dei rajput per più di otto secoli. Il regno visse un lungo periodo di crescita e prosperità, così la capitale continuò a crescere di popolazione. Il problema era che si trovava in una zona con poca acqua a disposizione. 

Per questo il maharaja Jai Singh decise di costruire una nuova capitale, e nel 1727 avvia i lavori per la fondazione di una nuova città: Jaipur. Quando la capitale venne spostata, Amber rimase una cittadina tranquilla e un po' fuori mano.

Il forte di Amer

La città è dominata dall’enorme forte che porta lo stesso nome. La costruzione è iniziata nel 1592, e poi la dinastia regnante ha continuato ad aggiungere pezzi e ad ampliare.

L’esterno è in arenaria, di un colore che va dal rosso al giallo pallido, motlo suggestivo. E’ qualcosa a metà strada tra un forte e un palazzo, quindi si vedono questi enormi bastioni, ma in cima ci possono essere delle grandi aperture con grate traforate e molto decorative, ed è molto più armonioso ed elegante di una semplice fortezza.

Il forte è costruito intorno a quattro cortili differenti, ognuno con una sua funzione e con degli edifici con funzioni differenti, spesso decoratissimi e lussuosi. Poi all’interno ci sono un sacco di corridoi, passaggi, rampe, scale ripide, tanto che sembra un labirinto. Ti perdi un po' andando a caso e magari ti trovi in un cortiletto nascosto, o scopri un padiglione fuori mano, o un punto di osservazione con un panorama bellissimo sulla valle sottostante.

Il tempio Shri Jagat Shiromani Ji Temple

Questo tempio lo abbiamo notato dalle mura del forte, ed è stato grazie a lui se abbiamo deciso di dedicare ancora più tempo ad Amber. Gliene siamo molto grati.

E’ un tempio bellissimo, vecchio di 500 anni, e tutto decorato e scolpito. Si entra da una ripida scalinata  che porta a un grande portale bianco e scolpito. Più avanti vedrete il tempio, arricchito di sculture dalla base fino alla cime. Ci sono un sacco di statue e spesso sono diverse tra loro, ognuna probabilmente avrà il suo significato simbolico, ma è oltre le nostre scarse conoscenze di mitologia indiana.

L’interno del tempio è più semplice, quasi spoglio, ma comunque molto “autentico”. C’è qualche aggiunta moderna ma per il resto sembra davvero vecchio di secoli. Peccato per il soffitto affrescato, che è stato coperto in maniera abbastanza orrenda…

Merita sicuramente una visita, è tra i più bei templi che abbiamo visto finora. Se per trovarlo chiedete ai locali ricordate che per loro si chiama Meera Mandir.

Il tempio di Babu (nome non ufficiale)

Abbiamo scoperto per caso un piccolo tempio molto antico e molto carino. Abbiamo anche fatto amicizia con il suo guardiano, un simpatico signore di nome Babu, di cui abbiamo scritto in questo post.

Il tempio è molto carino, si visita in pochi minuti, e Babu è una persona a modo. Se volete potete dare un’occhiata a quello che vende, ma non è affatto insistente.

Gli altri templi di Amer

Se siete interessati potete vedere le cupole di diversi altri piccoli templi, che spuntano in diverse zone della città. Ci dicono che potrebbero essercene un paio anche di molto antichi, mentre altri sono più recenti. 

Il pozzo a gradoni: Penna Meena ka Kund

Tra le attrattive più conosciute di Amer c’è un bel pozzo a gradoni, di quelli che punteggiano tutto il Rajasthan. Noi siamo arrivati pochi minuti prima della chiusura, perché siamo stati rallentati dal nostro amico Babu, ma qualche minuto può essere sufficiente.

Il pozzo sembra molto ben conservato, ha otto livelli di scalini, noi li abbiamo visti quasi tutti perché c’era poca acqua. A proposito: guardando bene nell’acqua torbida vedrete qualcosa che si muove lentamente. Se aguzzate un po' gli occhi vedrete che è una tartaruga gigante! Penso sia lunga almeno un metro, e deve essere un bel bestione.

Di fronte al pozzo ci sono anche le rovine di un tempio abbandonato, che quindi potete visitare senza togliervi le scarpe. La particolarità è che il vestibolo (la parte davanti alla “piramide”) è aperto e ha una forma circolare, e sembra che sia una soluzione molto rara. Potete fare qualche bella foto senza fatica.

Gli haveli in rovina

Ad Amber non ci sono solo templi. Tutta la città ha un po' un gusto decadente tipico dell’India. Un sacco di edifici antichi, spesso in rovina, o che sembrano delle rovine fino a che non ti accorgi che sono ancora abitati.

Girando per le stradine vedrete diversi palazzi di questo tipo. Penso siano degli haveli, vecchie dimore di mercanti, di solito risalenti a non più di un paio di secoli fa. 

Mangiare ad Amer

Quando siete stanchi di camminare e cercare foto memorabili, Amer offre anche diverse possibilità per mangiare.

Noi siamo andati al Zeeman Restaurant. Ci hanno fatto mangiare nella sala del seminterrato, ma il resto era livello top. Ci siamo sfamati con un thali in due, tutto buono e diverse cose che non avevamo ancora assaggiato. Il servizio era attentissimo, c’era anche un signore che ci ha spiegato come mangiare il thal in un ottimo inglese.

Sulla strada principale ci sono anche un sacco di negozietti e banchetti per lo street food. Una decina di questi vendono dei grissini sottili e dalle forme un po' sinuose, di vari gusti più o meno piccanti. Ne abbiamo preso un sacchetto da mangiare in treno e si sono confermati molto buoni.

Passeggiare nel centro di Amer

Una degli aspetti più belli di Amer è il suo essere una cittadina tranquilla, dove si passeggia per il centro senza essere assaliti da gente che vuole venderti qualcosa. Le macchine e i motorini ci sono (ovviamente), ma non c’è il traffico che si trova in tante altre città.

Ci è piaciuto molto girellare per la città al tramonto. Le persone andavano in giro a farsi i fatti loro, si fermavano a chiacchierare quando si incontravano, giravano per i negozi. Tutto molto normale, ma c’era molta più serenità, e tanto silenzio nelle zone fuori dalla strada principale.

Se siete a Jaipur, e non siete di corsa, prendetevi un po' di tempo per esplorare la cittadina intorno al forte di Amer. Non ve ne pentirete!

ATTENZIONE:

Se siete arrivati alla cittadina e al forte di Amer con un Uber, o in generale se non avete il ritorno già organizzato, potreste trovare qualche difficoltà.

Uber sembra funzionare, ma in realtà gli autisti non hanno molta voglia di fare il lungo viaggio fino a Jaipur. Quindi vi andrà meglio se contrattate con i tuc tuc che saranno pronti a proporsi. Il viaggio non è comodissimo, ma con 250 rupie ve la cavate.

Andare dal barbiere in India, a Varanasi

Mentre eravamo a Varanasi, mi sono finalmente deciso a tornare da un barbiere indiano. La mia prima esperienza a Bundi era andata bene, ma ormai era passato tanto tempo ed era ora di darsi una regolata.

Ma dove andare? Ogni città indiana è piena di barbieri, e a Varanasi ne ho visti a decine. Ma avevo dei criteri molto particolari. Doveva essere un negozietto piccolissimo, magari con una sola poltrona da barbiere, e gestita da un signore di una certa età. 

Che gusto c’era nel chiedere un taglio moderno a un ragazzo in un salone pulito e brillante? Io volevo il più possibile l’esperienza vecchio stile.
Finalmente, proprio all'ultimo giorno, il caso mi ha portato nel posto perfetto.

Un barbiere di gran classe in India

Il mio barbiere a Varanasi ha aperto il suo negozio al primo piano. Solo per vederlo devi aguzzare gli occhi e guardare in su mentre sei su una piccola stradina, altrimenti lo perdi. Per raggiungere l’entrata devi salire la scala di ferro che ti porta più in alto del livello strada.

L’insegna è vecchia e consunta come la volevo. Dalle vetrine si vedono due poltrone da barbiere vecchie e malridotte. Ma il tocco di classe è appena fuori dalla porta. I capelli tagliati vengono gettati senza tante cerimonie a fianco della porta a vetri.

Il barbiere è un signore di una certa età, con una camicia un po’ lisa e consumata, ma pulitissima e impeccabile. E’ il mio uomo: entro e mi siedo in poltrona.

Servizio barba e capelli tutto compreso, Indian style

Come avevo previsto, il barbiere non parlava inglese, e io non avrei saputo spiegare in inglese quello che volevo. Ma avevo un piano ingegnoso: spiegare tutto a gesti e poi farmi andare bene il risultato. E così ho fatto: cortissimi ai lati e dietro, un po’ più lunghi sopra, la barba è a posto.

Pronti? Via!
Inizia un lungo e certosino processo, con il barbiere che lentamente inizia a spuntare i capelli con la forbice, dopo avermi spruzzato in testa, ma soprattutto in faccia, acqua da uno spruzzino.

I minuti passano lenti mentre la forbice continua il suo lento snick-snick-snick. Prima un lato, poi l’altro, poi dietro. Ogni tanto butto l’occhio allo specchio: dietro di me Alessia guarda il processo e ridacchia. Io senza occhiali spero per il meglio, e cerco di stare il più fermo possibile. Il barbiere mi scruta da un lato all’altro, ogni tanto accorcia una ciocca di capelli da un punto o da un altro.
Finalmente sembra soddisfatto e mette giù le forbici.

Prende la schiuma da barba e inizia a spalmarmela sul viso. Cerco di spiegare a gesti “niente barba”, ma lui spiega a gesti che vuole solo regolarla. Ormai che ci siamo, tanto vale provare anche questa.

E così faccio quello che non avrei mai pensato di fare in India: mi lascio appoggiare alla gola una lama affilatissima e di cui non conosco il grado di pulizia… Cerco di ricordare che sono vaccinato contro un sacco di cose, e che ho un’assicurazione di viaggio completa di tutto.

Per la prima volta in vita mia mi faccio tagliare la barba da un’altra persona, un barbiere che non conosco e a 5.000 km da casa. Mi stupisco di non essere più preoccupato di così, ma alla fine mi fido di lui e lascio fare al professionista. Me la caverò quasi senza tagli, solo un graffietto piccolo piccolo.
Penso sia tutto finito, ma mi sbaglio. 

In India i barbieri fanno un po’ di tutto, come i barbieri europei di una volta, che all’occorrenza toglievano i denti. Per fortuna nel mio caso il servizio extra è stato un massaggio.

Prima un vigoroso massaggio alla testa, compreso una serie di colpetti alla nuca che mi hanno scombussolato non poco. Molto strano come massaggio, ma io non ne so molto. Da come ride Alessia credo sia davvero un modo strano di massaggiare.
Poi massaggi alle spalle, alle braccia, e anche alle dita, ottenendo degli scrocchi inquietanti dalle mie nocche.

Solo a quel punto il barbiere è soddisfatto e mi permette di alzarmi.

Un nuovo, migliore Carlo dopo un trattamento di bellezza completo

A quel punto mi rimetto gli occhiali e guardo il risultato, e devo dire che mi piace molto. Finalmente sono tornato ad avere un aspetto decoroso, dopo almeno un mesetto di capelli e barba un po’ improponibili. 

E’ il momento della foto con il mio nuovo barbiere preferito.

Sono stato su quella sedia per più tempo del previsto, ma adesso è il momento di ripartire. Rimane solo da pagare per tutto il servizio: taglio, barba, massaggio.

Quanto? 250 rupie. Meno di 3 euro... L’ultima volta che sono andato a farmi tagliare i capelli in Italia ho pagato quasi 30 euro. Arrotondo a 300 rupie solo perché mi sembra ingiusto pagare così poco, e siamo tutti contenti.

Riparto tutto sistemato ed elegante come un damerino.

La grossa fregatura del tempio Pashupatinath a Kathmandu (e come evitarla)

Se andate a Kathmandu ci sono dei monumenti da vedere che vengono proposti a tutti. Uno di questi è il tempio Pashupatinath, il più grande tempio indù del Nepal. E’ un tempio maestoso e molto bello, ed è molto famoso perché potete assistere alle cremazioni funebri.
E’ anche una bella fregatura per i turisti occidentali.

La fregatura del tempio Pashupatinath

Perché il tempio di Pashupatinath è una fregatura? Se sei uno straniero non asiatico, entrare ti costa la bellezza di 1.000 rupie nepalesi. Al cambio stiamo parlando di 7 euro: non è una cifra esagerata, ma è abbastanza per un pranzo o una cena abbondanti per 2 persone a Kathmandu, la città più costosa del Nepal.

Ma non è neppure questa la vera fregatura. Il problema è che se non sei indù non puoi entrare nel complesso intorno al tempio principale. E quindi cosa ti resta da vedere? Ci sono alcuni edifici all'esterno, e alcuni cortili. E basta.

Ti viene detto che ci sono alcune zone che sono proibite ai non indù, ma non credevamo che queste zone comprendessero tutte le cose più belle e interessanti. Noi abbiamo pagato i nostri biglietti, abbiamo iniziato a esplorare e quasi subito siamo stati bloccati e deviati. Abbiamo girellato un po’ intorno, ma non c’era nulla di molto interessante.

Andando verso il fiume puoi assistere alle cremazioni, e infatti tante recensioni su Google Maps si concentrano su questo aspetto. Anche noi ci siamo stati, e posso confermare che sia un momento interessante e che merita di essere visto.

Abbiamo passato il fiume su un piccolo ponte, e ci siamo sistemati su degli scalini sulla riva opposta. Davanti a noi si vedevano le piattaforme per le cremazioni, sempre in attività.
Siamo stati a lungo e abbiamo imparato molto. Ma non bastano a giustificare il biglietto di ingresso. Specialmente se poi scoprite che non era necessario pagare...

Come vedere le cremazioni del tempio Pashupatinath senza pagare il biglietto

I baracchini per comprare i biglietti del tempio sono nel percorso che porta al tempio principale, e altri sono davanti al passaggio principale che porta alla zona delle cremazioni. La zona intorno si può esplorare liberamente.

Prima possibilità: andate verso sud, scendendo paralleli al fiume. Più avanti c’è l’area vera e propria delle cremazioni, e dietro ci sono delle panchine per assistere. Lì c’è un passaggio che sembra molto meno sorvegliato e porta direttamente a queste panchine. Non abbiamo provato a passare direttamente, ma forse se provate a entrare facendo finta di niente vi può andare bene. Altrimenti c’è un’altra opzione.

L'opzione sicura: arriverete al tempio da nord. Non entrate nella zona del tempio, ma continuate a costeggiarlo andando verso sud. Poi girate a sinistra verso il fiume. Proseguite lungo il perimetro esterno del tempio, e sulla sinistra dovreste passare un altro baracchino che vende biglietti.
Andate ancora più avanti: c’è una stradina che si insinua tra due mura di cinta, e che sembra un vicolo cieco. All'ultimo si vede che invece potete andare a sinistra, e vedrete davanti a voi un ponte. Passate il ponte e siete sull'altro lato del fiume, andate più avanti e sarete sulla riva di fronte agli spazi per le cremazioni. Lo stesso spazio che noi abbiamo pagato 2.000 rupie per raggiungere…

Questo NON è un modo per fare i furbi o per non pagare quello che è giusto. Ci sono altri monumenti a Kathmandu che sono a pagamento, ma che consiglio senza problemi. Il tempio non è uno di questi. Quello che ti offrono per il prezzo del biglietto (che costa tanto quanto piazza Durbar, molto più bella e famosa) è davvero poco o niente. Fanno tanta pubblicità alle cremazioni, ma possono essere viste tranquillamente senza passare per il tempio, quindi senza pagare il biglietto.
Se siete a Kathmandu, volete visitare il tempio Pashupatinath, e non volete sentirvi trattati come portafogli ambulanti, sapete come fare!

Gente dell’India: Sadik, lo studente di economia giramondo

Qualche giorno fa abbiamo preso un treno per andare da Agra a Jaipur. Il nostro piano era di sfruttare le ore di treno per rilassarci, leggere un pò, e pianificare i nostri prossimi giorni. Davanti a noi si è seduto un ragazzo giovane, e da buon indiano poco dopo ha attaccato bottone. Così i nostri piani sono andati all’aria, ma abbiamo un nuovo amico di cui parlare.

la storia di Sadik

Sadik è uno studente “impegnato” a studiare per un M.B.A., Master in Business Administration. E’ tornato a studiare dopo aver lavorato quattro anni, e lo sta prendendo un po' come una vacanza, una pausa dai ritmi del lavoro. Infatti è da poco tornato da un lungo viaggio in Europa.

Preferisce le materie che riguardano la strategia rispetto a quelle noiose come contabilità, e in questo siamo molto d’accordo.

Il suo obiettivo è prendere la laurea, per poi cercare lavoro presso uno dei grandi società di consulenza: Accenture, KPMG… Ma il suo sogno, dopo che avrà fatto un po' di esperienza, è di aprire la sua società. Questo per gli indiani sembra essere una ambizione molto diffusa. Anche uno dei nostri autisti di tuk tuk, un ragazzo giovane, era molto fiero di essere indipendente, il capo della sua attività.

Il viaggio in Europa

Sadik era appena tornato da un lungo viaggio in Europa, se non abbiamo capito male è stato lì 3 mesi.

Ha girato diversi Paesi in Europa del Nord, è stato anche in Islanda. In Italia ha fatto un giretto veloce, per poi ripartire lungo la Costa Azzurra e finire anche a Parigi.

Ha viaggiato con un gruppo di amici o di studenti come lui, e hanno scorrazzato per l’Europa. Viaggiavano un po' a gruppi, poi si dividevano, si incontravano di nuovo, e così via. Deve essere stato uno spasso.

Nei paesi dell’Est gli è piaciuto moltissimo il goulash, immagino fosse un po' simile al cibo indiano.

In Islanda hanno girato in macchina in 4: 1 alla guida, 1 a fare da navigatore, 1 a cercare dove mangiare, 1 a decidere la musica. Sempre attenti ai tanti autovelox, perché loro sono indiani e corrono sempre troppo. Lo hanno stupito quelle strade così vuote, così diverse da quelle indiane.

In Svizzera ha trovato un sacco di indiani. Ho letto che è una delle loro destinazioni preferite, perché lì hanno girato tante scene dei loro seguitissimi film. Nelle scene d’amore loro corrono in verdi prati di montagna, e di solito sono sempre i soliti posti delle Alpi svizzere. In Svizzera hanno trovato anche i migliori ristoranti indiani, e non credo sia una coincidenza.

In Belgio deve essere stato solo per fare una puntata velocissima da Parigi. Per comprare la cioccolata da portare a casa come souvenir.

Dell’Italia hanno adorato la pizza, e l’hanno mangiata ad ogni pasto. A Milano hanno provato lo spritz con l’Aperol. Ha anche visto il Gran Premio di Monza. 

Cosa abbiamo imparato

Siccome frequenta l’università di Ahmedabad, che è una delle nostre prossime tappe, gli abbiamo chiesto dove andare a mangiare. Il cibo è sempre una parte molto importante del nostro viaggio. Ci ha indicato una zona piena di bancarelle per lo street food, che non vediamo l’ora di provare.

E poi abbiamo parlato delle rispettive esperienze di viaggio, la nostra in India e la sua in Europa. Le differenze con il cibo, nel modo di vivere i luoghi sacri, le distanze, il clima, le strade… Era molto interessante per noi il suo punto di vista, e credo anche viceversa.

Abbiamo dato a Sadik la nostra prospettiva di italiani ed europei su quella che è la sua normalità. E lo abbiamo aiutato a capire meglio alcune cose dell’Europa. Ad esempio, ora sa che la pasta non è un contorno! Crediamo sia una conoscenza molto importante e significativa.

Ci ha confermato che i ristoranti indiani in Europa ci vanno leggeri con le spezie, per venire incontro ai nostri palati delicati. Quando vedevano arrivare ragazzi indiani cucinavano a parte, e con loro facevano le cose seriamente.

Matrimoni indiani

Sadik è appena tornato dall’Europa per andare al matrimonio di un amico. Appena ha potuto è salito in treno per viaggiare centinaia di chilometri e andare in un’altra città per un altro matrimonio.

Il periodo da novembre a febbraio è la stagione dei matrimoni in India. E lui è nell’età giusta, quindi il suo gruppo di amici sta rapidamente procedendo a sposarsi e a sistemarsi.

Deve essere un periodo molto faticoso anche per gli invitati ai matrimoni. Le feste durano giorni interi. Sadik dice che la festa a cui sta andando è già iniziata il giorno precedente con le prime cerimonie, e continuerà per altri due o tre giorni almeno!

Ciao Sadik!

Dopo un paio d'ore di chiacchiere ha detto di voler riposare un pò, e anche noi avevamo le nostre cose da fare e da organizzare. E' sceso prima di noi, ci siamo dati appuntamento ad Ahmedabad, se lì nello stesso periodo. Quella sera lo abbiamo visto su Instagram, impegnato in balli scatenati al matrimonio del suo amico.

Bandipur, la cittadina remota del Nepal per stare tranquilli

Di solito quando qualcuno fa un giro in Nepal finisce per andare sempre negli stessi posti: Kathmandu e dintorni, Pokhara, Chitwan, magari Lumbini se ha interesse nel buddismo.

C’è una cittadina nepalese che è merita una piccola visita ma che non è ancora molto famosa per i turisti occidentali.

I tanti vantaggi di Bandipur

Perché andare a Bandipur?

Prima di tutto, perché è molto facile farlo. Se avete deciso di spostarvi in bus da Kathmandu a Pokhara o viceversa, vi basta fermarvi lungo il percorso. Da Pokhara arriverete dopo sole un paio d’ora di strada, da Kathmandu dopo circa 5 ore. E’ un viaggio molto lungo, quindi è un ottimo modo di spezzarlo, riposare, vedere altre cose interessanti, e ripartire.

E’ una cittadina tra le montagne, costruita su una cresta e quindi con dei panorami a 360 gradi. Quando siamo andati noi l’aria era nebbiosa e fosca, quindi delle montagne neanche l’ombra, ma vi auguro maggior fortuna.

Il centro è pedonale nel vero senso del termine, nessun veicolo a motore né di altro tipo, quindi è molto piacevole e tranquillo. Anche nel resto del paese c’è pochissimo traffico, praticamente solo gli autobus che fanno la spola, e si fermano all'inizio dell’abitato, e i pochissimi mezzi degli abitanti, soprattutto scooter e moto.

Gli edifici del centro sono tutti antichi, e la strada offre un bellissimo colpo d’occhio. Ci sono una serie di ristoranti, cafè, negozietti che la rendono molto piacevole e vi danno mille possibilità di fermarvi, sedervi da qualche parte e godervi qualcosa di buono.

E se vi stancate di passeggiare e di rilassarvi, dal paese partono alcune camminate poco impegnative ma molto interessanti.

Cosa fare a Bandipur se non vuoi fare fatica

Bandipur sembra essere stata costruita per prendersi una pausa di riposo e relax. La posizione isolata, lo scarso traffico, le belle strade pedonali, i tanti cafè con i tavolini all'aperto… 

Godetevi una giornata senza nessun impegno, senza correre a vedere una cosa dietro l’altra, senza la frenesia che ci prende quando viaggiamo.

La mattina scegliete un posto per fare una bella colazione, nella strada principale ce ne sono un sacco. Noi siamo andati da una signora gentile di fronte ad un locale moderno che offriva un happy hour sulla birra. Non so dare indicazioni migliori, non mi sono segnato il nome e non la trovo su Google Maps.
La postazione della cucina era invitante, con ciambelle e altre leccornie fritte, e aveva alcuni tavolini al sole, molto invitanti con il tempo freddo di febbraio.

Poi potete fare una tranquilla passeggiata per il paese. La strada principale è la parte più affascinante, con gli edifici storici in legno intagliato, così scuro da sembrare nero. Poi la strada si divide in diverse direzioni. Partendo dalla zona dei bus la strada gira presto a destra e scende, e da lì potete esplorare un po’ il paese. 

Se proseguite invece fate tutta la strada principale fino all'ufficio turistico. Se continuate a sinistra una scalinata sale verso il tempio di Khadga Devi, che ha una bella panoramica sulla valle. Da lì poi ci sono altre stradine che si addentrano per il villaggio e che potete esplorare.

Oppure potete prendere un’altra strada che scende un po’ verso un’altra zona della cittadina, da cui ci sono dei begli scorsi degli edifici del centro, e del vecchio villaggio abbarbicato in cima alla cresta della montagna.

Se invece prendete la strada verso destra proseguite lungo la strada più principale, e potete andare avanti un bel po’, fino a finire a Tindhara. E’ un piccolo villaggio dove tutto sembra immobile. Quando siamo passati noi c’erano un gruppo di anziani che giocavano a uno strano gioco di società, e più avanti un gruppo di signore che parlottavano tra loro.

Scendendo un po’ più a valle ci sono le fontane pubbliche che danno il nome al villaggio ( Tin = tre, Dhara = beccucci, fontane). Qui le signore lavano i panni, o si fanno proprio il bagno, ovviamente sempre vestite. C’è un bel tempietto dedicato a Shiva che vi offre tanti piccolo dettagli da fotografare. 

Risalendo sull'altro lato del villaggio abbiamo passato un gruppo di signore impegnatissime a selezionare e impilare delle grandi foglie verdi. Ci siamo chiesti perché fino a quando un signore vicino ci ha detto che quelli sono “Nepalese dishes”: verranno usate come piatti per mangiare.

Per le strade, a varie ore del giorno, potete incrociare gruppi di ragazzini di tutte le età che vanno o tornano da scuola.

Insomma, fatevi un bel giro seguendo l’ispirazione del momento e andate a scoprire la vita di una piccola cittadina nepalese che non è ancora stata completamente conquistata dal turismo. 

Passeggiata tra Bandipur e Ramkot

Se avete voglia di camminare un po’ di più, e siete annoiati da Bandipur, c’è un’altra interessante passeggiata che potete percorrere.

Si tratta di un percorso di circa 5 km, o circa 1 o 2 ore di camminata. Si parte da Bandipur e si va verso ovest. Iniziate a scendere per la strada che porta a valle e verso Dumre, e sulla sinistra vedrete una strada sterrata che porta verso il crinale. Seguite quel sentiero, scollinate e poi iniziate a scendere verso ovest sull'altro lato del crinale. Continuate lungo quella strada, e praticamente non potete sbagliare.
Percorrete una comoda strada, con un po’ di salite e discese non molto impegnative, e con belle visuali sulla valle sottostante. Ogni tanto passate qualche casetta isolata e tradizionale, molto carine. Ogni tanto incrociate qualche nepalese che si fa i fatti suoi, sempre pronti a scambiare un saluto.

Avete due possibilità. Se volete stare comodi potete limitarvi a seguire questa strada. A un certo punto vedrete il villaggio di Ramkot, abbarbicato in alto su un colle davanti a voi. Continuate a seguire la strada e passerete sotto il villaggio per poi risalire sull'altro lato, fino a un piccolo parcheggio fuori dall'abitato.

Oppure potete tenere d’occhio le Google Maps, con le indicazioni per andare a piedi: a un certo punto vi consiglieranno di prendere un sentiero poco visibile dalla strada, che vi porta più in alto e in mezzo al bosco. E’ più faticoso e accidentato, ma è in mezzo alla natura e molto bello. E soprattutto vi fa arrivare a Ramkot da un punto molto più scenografico. Vi sembra proprio di uscire dalla foresta e finire in mezzo a queste casette antiche e di entrare in un villaggio uscito dal passato.

Ramkot è un mucchietto di case in cima a una collina, fatto di edifici tradizionali e molto caratteristici. Tutto il villaggio è “pedonabile”, non ci sono auto ma solo marciapiedi che fanno da strade. Le casette si susseguono, ognuna con un bagno e una fontana esterni. Galline e cani gironzolano per le stradine, e gli abitanti se ne stanno al sole o si fanno qualche passeggiata, o vanno a lavorare nei campi dei dintorni. Se girate per le stradine troverete un sacco di scorci e di angolini interessanti, meritevoli di una foto o due. 

In cima al villaggio c’è l’unico locale, una specie di bar / ristorante / museo gestito da un signore intraprendente e appassionato. Il chai è ottimo, e anche il cibo è economico e saporito. E dai due tavolini avete una vista completa del villaggio dall'alto, e di buona parte delle valli che lo circondano. Fate una sosta, o fermatevi anche tutto un pomeriggio per un po’ di relax.

Tornare indietro è molto facile, potete fare la stessa strada dell’andata o cambiare. Prendere la strada del bosco è molto più semplice dal lato di Ramkot, vi basta seguire la strada che resta in quota, non quella che scende più in basso. Ma farla al ritorno vi toglie l’ingresso migliore, ecco perché consiglio di farla all'andata.

Se tornate verso il tramonto potete anche godervi la luce che cambia e che illumina di colori dorati la valle sottostante. Basta che stiate attenti a tornare prima che faccia buio, altrimenti la strada diventa difficile. Non vi potete perdere, ma rischiate di mettere male il piede sui sassi e il fondo sconnesso.

Come arrivare a Bandipur

Bandipur si trova sulla strada tra Kathmandu e Pokhara, quindi raggiungerla è molto semplice. Basta prendere un autobus turistico, o anche un “public bus”, cioè uno dei tanti minibus che sfrecciano per le strade nepalesi collegando le diverse città. 

Chiedete di scendere a Dumre, una cittadina che non sembra avere niente di interessante e di particolare. Da lì c’è sempre un bus per Bandipur che è pronto a partire a intervalli più o meno regolari.

Noi siamo andati da Pokhara a Bandipur, e per farlo abbiamo chiesto aiuto al nostro albergo. La ragazza alla reception era in gamba e ci ha fatto trovare un taxi pronto. Il tassista ci ha portato alla strada giusta e ci ha scaricato direttamente davanti a un bus in partenza. Abbiamo pagato un paio di euro per tutto il viaggio, che è stata un’avventura adrenalinica e un po’ scomoda.

Come andarsene da Bandipur

Per lasciare Bandipur bisogna fare il percorso inverso: prima di tutto prendere il bus che scende fino a Dumre. C’è sempre un bus in attesa dopo le 8 e mezza, però parte quando gli pare o quando si riempie abbastanza…

A valle vi scaricherà dove si fermano tutti i bus di ogni tipo, che vanno in tutte le direzioni. Qui avete due possibilità.
La più semplice è chiedere prima al vostro albergo di organizzarvi il viaggio con un bus turistico: è comodo, è facile, e vi dovrebbe costare circa 10-12 euro a testa.
Oppure andate all'avventura e seguite le grida dei vari “bagarini” che cercano altra gente da caricare nei bus. Potete scegliere tra quelli turistici, se hanno posto, o quelli locali, che hanno sicuramente posto. Il prezzo è tutto da contrattare, dipende quanto avete voglia di dare battaglia e insistere.  

Ristoranti e cafè dove mangiare bene a Kathmandu

Kathmandu è una città che offre molte possibilità di mangiare cose interessanti, a volte anche buone. Mentre la abbiamo esplorata abbiamo scoperto e assaporato diversi di questi posti. A volte erano suggerimenti della Lonely Planet, a volte di amici. 

The Pumpernickel Bakery

Questa, per noi, è stata il punto centrale di tutta Kathmandu. E’ una istituzione della città, aperta dal 1986, e nel bel mezzo del quartiere di Thamel, che è dove si concentrano i posti dove mangiare e dormire per i viaggiatori.

Siamo passati di qui ogni giorno, a volte per fermarci un po’, a volte solo per comprare qualcosa da mangiare. Hanno delle sale ampie e comode dove passare il tempo se siete stanchi, o se fuori fa freddo. Buona atmosfera, pulizia, buon servizio, buoni bagni, puoi pagare con la carta di credito… 

Il loro menu propone dei piatti che sembrano molto buoni, ma sicuramente sono molto costosi per gli standard nepalesi, quindi non li abbiamo provati.

Abbiamo fatto man bassa della loro offerta di pane e prodotti da forno, che per qualche motivo non si trova nel menu ma dovete andare a vedere di persona al banco all'ingresso.
Tra i dolci consiglio il peanut stick, una specie di focaccia/biscotto con la frutta secca, buono e poco costoso.
E poi per me l’appuntamento fisso era la ciabatta. Dopo mesi di chapati, naan e poco altro, il nostro pane mi mancava moltissimo. E la loro ciabatta è molto, molto buona.

Occhio che se passate verso sera, o nel pomeriggio del fine settimana, la maggior parte degli scaffali sarà vuota!

Fresh Bake Thamel 1

Se vi stancate delle delizie di Pumpernickel, ecco un’altra pasticceria per voi. Sempre in zona Thamel, a forse 200 metri di distanza, c’è Fresh Bake Thamel 1. E’ un piccolo negozio con dentro 2-3 posti a sedere, gestito da due giovani fratelli molto in gamba.

Potete trovare croissant e dolci simili, un’ampia selezione di biscotti già impacchettati, dolci con carota o banana, buoni ma un po’ pesanti, e fette di torta che sembravano molto buone. Prezzi onesti, un po’ più bassi dell’altro locale.

Chikusa cafè

Per la colazione il nostro appuntamento fisso era da Chikusa cafè. Era a un passo dal nostro albergo, ma ci saremmo andati anche se era dall'altra parte del quartiere. Ambiente molto “rustico” ma menu di prim'ordine: poche cose, ma buone.

Consigliatissimi i pancake, specialmente al miele o allo sciroppo d’acero. Alti, morbidi, impeccabili.
Bene anche le uova con il prosciutto o il bacon, anche se la carne è un po’ strana e tendono a non usare il sale, come tutti i nepalesi.

Servizio veloce, prezzi bassi, atmosfera rilassata. I due tavolini vicino alla vetrina sono i migliori.

Lumbini Tandoori & Naan house

Di fronte al cafè Chikusa c’è un altro gioiello nascosto, il Lumbini Tandoori & Naan house. Occhio al nome, perché abbiamo visto almeno altri tre locali con dei nomi quasi identici. Questo è l’indirizzo su Google Maps.

Il menu propone diversi piatti indiani, quelli che abbiamo provato erano tutti buoni. tutti da accompagnare con il piatto forte del locale: il naan preparato sul forno tandoori che da il nome al locale. Ci sono naan conditi in tutti i modi, ma potete benissimo prenderlo plain, semplice, e usarlo per fare scarpetta e mangiare i piatti che avete ordinato.

Il “ristorante” è diviso in due sale e completamente separate, voi scegliete quella con il forno. Ammirate il ragazzo che con gesti esperti trasforma la pallina di pasta in una piccola focaccia da infilare nel forno. E poi ecco uscire la pagnottina schiacciata, che viene tagliata in grossi pezzi e servita al tavolo.

Qui la pulizia può essere un po’ dubbia, ma il cibo è molto buono, molto economico, non ci saranno molti turisti, il servizio è molto essenziale ma efficace, e non abbiamo avuto problemi di nessun tipo. Non giudicate dalle apparenze, e non ve ne pentirete.

Newa MoMo Restaurant

Nella stessa strada della Fresh Bake Thamel 1 potete trovare uno dei migliori locali che fanno momo in città. I momo sono dei ravioli riempiti con diversi tipi di ripieno, fatti al vapore ed eventualmente anche passati in griglia. 

In questo locale li fanno a mano al momento, costano poco e sono molto, molto buoni. Lonely Planet parla di Thamel Momo Hut, ma ci siamo stati una volta ed era un locale super turistico e molto più costoso, che non ci è piaciuto.

Da Newa MoMo trovate anche altri piatti nepalesi, e quelli che abbiamo provato erano buoni. Il locale è un po’ “imbucato”, in fondo a un vicolo e poi alla fine di uno stretto passaggio, l’arredo è molto spartano, non c’è un tetto vero ma delle lamiere che chiudono quello che in realtà è un cortile.
Ignorate questi aspetti secondari e troverete un posto dove si mangia bene piatti tipici nepalesi fatti al momento, spendendo poco, accompagnati da birre ai prezzi più bassi che abbiamo visto nei locali di Kathmandu.

Yangling Tibetan Restaurant

Ai margini ovest della zona del Thamel trovate il Yangling Tibetan Restaurant, un altro posto dove mangiare ottimo cibo tradizionale tibetano. Entrate e vedete subito la cucina, poi salite le scale per accomodarvi in sala. Il menu è abbastanza ridotto, pochi piatti ma buoni, 4-5 portate proposte in diverse varianti.

Noi ci siamo abbuffati di Thenthuk, una zuppa di verdure con pezzi di pasta di riso piatta, simile alle tagliatelle per dimensioni. Una ciotola ti sazia senza problemi, è molto buona, e molto economica. Potete scegliere la versione veg o aggiungere uova, bufalo, pollo, maiale (queste sono le varianti di cui parlavo prima).
Anche i momo sono molto buoni e saporiti.

Kathmandu vanta un’offerta di locali, ristoranti e cafè molto ampia. Tanti, troppi sono pensati per turisti che passano veloci. Menu occidentali, cibo mediocre, prezzi alti. Spero di far conoscere un po’ di più alcuni locali che meritano più attenzione.

Ristoranti e non solo per mangiare bene a Pokhara

Nei nostri viaggi ci siamo fermati qualche giorno a Pokhara. E’ una città turistica, piena di ristoranti e di locali dove trovare qualcosa da mangiare. Basta camminare per la strada che costeggia il lago e vedrete centinaia di possibilità.

Quale scegliere? Questo è il problema. Di solito cerchiamo online, e poi guardiamo se i locali sono frequentati da tanta gente, preferibilmente gente del posto. Stavolta siamo stati in città in bassa stagione, quindi in giro non c’era quasi nessuno.

Alla fine abbiamo trovato 3 posti che ci sentiamo di consigliare, e 1 che ci sentiamo di sconsigliare.

Nelle nostre ricerche ci siamo concentrati sulla zona nord del lungolago perché abbiamo dormito lì, e non volevamo camminare troppo solo per mangiare.

Dove non mangiare: Godfathers pizzeria

Ebbene sì: dopo mesi di viaggio abbiamo ceduto alla tentazione di provare a mangiare una pizza. Godfathers pizzeria, a parte il nome vagamente mafioso e offensivo, veniva ben recensito e anche citato dalla Lonely Planet, era più frequentato di altri locali, c’era un forno a legna… abbiamo deciso di provare.

Avevamo la cucina proprio davanti, e vedevamo i pizzaioli al lavoro. Vedere stendere la pasta della pizza con il mattarello non ci ha riempito di speranza. Sentirsi offrire il ketchup da aggiungere sopra la pizza ha ucciso un po’ la nostra italianità. Fortunatamente eravamo preparati mentalmente, e vedere arrivare una pizza delle dimensioni di un normale piatto da cucina non ci ha fatto gridare all'imbroglio.

Come era la pizza? Non era pessima, non era neppure particolarmente buona. Qualcosa che potresti mangiare anche in Italia, nelle pizzerie di bassa lega dove entri solo se spinto da una fame terribile, o se proprio non trovi altro.

Ci è costata poco meno di una pizza italiana, il che vuol dire che era abbastanza costosa per il Nepal. Tutto sommato meglio lasciare la pizza agli italiani e all'Italia. E con questa grande scoperta è tutto. Passiamo alle buone notizie.

Dove mangiare buon cibo nepalese: Himalayan Dorjee Restaurant

Il primo posto che ci sentiamo di consigliare a tutti è Himalayan Dorjee Restaurant. Si trova lungo la strada principale, lungolago, ed è un locale molto pulito e ben arredato. Da fuori è un po’ difficile da vedere, l’insegna è poco appariscente e un paio di volte abbiamo tirato dritto anche se lo stavamo cercando…

Il menu ha i classici piatti tibetani: momo, thupka, chowmein…
Il servizio è veloce, i ragazzi sono premurosi, il cibo è buono senza essere niente di estremo, piccante o con cervello di capra e cose simili.

Ogni volta che siamo passati era pieno di persone del posto che stavano mangiando, ed è l’indizio principale che cerchiamo mentre scegliamo dove mangiare.

Se vi sentite avventurosi: PP Local Restaurant

Se volete provare qualcosa di più autentico, non molto distante dal Dorjee Restaurant c’è il misterioso PP Local Restaurant.

E’ un locale che, come si dice, “da fuori non gli daresti un euro”. Sembra una bettola molto trascurata, con tavolini sbilenchi e un arredo raffazzonato. Però la famiglia che lo gestisce sa il fatto suo, la loro cucina è essenziale ma ben gestita, e i piatti che portano in tavola sono buoni.

Il menu è simile all'altro locale: momo, thupka, un po’ di piatti con il riso, perché alla fine la cucina nepalese sembra fatta di questo. Potete venire qui se volete evitare le cose da turisti e mangiare bene spendendo poco.

Per la colazione o qualcosa di dolce: Wheat to Sweet

Infine, se avete voglia di qualcosa di dolce, ecco Wheat to Sweet. E’ una piccola pasticceria con una esposizione di prodotti lunga non più di 1 metro, ma le cose che fa sono buone. Fagottini, croissant, torta di carote …

Ci sono passato diverse volte la mattina a prendere qualcosa per la colazione, e qualche volta la sera, per la stessa ragione. In giro per la città non ho visto molti altri posti che proponessero dolci allettanti.

Sopravvivere (bene) a una notte all’aeroporto di Nuova Dehli

Per dire una cosa ovvia, l’India è un Paese molto grande, e a volte il modo più semplice di spostarsi da un posto all'altro è prendere un aereo. E buona parte degli aerei passeranno per l’aeroporto di Nuova Delhi.

A volte tra un volo e l’altro passano parecchie ore, o magari anche tutta una notte. Cosa fare? Durante il nostro sabbatico in India abbiamo passato in aeroporto una mezza giornata, e anche tutta una notte. Ecco quello che abbiamo imparato, così non farete i nostri stessi errori.

Risparmiare sull'acqua all'aeroporto di Nuova Delhi

Un classico problema di chi deve passare tempo in aeroporto è come procurarsi da bere senza spendere una fortuna.

Di solito vicino ai bagni potete trovare delle fontanelle di acqua filtrata, ma non ci siamo fidati, perché ho letto pareri discordanti sulla loro qualità dell’acqua.

Alcuni chioschi vendono bottiglie di acqua, solitamente per un prezzo intorno alle 100 rupie (poco più di 1 euro) per 1 litro. Meglio dei prezzi degli aeroporti italiani, ma non proprio ideale.

Nascosti in alcuni punti dell’aeroporto ci saranno dei distributori automatici di bevande. Lì una bottiglia di ½ litro costa 10 rupie (11 centesimi). Vi consiglio fortemente di approfittarne.

Mangiare all'aeroporto di Nuova Delhi

Quando avete da bene, magari vi verrà voglia di mangiare qualcosa. Che fare? Troverete diversi chioschi che vendono cibo di tutti i tipi, non solo indiano. C’è che dice che la qualità del cibo sia discutibile. 

Noi abbiamo deciso di provare la pizza di Domino’s, visto che diversi indiani ce ne avevano parlato. Non vincerà nessun premio, ma non è neanche la peggiore pizza che abbiamo provato, e almeno sapete che cosa mangiate e non spendete molto.

Se volete qualcosa di dolce vi consiglio di guardare tra i negozi del duty-free. Ci sono un paio di negozi di una catena specializzata in dolci e snack, che vendono pacchi di biscotti che costano circa 100 rupie per 250 grammi, un ottimo prezzo e i biscotti non erano niente male.

Dormire in aeroporto a Nuova Delhi

Siete atterrati a Nuova Delhi la sera/notte e dovete ripartire al mattino? Avete un volo che parte la mattina presto o prima dell’alba? 

Non vi conviene andare a dormire in città: vi costa tanto e dormite poco. Vi conviene passare la notte direttamente in aeroporto. L’ambiente è comodo e moderno, ci sono bagni puliti dappertutto, risparmiate soldi, e non si sta neanche troppo male.

ATTENZIONE: se vi presentate troppo presto al check-in per i bagagli non vi faranno entrare. Potrete passare solo se mancano meno di 12 ore alla partenza del vostro volo. Potete aspettare nelle poltroncine e nelle zone fuori dalla zona Partenze, che in caso di necessità sono comunque abbastanza comodi.

Dove dormire nell'aeroporto di Nuova Delhi?

La notte al Terminal 3 non è male. Ci sono un sacco di poltroncine “da aeroporto” sparse un po’ dappertutto, e ci sono decine di gate, ognuno con le sue file di poltroncine. Non sono comodissime se dovete passarci molte ore, ma se siete abbastanza stanchi si può fare.

Ma se volete dormire comodi in aeroporto a Nuova Delhi vi conviene cercare i divanetti. E’ dove abbiamo dormito durante la nostra notte di attesa, sono molto comodi, e in una zona abbastanza tranquilla.
Per trovarli andate oltre le zone dei negozi e dei chioschi per il cibo, e prima dei gate. Ci sarà un’area con una lunga fila di divani colorati. Prendete possesso di un divano libero e potrete stendervi. Sono abbastanza morbidi, ma non troppo, e sono stati la salvezza della mia schiena delicata.

Se l’idea di dormire buttati da qualche parte vi sembra insopportabile, ci sono degli alberghi vicino all'aeroporto pensati apposta per i layover lunghi. Noi abbiamo solo visto la pubblicità, non li abbiamo provati. Immagino possano essere una buona soluzione se preferite un letto e un po’ di privacy quando dormite. A quanto pare i prezzi partono da 14.999 rupie, poi tra scontistiche e prezzi che cambiano non si può mai sapere...

Divertimenti e distrazioni dell’aeroporto di Nuova Delhi

Se dovete passare tante ore in aeroporto è sempre meglio portarvi dietro qualcosa da fare o da leggere. Altrimenti l’aeroporto vi offre alcune distrazioni e divertimenti.

Alcuni negozi vendono libri per tutti i gusti: agli indiani piacciono i romanzi, le love story, e i libri di crescita personale, oltre ai libri sull'India. Saranno in inglese, ma costano relativamente poco (3-4 euro) e possono essere interessanti.

Nel food court (e forse anche altrove) ho visto un simulatore di volo sponsorizzato dall'esercito indiano, sempre alla ricerca di nuove reclute. Se vi piacciono di videogiochi potrebbe essere interessante.

Nella zona dei divanetti, tra i negozi del duty-free e i gate, ci sono delle poltrone massaggianti. Ti siedi sopra e ti massaggiano dalla testa ai piedi. Quando le ho scoperte erano le prime ore del mattino ed ero stravolto dal sonno, quindi ho lasciato perdere, ma le persone che le hanno provate sembravano godersi l’esperienza.

Lavorare al computer in aeroporto a Nuova Delhi

Se volete essere produttivi mentre aspettate il vostro volo, la cosa migliore che potete fare è trovare un posto tranquillo dove potete mettervi a lavorare. 

Se girate per il Terminal 3 troverete parecchi angolini un po’ isolati dove sedervi con il laptop e mettervi al lavoro. Il Terminal 2 è meno adatto, ma qualcosa trovate lo stesso.

Se siete al Terminal 3 vi conviene andare al food court, il piano sopraelevato con la maggior parte dei chioschi del cibo. Ci sono un sacco di tavoli e tavolini, e quelli più vicini alla balaustra sono i migliori: grandi, comodi, e con delle prese per la ricarica vicini. Di notte sono sempre liberi e potete mettervi comodi. Inoltre quella è una zona tranquilla, e non ci sono neppure gli annunci dei voli a rovinarvi la concentrazione.

Spostarsi tra Terminal 3 e Terminal 2 a Nuova Delhi

Se arrivate per la prima volta e dovete cambiare terminal potreste essere un po’ spaesati. Niente paura, andare da un terminal all'altro è molto semplice.
C’è un percorso pedonale che collega i terminal, coperto e ben segnalato. Dal Terminal 3 uscite e andate verso sinistra, fino in fondo all'edificio, e vedrete le indicazioni. 

Come passare il tempo in Terminal 2 a Nuova Delhi

Il Terminal 2 è meno moderno, comodo e attrezzato rispetto al Terminal 3. Se potete scegliere, cercate di rimanere il più possibile al Terminal 3 prima di spostarvi.

Il T2 è abbastanza “banale”. Ci troverete qualche negozio poco interessante, qualche chiosco poto interessante. Ci sono tante poltroncine quindi un posto a sedere lo trovate, ma sono molto vicine tra loro e l’atmosfera è un po' meno moderna e accogliente del T3.

E con questi ultimi consigli, spero di avere aiutato qualche altro viaggiatore a passare al meglio il tempo in aeroporto a Nuova Delhi.

Il tempio della motocicletta: Om Banna Temple

Nella campagne desertiche del Rajasthan si nasconde una piccola perla di devozione indiana che non conoscono in tanti: l’Om Banna Temple, conosciuto anche come il tempio della motocicletta.

Ce ne ha parlato il titolare dell’homestay in cui siamo stati. Si trova a qualche decina di chilometri, ma siccome eravamo in modalità basso consumo non siamo andati a visitarlo.

Ma ci siamo fatti raccontare la storia, che è affascinante.

Om Banna era un uomo che ha avuto un incidente stradale mentre era in moto. L’incidente è stato fatale.

La sua moto è stata portata alla stazione di polizia. Viene lasciata lì senza particolari precauzioni. Chi si metterebbe a rubare in una stazione della polizia?

Al mattino dopo, però, la moto era sparita! Chi può essere stato?

Alla fine la moto viene ritrovata: era nel punto dell’incidente, ma non si sa chi sia stato o perché.

Riportano la moto alla stazione di polizia, ma stavolta la legano con lucchetto e la lasciano in un recinto chiuso. La mattina dopo la moto è sparita di nuovo. Cosa può essere successo?

Vanno a guardare i filmati delle telecamere di sicurezza. Si vede che a mezzanotte il lucchetto si apre, senza che nessuno lo tocchi. La moto esce dal cancello e sparisce nella notte. Come potete immaginare, viene ritrovata di nuovo nel luogo dell’incidente.

Intanto Om Banna appare in sogno alla nonna, o alla sorella del padre. Su questo non si ricordava bene. Comunque appare in sogno a una persona cara, perché deve dare un messaggio.

Ha deciso di rimanere e di proteggere tutti quanti contro gli incidenti che potrebbero succedere in quella zona. Per questo devono fare un tempio, un luogo di devozione nel punto in cui è morto, in modo che possa rimanere e vegliare su tutti quanti.

E così è stato. Viene costruito un piccolo tempio, e ovviamente il punto centrale del tempio è la motocicletta di Om Banna. Da allora quello sono passati circa venti anni, ed è diventato un luogo di devozione visitatissimo, molto frequentato dalle persone del luogo e non solo.

Su Google Maps il tempio ha la bellezza di 20.000 recensioni e più. E’  un numero enorme, soprattutto se pensiamo che si trova più o meno in mezzo al niente, non certo in una grande città.

Ed ecco la storia di Om Banna e di come è nata la leggenda del tempio della motocicletta.

Monumenti a pagamento a Kathmandu: quali pagare e quali no

Dopo il terremoto del 2015 i principali monumenti della valle di Kathmandu sono visitabili solo a pagamento. A volte il biglietto può anche essere salato.
Vale la pena pagare? A volte sì, a volte no. Ecco i miti consigli.

Piazza Durbar di Kathmandu: sì

La piazza Durbar di Kathmandu in realtà è una zona della città che è stata chiusa, e che comprende tre piazze che si sviluppano intorno al palazzo reale. E’ una zona molto bella, molto interessante, e che vale la pena visitare.

Il terremoto ha fatto molti danni ma ormai almeno gli esterni degli edifici sono stati ricostruiti.

Il biglietto costa 1.000 rupie nepalesi, circa 7 euro. Non è poco, ed è seccante vedere che i turisti asiatici e nepalesi pagano molto meno, ma è un’esperienza da fare.

Piazza Durbar di Patan: no

La piazza di Patan è anch'essa una zona transennata, che contiene dei templi molto belli e un altro palazzo reale. Qui il terremoto ha fatto meno danni. Il biglietto costa altre 1.000 rupie.

Perché non vale la pena? E’ molto più semplice vedere la piazza senza entrarci, e noi abbiamo fatto così. Abbiamo fatto un giro tutto intorno, e praticamente abbiamo visto quasi tutta la piazza. Pagare il biglietto ci permetteva di avvicinarsi ai templi e di entrare nel palazzo reale, ma non ci è sembrato così importante.

Tempio d’oro di Patan: sì

Il tempio d’oro è chiamato anche Hirana Varna Mahavihar e si trova a Patan, non molto distante dalla Durbar Square. Il biglietto di ingresso è di 400 rupie, meno di 3 euro a testa, e per quel prezzo merita una visita.

Non dimenticate di salire le scale sul lato nord per vedere la stanza dove pregano i monaci, che ha dei begli affreschi alle pareti. Se siete italiani probabilmente verrete tampinati da una ex guida che parla italiano, che cercherà di vendervi insistentemente dei dipinti tibetani, parlandovi in continuazione.

Tempio Pashupatinath: assolutamente no

Per l’ingresso chiedono 1.000 rupie, e non puoi vedere quasi nulla.

Sono rimasto così deluso da quello che ho visto che ho scritto un post dedicato a come vedere tutto il possibile senza pagare il biglietto.

Tempio Swayambhunath: sì

Il tempio Swayambhunath si trova in cima a una piccola ma ripida collina nella zona ovest di Kathmandu. E’ un tempio buddista, quindi uno stupa, cioè una costruzione che visiti solo dall'esterno, che segue sempre lo stesso progetto con pochissime differenze.

Il biglietto costa solo 200 rupie, 1 euro e mezzo, ed è bello girare un po’ intorno allo stupa perché c’è anche un monastero e altri edifici, e anche delle belle vedute sulla città.

Boudhanath Stupa: probabilmente sì

Il Boudhanath Stupa è uno stupa, quindi non è molto diverso da tutti gli altri stupa che potete vedere in città. E’ più grande degli altri, e ha una grande importanza per i buddisti. Si trova in una piazza circolare, con intorno un sacco di negozi e cafè.
Verso il tramonto la piazza si riempie di pellegrini che camminano in senso orario intorno allo stupa.

Il biglietto costa 400 rupie nepalesi, circa 3 euro. Da visitare se si è interessati al buddismo, ma può essere scartato se avete poco tempo.

Bhaktapur: probabilmente no

Circa 15 km fuori Kathmandu c’è una cittadina di nome Bhaktapur. Tutto il centro storico è stato chiuso per chiedere soldi ai turisti. Dalle nostre ricerche sembra anche una bella cittadina, molto “passeggiabile”. Ci hanno girato anche delle scene dell’Ultimo Imperatore di Bertolucci.

Perché non ci siamo stati? Il biglietto d'ingresso è di 15 dollari a testa! Può valere la pena se rimanete a dormire e vivete un po’ l’atmosfera della città, altrimenti mi sembra una spesa notevole.

Tutti i monumenti di questa lista possono meritare una visita. Se non avete problemi di budget andate pure. Se avete problemi di tempo vi conviene fare delle scelte. Kathmandu è una bella città, e ci sono parecchie cose interessanti da vedere che non richiedono un biglietto. La Lonely Planet è un buon punto di partenza, e descrive due passeggiate intorno a Durbar Square piene di angoli interessanti.

Indiani: verranno a rubarci il lavoro? Sì, e dobbiamo stare attenti

In questo viaggio in India abbiamo avuto modo di vedere tanti, tanti indiani. Li abbiamo visti vivere, andare in giro, fare commissioni, studiare, lavorare, fare affari.

Quello che non si pensa è che non si limitano, e non si limiteranno, a starsene in India. Sempre più giovani indiani, formati e professionalizzati, partono per lavorare in tutto il mondo

Negli Stati Uniti, dove da decenni riempiono le aziende tecnologiche. Microsoft e Google sono guidati da indiani, non certo perché erano gli unici due indiani bravi, ma erano solo i migliori di un folto gruppo.

In Gran Bretagna, con cui hanno rapporti da secoli. Il loro ex primo ministro era di origini indiane, e anche il sindaco di Londra.

Perfino l’Italia ha annunciato di voler “importare” migliaia di infermieri indiani per i propri ospedali.

Quindi dobbiamo prepararci a un’invasione di indiani a caccia dei nostri lavori? La risposta breve è: probabilmente sì. Il mondo è sempre più connesso, loro sono sempre più preparati e formati, e ormai la concorrenza sul lavoro non ha confini.

Altro che immigrati africani che “ci rubano il lavoro”: è una narrativa becera, ma soprattutto limitata e stupida. Il vero pericolo sono immigrati regolari, che potrebbero essere più formati, più bravi e più “affamati” di noi.

Ho cercato di analizzare e capire questi nostri possibili competitor futuri. Una cosa mi preoccupa più di tutto: quanto si impegnano per migliorarsi. Una cosa mi tranquillizza: come lavorano.

Vediamo meglio come sono fatti questi nostri concorrenti.

Gli indiani possono venire a fare i nostri lavori? Sì, perché…

Sempre più indiani che vanno a lavorare all’estero. Perché? Se si pensiamo, è abbastanza ovvio. Sono tantissimi (primo paese al mondo per popolazione), con tantissimi giovani.

Il primo ostacolo per lavorare all’estero è la lingua. Ma loro sono multilingua dalla nascita. Hanno una decina di lingue ufficiali e centinaia di lingue e dialetti locali. L’hindi è la lingua più parlata e insegnata a scuola, ma in realtà è una creazione recente e non la parlano tutti. Così spesso i ragazzi crescono imparando a parlare diverse lingue

La vera lingua che viene insegnata a tutti, e la vera lingua franca dell’India è l’inglese. E una volta che sai quello, puoi puntare ad andare a lavorare un pò in tutto il mondo.

Il secondo ostacolo per lavorare all’estero sono le competenze: devi essere più bravo dei locali, altrimenti perché dovrebbero prendere uno straniero?

Le scuole indiane stanno migliorando rapidamente, ma soprattutto gli indiani studiano tantissimo. Tutto il sistema scolastico è organizzato per graduatorie e classifiche. I primi in classifica, i migliori, hanno più possibilità di andare nelle migliori scuole, eventualmente di studiare all’estero, e così via. E’ un sistema molto severo, che probabilmente penalizza i più poveri, ma che “funziona” nel senso che spinge gli studenti a fare tutto il possibile.

Così ci sono i migliori ragazzi di un paese, formati nelle migliori scuole, che vengono a cercare i lavori migliori disponibili nei paesi ricchi. I nostri lavori.

Per fortuna, hanno un paio di problemi che devono ancora superare.

Perché gli indiani non possono (ancora) fare i nostri lavori

E’ vero: gli indiani imparano l’inglese più di noi, e hanno molte più occasioni di praticarlo. Io ho parlato inglese fuori dalla classe solo negli ultimi anni delle superiori, e solo in poche occasioni in cui ero all’estero. Loro si mettono a parlare con gli stranieri che vedono in giro quando hanno meno di dieci anni, e lo parlano spesso anche tra loro.

Ma! C’è un grosso “ma”. L’inglese che parlano è, senza eufemismi, un pessimo inglese. La pronuncia spesso è quasi incomprensibile, la costruzione delle frasi è problematica, sanno le parole e le frasi fondamentali ma non molto altro.

Abbiamo parlato a lungo con uno studente universitario che è stato all’estero più volte, il nostro amico Sadik, e anche lui pronunciava alcune parole in maniera platealmente sbagliata. Ad esempio per dire “what”diceva “vat” invece di “uat”, cose che i nostri insegnanti non fanno passare liscia.

Ecco perché per ora non sono preoccupato. Questo esercito di ragazzi indiani parlano veloci e mangiandosi le parole, ma credo che il nostro inglese lento e all’italiana sia comunque più comprensibile. Se non altro perché noi siamo consapevoli del nostro inglese limitato, mentre loro sono convinti di saperlo parlare benissimo.

C’è un altro fattore che gioca a nostro favore. Certo, nelle grandi aziende e nelle multinazionali i sistemi e le procedure dovrebbero permettere di assumere il candidato migliore anche se arriva da un altro paese. Ma ogni luogo (stato, regione, città) ha le sue particolarità e le sue regole non scritte. Fanno parte di quella conoscenza tacita che non ti dice nessuno, ma che quelli del posto assorbono crescendoci dentro.

Possono essere cose banali come il modo di salutare (gli indiani non sanno stringere la mano per presentarsi, lo imparano per noi) o possono essere cose più importanti come il comportamento sul posto di lavoro. Non è propriamente equo, ma anche questo fa parte della competizione e ci avvantaggia nel tenerci stretto un lavoro in Italia.

Ma non è finita. Vediamo meglio come gli indiani lavorano...

Gli indiani possono lavorare meglio di noi? Sì, perché…

Mentre nelle scuole europee si discute di togliere i voti per non traumatizzare i bambini, in India li si butta in un gran torneo di Hunger Games dove solo i primi in classifica potranno avere le migliori opportunità.

E più tardi le cose non cambiano. Devono sempre competere con tantissimi concorrenti per un numero limitato di lavori interessanti, e un numero un pò meno limitato di lavori che pagano decentemente. 

Quindi sono abituati a darsi da fare, e non hanno le nostre stesse aspettative su orari e quantità di ore lavorate. Mi pare di capire che gli uffici hanno degli orari abbastanza simili ai nostri, almeno gli orari di apertura al pubblico.
Ma i negozi aprono in tarda mattinata e rimangono aperti tutto il giorno fino a sera, spesso anche oltre le nove di sera. Credo che questo sia quello a cui sono abituati: lavorare tutto il tempo necessario e anche di più.

E un’altra cosa che ho imparato da negozianti, autisti e signore che vanno al mercato: sono degli esperti della contrattazione. E’ qualcosa che imparano quando sono ancora bambini e che poi affinano in tanti anni di trattative che si giocano su pochi centesimi, tutti i giorni, su ogni cosa.

Sono bravi con i numeri, bravi a girarti la frittata, a usare i sentimenti, a fare le sceneggiate, a fare gli amiconi o gli offesi secondo necessità. Noi in questo siamo spaventosamente impreparati

Ma non disperiamo! Perché gli indiani hanno anche due comportamenti che ogni tanto ci fanno impazzire, e che farebbero impazzire anche qualunque datore di lavoro o capoufficio.

Perché gli indiani non lavorano meglio di noi (per ora)

Abbiamo notato due grossi difetti nel guardare gli indiani che lavorano.

Primo difetto: lavorano un pò a caso, senza badare molto al risultato di quello che fanno.

Le persone che puliscono spazzano le immondizie a lato alla meno peggio. Rompono il cemento senza usare un minimo di segni, e la canalina diventa un percorso pieno di curve. Mettono a posto qualcosa, ma senza guardare a dove la mettono. Potrei fare mille esempi. Ma in generale tendono a farsi vedere mentre lavorano, più che a ottenere dei risultati. Oppure tendono a seguire lo scarso addestramento ricevuto, ma senza applicarlo alla situazione, seguono i vari passaggi in maniera meccanica.

Secondo difetto, quello che mi fa davvero diventare pazzo: non guardano le consegne.

Se scrivete a un indiano e gli chiedete tre cose, di solito vi risponde a una sola. Così gli scrivete ancora, e vi arriva un altro pezzo di risposta. E così via, sempre più vicini a una risposta definitiva, ma senza mai arrivarci.

Mi è successo ancora e ancora, con indiani di diverse zone, che facevano diversi lavori, quindi mi sa che sono proprio così. 

Ho avuto esperienze simili su Upwork, una piattaforma per trovare lavoratori di tutto il mondo per esternalizzare alcuni compiti. Ho chiesto un paio di volte a lavoratori indiani di fare un certo tipo di lavoro. Ho preparato istruzioni dettagliate, ho mandato esempi, ho pensato a tutti i possibili dubbi, e così via.
Ogni volta mancava qualcosa, o partivano bene e poi la precisione iniziava a calare, o facevano errori grossolani perché cercavano di fare il meno possibile. Ogni volta ho dovuto controllare minuziosamente quello che mi mandavano, e chiedere più volte di sistemare le parti sbagliate.

Solo pensare di avere un dipendente che richiede tanto impegno tutti i giorni mi fa sentire stanco.

Questi atteggiamenti possono darci un vantaggio, se sapremo invece lavorare bene ed essere autonomi nell’eseguire i compiti. 

Quindi siamo salvi? Non è detto: sono difetti difficili da “curare”, ma non impossibili. E quando si parla di migliorarsi…

Gli indiani possono migliorare più di noi? Sì, perché… 

Ho notato una cosa molto interessante sugli indiani: sono grandissimi consumatori di libri di miglioramento personale.

I negozi di libri che abbiamo visto ne hanno un sacco, fatti da autori locali ma anche tantissimi titoli che vengono dall’America, anche molto recenti e ben fatti. 

Ne comprano tanti, e li ho visti anche leggerne, in treno o in altre situazioni.

Non tutti possono essere d’accordo sull’utilità di questo tipo di libri. Tanti sono effettivamente delle cavolate, o delle banalità. Ma secondo me possono dare intuizioni utili, best practise, idee. Alcuni danno delle informazioni che secondo me dovrebbero insegnare a scuola. Su come funziona la mente, su come pensare meglio, su come imparare meglio.

E’ da alcuni di quei libri che ho scoperto la meditazione e ho iniziato a praticarla, e anche solo per questo è valso la pena leggere tanti libri che invece sono stati inutili.

E a proposito di meditazione

Gli indiani sono nati nella patria della meditazione.

Io l’ho scoperta tardi, e ci ho messo anni a sentirne i benefici, ma secondo me è uno strumento molto potente per lavorare sulla nostra mente e può cambiarti la vita. 

Noi dobbiamo studiare e faticare moltissimo per fare progressi, se mai ci riusciamo e se siamo abbastanza fortunati da capirne i vantaggi. Loro nascono in una cultura dove pratiche simili sono normalissime, dove la mindfulness la imparano prima ancora di andare a scuola. E’ un altro grosso vantaggio che hanno su di noi.

Questa spinta a migliorarsi degli indiani mi preoccupa molto. Perché mette una gran pressione addosso sapere che ci sono persone che si sbattono ogni giorno per cercare di diventare meglio di te.

Ma per nostra fortuna credo che anche qui ci siano un paio di fattori che giocano a nostro favore.

Perché gli indiani non ci supereranno

La meditazione apre la mente, lavorare su se stessi ti rende migliore, la spinta a migliorarsi è importante per evolvere.

Ma la spinta a migliorare, per essere veramente efficace, deve venire da un sentimento di inferiorità. Se credi di essere meno bravo, meno capace degli altri concorrenti ti darai da fare ancora di più, per superarli nell’impegno se al momento non puoi vincere con il talento.

E in questo gli indiani potrebbero essere, inaspettatamente, in svantaggio. 

Gli indiani hanno un forte orgoglio per la loro nazione, la loro cultura, la loro civiltà. Questo viene fuori spesso parlando con loro, sia con le persone di cultura che con le persone più normali, del “popolo”. Amano il loro paese, credono che la loro civiltà sia la più antica, la più giusta, la più evoluta. Possono riconoscere dei difetti da migliorare, ma non si sentono secondi a nessuno.

E questo sentimento si trasmette in un pò di superbia, il pensare che comunque sono già migliori degli altri, se gli altri sono stranieri.

Ma c’è un altro punto debole che non riusciranno a superare facilmente. Anzi, potrebbe aggravarsi e danneggiarli ancora di più con il tempo.

Parlo della loro dipendenza dai cellulari.

Noi magari ci preoccupiamo del tempo che sprechiamo al telefono, o di quanto i nostri bambini stanno davanti allo schermo. Ma non è nulla in confronto al rapporto degli indiani con il loro cellulare.

Lo usano in continuazione. Si telefonano e si scrivono in continuazione. Si fanno selfie e foto ad ogni occasione. Guardano una marea di video. Se hanno un attimo di tempo tirano fuori il telefono e si perdono in quello.

Per i bambini è lo stesso. I genitori hanno un approccio molto laissez faire con loro, quindi tendono a tenerli buoni mettendo su un video e piazzandoli davanti al cellulare, ancora di più che qui in Italia.

Secondo me questo avrà conseguenze devastanti sulla loro capacità di concentrazione, sulla tendenza a procrastinare, e su quanto tempo ed energie potranno dedicare a migliorarsi, studiare, e in generale a superarci nel mondo del lavoro.

Forse non hanno i nostri stessi “anticorpi”, noi che veniamo dalla televisione, dal pc, dai videogiochi e altri media simili. Loro si sono trovati di colpo in mano uno strumento pervasivo che divora la tua attenzione.

E questo potrebbe essere la nostra salvezza.

Gli indiani ci conquisteranno? Dipende…

Confesso che sono un pò preoccupato di quello che il futuro potrebbe portarci. E’ difficile calcolare il possibile impatto, così come era e rimane difficile calcolare che impatto avrà sul nostro lavoro l’intelligenza artificiale.

Negli scenari peggiori (per noi), ci troveremo una marea di ragazzi indiani formati, skillati, e affamati a competere per le nostre stesse posizioni. Mi immagino parecchi datori di lavoro pronti a trovare il modo di approfittarne.

Negli scenari migliori gli indiani si troveranno a competere più con le intelligenze artificiali che direttamente con noi. Andranno a fare quel tipo di attività più facili da esternalizzare, ma senza riuscire a competere sui compiti più complessi e meno definiti.

Credo che alla fine la capacità di produrre risultati, di fare un lavoro di qualità, operando in autonomia, senza necessità di supervisione, rimarrà un modo sicuro per essere impiegabili. Aumenta la quantità di concorrenza, ma non riuscirà a competere con la qualità. 

Homestay in India: vivere davvero come gli indiani

Quando siamo partiti per l’India avevamo un sacco di appunti ma non molti punti fissi. Avremmo deciso man mano dove andare, quanto stare, cosa vedere. Ma una delle esperienze da fare era stare qualche giorno in homestay.

Cosa significa homestay? Nel posto giusto, vuol dire stare in una sistemazione molto intima, condividendo spazi e tempo con una famiglia che ti ospita.

Noi abbiamo fatto un’esperienza così quando siamo andati al Chhotaram Prajapat Homestay. Si trova a Salawas, vicino a Jodhpur, ed è uno dei luoghi che non dimenticheremo mai anche se quasi nessuno lo conosce.

Come abbiamo scoperto e scelto il nostro homestay indiano

Perché abbiamo scelto proprio questo homestay?

Durante le nostre ricerche ho letto un lungo post su un blog di viaggio. Lo potete vedere qui su The Wandering Quinn.

Ci siamo innamorati dell’idea di passare qualche giorno in famiglia, fuori dalla città, mangiando cose buone. 

Quando siamo arrivati a Jodhpur è tornato qualche dubbio. Ne vale la pena? Forse faremmo meglio a non perdere così tanti giorni? Forse costa un pochino “troppo”, e vogliamo viaggiare spendendo il meno possibile?

Ma alla fine abbiamo pensato: quando ci ricapita di fare un’esperienza simile? E così, dopo un lungo scambio di mail con Chhotteram, non vedevamo l’ora di iniziare.

Come è Salawas, e come è l’homestay

Dalla stazione di Jodhpur ci hanno caricato su una jeep aperta e siamo partiti di slancio. Solita guida spericolata, ma stavolta su un veicolo aperto, sospensioni belle rigide, e sedili che guardano a lato e non di fronte. Ad ogni rallentatore, e in India le strade ne sono piene, saltavamo in aria per atterrare sul sedere.

Dopo venti minuti la città ha iniziato a fare spazio alla campagna, o almeno a quella terra un pò desolata e deserta del Rajasthan. Le strade sono diventate sempre più strette, sempre più sterrate, le case sempre più semplici. Eravamo davvero in campagna

Salawas, il paesino che ospita l’homestay, è un posto carino da visitare, ma non ci vivrei, come si dice in questi casi. Un pò polveroso, sia metaforicamente che letteralmente. Tranquillo, un pò fuori dalle principali rotte turistiche, case un pò malridotte e in tanti casi parecchio malridotte.

L’homestay era una cosa molto particolare, che non avevamo visto prima. Le foto che avevamo visto non rendevano giustizia, bisogna andare dentro a vederlo di persona.

Su un appezzamento di terreno rettangolare c’erano una serie di edifici. Alcuni normali, rettangolari, a uno o due piani, erano i vecchi edifici della fattoria da cui sono partiti. C’erano due cortili che, come nelle fattorie, servono un pò per tutto: magazzino, parcheggio, sala da pranzo all’aperto, area relax… 

Al centro c’era una piccola casetta separata: la cucina. Era bellissima. Come un piccolo cottage, una sola stanza, con un camino con un grande fuoco aperto, piccole finestrelle per fare entrare un pò di luce.

Tutto il resto dello spazio era occupato dalle mud hut per l’homestay. Dieci capanne a pianta rotonda, marroni, alcune decorate con disegni sui muri, tutte con il loro bagno. Come sono state costruite? Fango e cacca di mucca. La cacca è molto importante: seccata non puzza in nessun modo, ma tiene lontane le zanzare.

Ci siamo innamorati del posto a prima vista!
Ci piaceva tutto: la cucina vecchio stile, le capanne rotonde, i colori marroni e terra, i portici e il fatto che le aree comuni fossero tutte aperte e all’aperto.

La storia del Chhotaram Prajapat Homestay: dalle stalle alle stelle

Mentre prendiamo il primo di una lunga serie di chai, Chhotaram ci ha raccontato un pò come era nata la loro attività. E’ proprio una di quelle storie di successo inaspettato che piacciono tanto a tutti.

La loro attività tradizionale di famiglia è fare tappeti al telaio, intrecciando i fili di lana o di cotone. La tecnica si chiama Dhurrie. Degli stranieri dalla Gran Bretagna sono venuti ancora prima del 2010 per vedere questa lavorazione artigianale, e hanno chiesto di rimanere anche a dormire.

E così, senza sapere bene che fare e senza esperienza di accoglienza, li hanno ospitati nelle uniche stanze che avevano: le loro, e hanno dormito fuori. Era il loro modo di fare le cose.
Non c’erano bagni, loro andavano in mezzo ai cespugli, e non è stato facile spiegarlo.

Ma gli inglesi sono rimasti lo stesso a dormire, a mangiare, a vivere lì. Loro hanno interagito come fossero gente normale, trattandoli come ospiti, senza pensare di offrire nessun servizio particolare. Non sapevano neppure parlare inglese, solo poche parole.

Poi hanno iniziato ad arrivare in visita altri amici di questi primi inglesi, spesso senza neanche avvisare, anche perché non c’era modo di farlo.

Così hanno iniziato a imparare l’inglese, parlando con le persone che arrivavano.

Un loro ospite e amico ha iniziato a convincere Chhotaram che doveva iniziare a far pagare per dormire.
Che cosa assurda! Non potevano far pagare gli ospiti, non si fa. Alla fine ha pensato di far pagare almeno i pasti, perché per quelli bisogna almeno comprare gli ingredienti.

Quanto far pagare? Secondo il suo amico almeno 1.000 rupie al giorno. Mille rupie? Una cifra folle. Ma poi è stato convinto a chiedere almeno 800 rupie. Era giusto farlo, anche per mantenere la famiglia.

E così iniziano a organizzarsi, a imparare un pò come fare, seguendo i consigli degli amici che venivano a stare da loro. Questo succedeva intorno al 2010. Fino al 2008 non avevano neppure l’elettricità in casa…

Per collegarsi al mondo lo stesso amico gli ha aperto un indirizzo email e gli insegna a usarla e ad andare su internet. Ci mette 1 ora al giorno per una settimana. Per guardare la mail andava in città in un internet cafè, una volta a settimana, per un’ora.

Quando ha iniziato ad andare sempre più spesso, si è deciso a comprare un computer con un finanziamento del governo, ma non c’era la linea per internet. Alla fine è arrivato anche il cavo del telefono, per una connessione 56kbps. La usava di notte, quando era più veloce, e ci metteva comunque un’ora per scaricare la posta e rispondere a qualche messaggio.

Hanno iniziato con una capanna di fango e cacca di mucca, in modo da avere una stanza da dedicare solo agli ospiti. Non c’erano bagni sulle camere, e non aveva neanche mai visto un bagno all’occidentale. Un altro amico lo ha aiutato: sono andati in città a comprare i materiali e poi hanno costruito il primo bagno.

Piano piano sono cresciuti. Quando la blogger ha scritto l’articolo che mi ha convinto c’erano 6 capanne, quando siamo andati noi erano 10, lui vuole arrivare a 11, è un numero che gli piace.

E poi hanno iniziato ad aggiungere le altre attività: i safari village, le passeggiate al tramonto,le cooking class, la nuora che fa i vestiti…

Adesso tutta la famiglia è coinvolta in vario modo, e c’è un continuo traffico di turisti che guardano il dhurrie, o che si fermano qualche giorno, o che fanno i safari, e così via. E’ anche stato in altre parti dell’India a parlare della loro esperienza come di un caso di successo.

Veramente una storia “dalle stalle alle stelle”.

Come viviamo l'homestay

Dopo il benvenuto, il chai, i racconti siamo entrati nella nostra “casa lontana da casa”.

Siamo entrati con i nostri bagagli e da subito ci siamo sentiti molto bene. Era comoda, era pulita, era silenziosa. In una parola: era perfetta.

Ci siamo messi in un tavolino appena fuori la capanna, sotto l’ombra degli alberi, su delle sedie un po' sgangherate ma comode. In quel momento eravamo gli unici ospiti dell’homestay, la maggior parte della famiglia era altrove, c’era un silenzio e una pace quasi irreali, specialmente dopo il caos e il trambusto di settimane di India.

Ci siamo rilassati, abbiamo letto i nostri libri, abbiamo scritto sui nostri travel journal, Alessia ha fatto cose su Instagram, io ho fatto cose al computer. Nessuna fretta, nessuna tensione, solo serenità e fare quello che volevamo.

Abbiamo deciso quasi subito di rimanere più a lungo del previsto, già dopo poche ore. Volevamo rimanere due giorni e poi andare al monte Abu, ma l’albergo che abbiamo prenotato continuava a non rispondere alle nostre domande, e lì si stava così bene: perché non restare di più?

E così le giornate di viaggio più frenetiche e faticose delle prime settimane hanno rallentato, hanno preso i ritmi lenti della campagna indiana. Noi poi potevamo essere ancora più lenti, visto che non avevamo impegni o obblighi di nessun tipo. Davvero una situazione da sogno.

La famiglia che ci ha accolto in homestay

La famiglia che ci ha accolto era molto numerosa. Come tantissime famiglie indiane è fatta da diversi nuclei familiari che vivono insieme. Ci sono Chhotaram, il titolare, il fratello, che lavora con lui, e le rispettive mogli e figli. Spesso, quasi ogni giorno, passano anche a trovarli i genitori, che abitano nello stesso villaggio.

Chhotaram fa un po' da capofamiglia e da rappresentante di tutto l’homestay. Accoglie e gestisce gli ospiti, organizza tour e lavori, e così via. E’ un omone con gran baffi, sempre attivo su qualcosa, sempre pronto a fare due chiacchiere o a chiedere se ci serviva qualcosa.

La moglie Mamta è una signora deliziosa, con un sorriso gentilissimo. Sempre impegnata in cucina, o in qualche altro lavoro intorno all’homestay.

Leela è la moglie del fratello di Chhotaram, una ragazza più giovane, che fa anche la sarta e fa vestiti come Alessia! Si sono trovate a parlare un po' dei loro lavori, le ha mostrato i vestiti e il suo laboratorio: la sua camera da letto.

E poi ci sono i bambini. Non so dire quanti sono, forse una decina. Uno dei fratelli li caricava in jeep la mattina e li portava a scuola, poi tornavano il pomeriggio.

Due di loro erano piccolini e restavano in homestay. Erano giocherelloni, curiosi e sorridenti, e venivano spesso a vedere cosa facevamo. Ogni tanto abbiamo giocato con loro, perché erano sempre così allegri e ridevano per un nonnulla.

Vivere con una famiglia indiana è un’esperienza unica e profonda

Da una parte credevo che “homestay” fosse una cosa un po' turistica, e che la famiglia se ne sarebbe stata un po' per i fatti suoi. Dall’altra temevo che potesse esserci un po' di imbarazzo a stare troppo a contatto con altra gente che non conosco.

Entrambi i miei dubbi erano infondati. Siamo stati subito considerati come parte integrante delle loro giornate, ci salutavano e chiacchieravano con noi quando c’era l’occasione, ci lasciavano ai fatti nostri quando erano impegnati. Tranne i bambini, loro erano un fattore di caos, in senso buono.

E vivendo  a contatto con loro, per un po' di giorni e in maniera prolungata, abbiamo imparato un sacco sulla vita quotidiana degli indiani, le loro piccole abitudini, il modo in cui interagiscono tra loro, i rapporti familiari…

Abbiamo visto dettagli e particolarità che non puoi vedere in nessun altro modo, che nascono proprio dal condividere lo stesso momento, dall’essere lì mentre succedono e avere l’opportunità di notarle perché non stai facendo niente altro.

Per esempio le donne non mangiano con gli uomini, o almeno non è mai successo mentre eravamo lì. Mangiano mentre cucinano, mangiano dopo, o in altri momenti. Ma durante il pasto rimangono un po' in disparte, e tengono d’occhio che sia tutto a posto o se serve altro. Per noi è una cosa un po' difficile da concepire.

Ci sono anche un sacco di regole nei rapporti familiari che abbiamo colto solo in parte. Ad esempio la nuora di Chhotaram non poteva parlare mentre lui era in cucina, doveva aspettare che uscisse per riprendere a parlare con Alessia. Anche Mamta, quando era presente il padre di Chhotaram, parlava sottovoce al marito che poi riferiva al padre.

Il galateo che seguono a tavola è molto diverso dal nostro, e mangiare con le mani non è neanche l’aspetto che ci sembra più strano. 

Quando cucinano il chapati, che per loro è come il pane ma ancora più importante, ne fanno in proporzioni prestabilite: tre per loro, uno per la mucche, uno per i cani. E le mucche e i cani non sono neanche loro, danno semplicemente da mangiare ai randagi e alle mucche che si aggirano per le strade.

I bambini sono lasciati in completa libertà mentre i grandi fanno in loro mestieri. Già da piccoli girano per conto loro, giocano, fanno un po' di tutto senza supervisione. Poi bene o male sono dentro la proprietà, quindi non possono andare a cacciarsi in guai troppo seri.

L’attività di Leela, fare vestiti, è un’attività “residua” da fare quando non ci sono altri lavori comuni. Magari da fare la sera. Altrimenti deve aspettare quando ha tempo ed energie.

Il cibo in homestay è un’altra cosa

Non possiamo parlare di questa esperienza e di questi giorni senza dare uno spazio speciale al cibo.
Mangiare qui è stata un’esperienza meravigliosa che consiglio a tutti. Raramente abbiamo mangiato così bene, così tanto, così vario.

Abbiamo mangiato più di una dozzina di pasti, e ogni volta era un banchetto.
Ci trovavamo davanti almeno tre o quattro cose da mangiare, e solo un paio di volte ci sono state delle ripetizioni. Sempre prelibatezze nuove, tutte buonissime, tutte tradizionali, tutte sane e genuine, e ovviamente tutte vegetariane. Anche per me, che invece la carne la apprezzo molto, l’ultimo punto non è stato un problema.

Anche i signori indiani che erano nostri compagni di homestay hanno fatto una montagna di complimenti alle cuoche, ripetendo più volte che tanti piatti non li avevano mai provati, o non erano mai stati così buoni. “Piatti così non li trovi in nessun hotel” dicevano, e ne sono convinto.

Tra le cose che hanno apprezzato di più, e che anche noi abbiamo amato, c’era il millet bread cucinato sul fuoco del caminetto. Non cercatelo su internet, vengono fuori altre cose, e anche le foto più simili non rendono affatto l’idea di quello che abbiamo mangiato. Si sentiva proprio che era genuino e fatto a mano, e ogni volta ne mangiavo una quantità esagerata. 

Pagare per la pensione completa è stato uno dei migliori investimenti che ho fatto, e non rimpiango neanche per un secondo il prezzo pagato (che comunque per gli standard europei è una miseria).

Vita in homestay: cosa vuol dire timelessness

I giorni successivi in homestay sono stati un po' una ripetizione del primo: mangiare, rilassarsi, mangiare ancora, starsene sereni, mangiare ancora, dormire bene.

Per il resto ci impegnavamo molto... a fare il meno possibile. Non è stato per niente facile. La testa cercava sempre di farci fare qualcosa: studiare, fare ricerche, scrivere, chiedere che attività offrivano. Ma abbiamo cercato di resistere.

La coppia di signori indiani che è arrivata poco dopo di noi ha detto di averci visto rilassarci al tavolino sotto gli alberi, e di essere stati ispirati dal nostro esempio. Erano arrivati dall’altra parte dell’India per visitare Jodhpur e fare questo e quello, ma hanno deciso di passare molto più tempo in homestay in relax.

La parte più bella di queste giornate, così difficile da vivere altrove, è stata il senso di timelessness che evocavano. Sembrava di essere in una sensazione “senza tempo”, dove ogni momento sembra uguale a quello prima, ogni giornata uguale a quella prima e a quella dopo.
Se me lo avessero raccontato prima del viaggio, mi sarebbe sembrato di una noia mortale. 

Ma in quei giorni, in quella situazione, avremmo voluto che non finissero mai.

Momenti ed esperienze memorabili in homestay indiano

In mezzo a questo periodo sospeso nel tempo, ci sono stati dei momenti memorabili che brillano tra i nostri ricordi.

Uno di questi è la cooking class che abbiamo fatto il primo pomeriggio. E’ stato un vero tour de force: abbiamo iniziato alle due e abbiamo finito per metterci a tavola alle otto di sera!

Siamo partiti facendo il chai, e uno snack che a loro piace molto.
Poi abbiamo raccolto le verdure dall’orto e siamo andati a comprare ingredienti al mercato.
Abbiamo pelato e tagliato le verdure.
Abbiamo messo in pentola e mixato con spezie di tutti i tipi.
Abbiamo preparato il chapati e lo abbiamo messo sul fuoco (a mani nude, come fanno loro).
Alla fine abbiamo fatto la bellezza di nove piatti diversi. Mamta e Leela sono state delle maestre bravissime ed esigenti: non c’era riposo, bisognava cucinare!

La sera ci siamo mangiati tutto quello che avevamo preparato insieme, ed è stata una soddisfazione vederli mangiare quello che avevamo cucinato. Ok, il merito era di Mamta e Leela, ma abbiamo almeno dato una mano. 

Altri ricordi che ci rimarranno impressi sono le chiacchierate fatte mangiando insieme. 

Chhotaram è un conversatore esperto, capace di raccontare aneddoti, spiegare usanze e costumi, commentare la situazione dell’India moderna, e molto di più. 

Anche parlare con gli altri ospiti indiani è stato un piacere. il signor Nikunja Kishore era una miniera di informazioni sulla mitologia indù: gli dei, le storie, le leggende. Ma parlava anche della situazione socio economica dell’India, del suo passato, del suo presente, e del suo futuro. Sua moglie ogni tanto lo correggeva, ogni tanto lo aiutava o aggiungeva dettagli.

Condividere il cibo, parlare un pò, cercare di capirci a vicenda, rendeva ogni pasto un piccolo momento speciale.

Alessia ha anche avuto l’occasione di vivere un momento molto “quotidiano” con le donne dell’homestay. Dopo qualche giorno che stavamo lì eravamo ormai di casa, e si è offerta di aiutarle con la preparazione della cena

Così nel pomeriggio è andata con loro in cucina, e si è messa all’opera. Ha pelato e tagliato quantità enormi di verdure, ha chiacchierato un po' con loro, ha condiviso un momento che per loro è una parte importante della giornata, in un luogo che è un po' esclusivo per loro. Gli uomini passano per la cucina solo per brevi momenti, quello è il regno delle donne.

Ora che ci penso, tutte queste esperienze hanno una cosa in comune: il cibo. E’ davvero un modo di connettere le persone, più importante di quello che pensiamo.

Fine dell’esperienza in homestay

Dopo qualche giorno di vita beata in homestay, ci sembrava quasi che non potesse esserci nulla di meglio. Avevamo una mezza voglia di rimanere lì a tempo indefinito: ci compriamo la nostra capanna di fango e stiamo lì a goderci una vita serena e spensierata.

Ma alla fine abbiamo resistito alla tentazione, anche se a fatica.

Il ritorno alla realtà è stato duro: sveglia alle 4 del mattino, in jeep fino in stazione con il freddo delle cinque, e ore di treno per arrivare alla successiva destinazione.

Ci portiamo via i ricordi, le sensazioni, i sorrisi, le chiacchierate, la serenità, e tutto quello che abbiamo vissuto quando la vita rallenta e ti lascia vivere momento per momento.

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